Mio figlio comunica solo con lo sguardo e i sorrisi. È nato con una malattia rara e i medici gli avevano dato pochi mesi di vita. Invece è ancora qui con me e io assaporo questo dono
Storia vera di Stefania Moro
Raccolta da Antonella Tomaselli
Stamattina sono andata a lavorare. La vita è cara e non posso fare diversamente. Almeno per mezza giornata ci devo andare. Quando sono tornata, mi sono occupata della casa. Poi è arrivato Alex, tornava dal Centro, e siamo andati a fare un giro. Anche Emy è venuta con noi. Siamo rincasati giusto prima che rientrasse mio marito. Abbiamo cenato e siamo stati un po’ insieme. A parlarci fitto fitto. Adesso la casa è silenziosa. Solo il ticchettio dell’orologio in cucina: sono le undici. Sono un po’ stanca. Ma sì, andrò a letto. Prima però il bacio della buonanotte ad Alex e a Emy. Entro in punta di piedi nella cameretta. Mi siedo accanto al letto e li guardo alla luce morbida della lampada sul comodino. Dormono vicini. Lei appiccicata a lui. Due angioletti. Alex è mio figlio, Emy è il suo piccolo cane, uno Yorkshire. Lei non lo lascia. Mai. È acciambellata sul cuscino, con il muso fra i capelli di lui. Dormono tranquilli. Le ciglia lunghe di Alex vibrano per un attimo. Starà sognando? Gli sfioro la fronte con le labbra. Non si sveglia. Invece Emy, vigile, mi guarda. Piano piano si sposta, va vicino ai piedini di mio figlio. E lì ci resterà per tutta la notte. Lo so, fa sempre così. L’accarezzo e le do un bacio sul musino.
Il mio bambino è disabile. Dalla nascita. Lui non cammina, non parla, non va a scuola, non conosce altre realtà.
Alex nacque dopo un lungo travaglio concluso con un cesareo. Me lo strapparono via subito perché respirava male. Lo portarono in un altro ospedale, a Padova. Me lo ripetevo fino all’ossessione che in gravidanza era andato sempre tutto bene. Gli esami lo confermavano. Dunque non poteva essere niente di grave, no? Dopo cinque giorni, finalmente mi dimisero dall’ospedale e volai da lui. Terrore: il mio bambino era nel reparto di terapia intensiva. Non me lo aspettavo. Ma non c’era tempo per spaventarsi. Dovevo imparare ad accudirlo, a nutrirlo con un sondino che andava su per il suo piccolo naso e poi giù nel suo piccolo stomaco. Mentre i medici lo subissavano di analisi. Tre mesi in un’altalena di speranze e di paure. Con gli occhi sbarrati e il cuore in affanno. Poi la sentenza: «Suo figlio ha una malattia rara. Potrà vivere circa sei mesi. Al massimo un anno» mi dissero. Il mondo mi crollò addosso tutto in un colpo. Una mamma non può farcela quando sente queste parole. Non può. Come fa? A cosa può aggrapparsi? Ma io non volevo arrendermi. No! Lo amavo troppo. E mi stringevo piano al petto quel mio piccolo, dolce, bellissimo, indifeso, innocente bambino. Avrei dato la mia vita per lui. Fu così che mi aggrappai a ogni cosa, alla Madonna e a tutti i Santi. E alla mia forza. Non lo sapevo nemmeno di averne così tanta. Cominciava la mia guerra. Nessun colpo escluso. Era tutto ammesso.
Alex superò i sei mesi. E io lì, con il dolore e con il coraggio. Superò il primo compleanno. E io lì, con sofferenza e con speranza. Tre anni. I primi tre anni li trascorse senza dormire. Furono difficili. Al massimo riusciva a sonnecchiare tre ore su ventiquattro. Nemmeno tutte di fila, a sprazzi. Finalmente con uno sciroppo gli fu possibile coordinare i necessari momenti di sonno. Bene per lui, perché il suo stress era notevole. E, dài, bene anche per me che ero a pezzi. Anche se non mollavo. Quando Alex entrò in una specie di coma che sembrava non finire, portai la sua foto alla Madonnina nel santuario vicino, le chiesi la grazia. Quel giorno mio figlio si risvegliò. E con le sue manine si tolse il sondino che gli andava su per il naso. Piangevo di gioia. Poi imparò a mangiare. Tutto omogeneizzato, ma era una grande conquista. Però non durò molto. Acconsentii allora a fargli applicare una PEG, una sonda inserita nello stomaco. Esce da un buchetto vicino all’ombelico ed è attaccata a una macchina che pompa il nutrimento.
È così che il mio Alex si alimenta da tanto tempo. Sì, perché il mio bambino tra poco ne compirà quindici di anni! In barba a tutte le previsioni!
La mia vita è cambiata da quando c’è lui. Io vivo per Alex e resto forte per lui. I medici mi avevano consigliato di tenerlo in casa, protetto. Anche un semplice raffreddore sarebbe stato terribile. Ma non volevo privarlo del sole, della vita fuori. Lo sentivo che era giusto che uscisse. Lo portai dappertutto. Anche dal Papa.
In paese lo adorano. Tutti pazzi per Alex: io, il suo papà e chiunque lo conosca. Pure Emy. Lei arrivò quattro anni fa. Mi fu regalata. Mio marito all’inizio era scettico, ma si ricredette presto. Emy aveva allora sette anni. Quando la presentai ad Alex, lui ritrasse subito le manine, non aveva mai sperimentato il pelo di un cane. Anche Emy indietreggiava, intimorita da un bimbo che non conosceva. Ma ci misero poco a diventare una cosa unica. Spesso Alex, quando è sulla carrozzina, mi fa capire che vuole prenderla tra le braccia. Allora gliela porgo. Lui la prende e sorride, ride. Lui comunica così: con i sorrisi e con i suoi occhioni belli che si illuminano. Emy allora lo copre di baci. Lei è la sua sorellina, la sua guardia del corpo, la sua infermiera, il suo angelo. Quando siamo a spasso, se vede qualcuno un po’ agitato che si avvicina ad Alex, tira fuori una grinta incredibile, ringhia e mostra i denti. Una tigre che difende il suo cucciolo!
Nonostante le cure, Alex soffre di crisi epilettiche. Emy le percepisce prima che si scatenino. Chissà come fa. Quando sta per arrivare una crisi gli balza addosso e lo lecca freneticamente. Se non sono lì accanto mi chiama. Metti che sono in cucina, allora lei arriva di corsa e abbaia forte. Agitata. Si calma quando la seguo da Alex. E ancora mi avvisa quando la pompa che nutre mio figlio dà il segnale che qualcosa non va.
Sono belli quando accendo il televisore e loro due sono lì, abbracciati a godersi un programma sereni. Ecco, Emy trasmette serenità ad Alex.
Io parlo tanto con il mio bambino, gli racconto del rumore del mare, del silenzio delle montagne, del tremolio delle stelle, del suo nonno che lo amava tanto. Anche se i medici mi dicono che lui non può comprendere, io gli racconto. E sono sicura che lui capisce. Forse non tutto, ma un po’ sì. Lo dicono i suoi occhi che si accendono. Polvere di felicità che si posa su di noi. E noi la accogliamo. La riconosciamo. Alex mi ha insegnato tanto. La gioia nascosta nelle piccole cose. E il senso della vita. Vivo giorno per giorno perché ogni giorno è regalato. So qual è la realtà: Alex può volare in cielo da un momento all’altro. È così da quando è nato. Eppure è ancora qui. E io lo assaporo questo dono. Senza fretta, pienamente. Ogni istante colmo di mio figlio. Adesso è proprio ora di andare a letto anche per me. «A domani» sussurro ai miei due piccoli. Ed è una promessa. ●
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ultimi commenti