Vendetta o perdono? è il titolo di un articolo su Confidenze in edicola adesso. Perdono!!! è la mia risposta convinta, convintissima.
Questo non significa che davanti a un torto, un tradimento, un gesto antipatico reagisca con un sorriso e la voglia irrefrenabile di giustificare chi li ha commessi. Assolutamente no.
Nell’ordine, infatti, provo sgomento, sorpresa, magari dolore, di certo odio. Tutti sentimenti, però, che piano piano lasciano posto a un profondo senso di delusione. E mi avvolgono in una tristezza tale da svuotarmi anche dal desiderio di urlare vendetta.
Naturalmente, lo scoramento è direttamente proporzionale allo sgarbo subìto. E all’importanza della persona responsabile. Paradossalmente, però, più si tratta del Signor Nessuno e più mi incazzo.
Morale, se a ferirmi è qualcuno di caro, il mio atteggiamento (almeno apparentemente) è quello di un navigato giocatore di poker. Che rimane sempre impassibile, sia che abbia tra le mani una scala reale servita o cinque scartine da schifo.
Vado con ordine, facendo qualche esempio. L’automobilista che fa una brutta manovra o che mi insulta perché l’ho fatta io mi manda su tutte le furie. E scatena i pensieri più truci del genere: «Se avessi un Hummer ti schiaccerei come un moscerino».
Dopodiché, conscia del pericolo di litigare per strada (ormai ci sono in giro i matti e rischi una coltellata per un semaforo giallo), mi trattengo (anche perché l’Hummer non ce l’ho). Ma in fondo in fondo, penso che se lo stronzo di turno si schiantasse all’incrocio successivo sarebbe una bella rivalsa.
Quando, invece, parliamo di affronti più seri, con l’aggravante dell’essere sferrati da gente che pensavo mi volesse bene, la mia ansia di vendetta è pari a zero. Come dicevo, ci rimango davvero male. Eppure, sulla bramosia di tramare chissà quale rappresaglia prevale una sorta di indifferenza.
In altre parole, non mi sogno minimamente di fargliela pagare, perché ormai ai miei occhi quella persona è cancellata. Quindi, non devo neppure prendermi la briga di decidere scientificamente di non averci mai più a che fare, dato che l’interesse nel continuare a frequentarla si è già dissolto da solo.
Questo significa che se la vita ci porterà a incontrarci, sarà come bere un caffé al bancone di un bar accanto un avventore qualsiasi. Un perfetto sconosciuto che, una volta appoggiata la tazzina, uscirà dal locale senza che me ne accorga.
Un atteggiamento del genere non vuol dire perdonare? A mio parere sì, visto che non sento la necessità di pareggiare i conti rendendo pan per focaccia.
Vero è, invece, che di fronte al male non dimentico. E se la mia natura non ama affrontarlo con un’altra (inutile) razione, sentirmi offesa o tradita è una fonte di sofferenza che lascia il segno.
Perciò, capisco che qualcosa si è rotto in modo definitivo. E che è giunto il momento di dividere le strade.
Il che può succedere senza scenate, urla o tentativi di patetiche spiegazioni. Ma, appunto, con lo stesso aplomb del pokerista a cui accennavo sopra.
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