A 24 anni il fisico è giovane e ricettivo a mille. Non a caso, dal momento in cui ho pensato di avere un bambino a quando ho scoperto di essere incinta è passato solo un mese. E il secondo bebè si è annunciato appena ho smesso di allattare il primo.
Quindi, in meno di un anno e mezzo mi sono ritrovata doppiamente mamma, senza la minima fatica né il timore di non diventarlo mai. Ma di tanta fortuna mi sono resa conto solo più tardi, sentendo amiche e colleghe in cerca di gravidanze che non arrivavano.
Ve ne parlo perché su Confidenze in edicola adesso c’è una lettera che la psicoterapeuta Maria Rita Parsi ha scritto a Libera. Cioè, A una donna che non può avere figli (che poi è il titolo dell’articolo).
Affetta da un problema che sotto questo profilo non le dà speranza, Libera vive malissimo la sua condizione. E questo accade nonostante abbia un bel lavoro, una vita ricca di interessi e un marito al quale vuole molto bene e con cui va super d’accordo.
Cerco allora di mettermi nei suoi panni, ma capisco che è assolutamente impossibile. Tutta la scioltezza con cui sono riuscita a mettere al mondo i miei bambini, infatti, non mi consente neanche di immaginare il dolore che può provare chi non ce la fa.
Eppure, mi viene lo stesso tanta voglia di consolare la nostra lettrice, dicendole che se il destino ha deciso così, forse (e sottolineo il forse perché so che non è facile) varrebbe la pena farsene una ragione.
Poi, però, mi viene in mente che fin da bambine noi donne ci comportiamo come future madri. Tant’è che accudiamo i fratellini più piccoli, giochiamo con le bambole e, sebbene in versione infantile, siamo già pervase da tanti altri atteggiamenti tipici di chi è nato per crescere cuccioli.
E se l’istinto materno ci caratterizza dalla più tenera età, entrare in quella giusta per dargli sfogo ma non poterlo fare è effettivamente dura.
Provo, allora, a pensare come sarei io se non avessi avuto figli. Probabilmente con un viso molto rilassato (coprire il ruolo di genitore e vivere di preoccupazioni è un tutt’uno). Libera di spegnere il telefonino quando vado a dormire (lasciarlo acceso significa permettere agli strufolini di contattarmi sempre e comunque). Ricca come Creso (i figli costano più di uno yacht). E indifferente al brutto andamento del mondo del lavoro (perché se anche perdessi il posto avrei il mio malloppone intonso su cui contare e nessun giovanotto precario da aiutare).
Faccio un bilancio e mi accorgo che, comunque, il gioco non vale la candela. Perché alle rughe da ansia genitoriale sono abituata e ci convivo benissimo. Il telefono acceso tutta la notte non mi dà fastidio, anzi: velocizza la consultazione di Google quando l’insonnia mi spinge a risolvere parole crociate in orari impossibili. E se il tesoretto sotto il materasso è l’unico dettaglio che renderebbe più tranquillo il futuro, è solo per offrire una spalla ai miei mostriciattoli in caso di bisogno. Perché non mi porterebbe certo alla guida di una Porsche né mi vestirebbe tutta griffata.
Ecco, allora, che confermo quanto possa essere frustrante non riuscire ad avere figli. Oltre al bene infinito con cui riempiono ogni tuo poro, danno quel senso di continuità alla vita di cui si parla sempre. Che non è, a mio avviso, il proseguimento della specie, ma la voglia di dare a profusione amore, attenzione e felicità a qualcuno che non sei tu. Che, poi, è il modo più egoista per sentirsi regine dell’altruismo.
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