“Tu mi credi una che non pensa, che non vede, che non sa. Ma io conosco bene le tue assenze, ho passato giornate intere a fissarle negli occhi, quando ti penso mi viene in mente la loro faccia, la tua ormai l’ho scordata da tempo. Mi sono imposta l’impossibile per andare avanti, ho imparato ad amare la mancanza, il vuoto a tavola, il vuoto a letto, il vuoto che entrava e usciva dalla porta di casa. Il vuoto a cui ogni mattina preparo giacca e cravatta, quello che non mi risponde al telefono e, quando lo fa, va sempre di fretta. Adesso vattene, facciamola finita, sparisci assieme a quell’altro che dici di non essere. Perditi, ritrovati, non m’importa, fai ciò che devi ma lontano da me. Almeno, potrò amare un vuoto reale e definitivo. Così starò meglio, forse mi sentirò una pazza guaribile. Perché tu fai ammalare la gente che ti sta accanto, Cesare, la esponi all’aria gelida della tua incoscienza. Possiedi il freddo insopportabile di chi non si è mai guardato dentro”.
Cesare Forti è l’uomo di cui ogni donna non può non innamorarsi. Bello, ricco, affascinante. Accessibile e inarrivabile. Padre di una bimba deliziosa, Maya. Marito di una donna splendida, Margherita. Cesare è l’uomo perfetto.
Cesare l’anima disperata. Cesare l’uomo solo, il figlio “cresciuto senza stima né fiducia, mio padre me le toglieva da sotto il naso, le faceva sue per ingordigia”. Cesare e le storie collaterali, le uniche vissute al centro, a cuore spoglio, senza copione. Cesare e l’ingordigia del bambino imprigionato, randagio in una cella gelida, quella del silenzio generato da relazioni parentali insistenti, malevole.
“Ammiravo mio padre, le sue parole erano mattoni da sistemare uno sopra l’altro per crescere in altezza, da cementare di giorno in giorno per evitare crepe e crolli. Non riuscivo a sentirne la verità nascosta e demolitrice, ciò che realmente erano, picconi ostinati che presto mi avrebbero raso al suolo. Di mio esiste lo scavo (…). Ogni singolo pezzo di questo grandioso edificio che mi rappresenta è opera di mani altrui. Ad altri ho lasciato la scelta delle mie misure e proporzioni”.
Cesare e Alma. Una donna, ancora. E le bugie da dire a Margherita. Il desiderio che sfugge dalle mani. È aprile. Il più crudele dei mesi, come scriveva T.S. Eliot nella sua Terra desolata.
Elena Mearini ha scritto un romanzo complesso che si legge con dolore e timore. Ogni pagina, ogni espediente narrativo, è una metafora dei legami e dei mandati familiari che castrano e avvelenano la crescita e la capacità di costruire e gestire relazioni adulte. Ci sono pagine nere, che parlano di morte. Morte fisica, morte del cuore, morte di prospettive, morte di ogni speranza. Se manca la capacità di saper parlare in modo sincero con se stessi non si può assistere ad altro: puoi godere, puoi raggiungere successi, puoi brillare, puoi tutto. In realtà la finzione, però, anche se messa in scena nel teatro migliore, è assenza di realtà. E quanto non è reale è, per definizione, semplicemente esanime, inesistente, morto.
Tradimento, ricatto, rimpianto, assenza di coraggio, codardia: Cesare è la risultante di tutto questo. Eppure vorremmo abbracciarlo.
Cesare è come se, raccontandosi, ci stesse ascoltando.
Non è facile, vivere.
Elena Mearini, È stato breve il nostro lungo viaggio, Cairo
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