Storia vera di Loredana raccolta da Giovanna Brunitto
Quello è stato l’anno in cui mi si è rotto tutto. Ho dovuto cambiare l’automobile per un guasto al motore, tivù e computer mi hanno abbandonata grazie a un fulmine che ha colpito il palazzo in cui vivo; la lavatrice, infine, ha smesso di perdere acqua solo quando l’ho buttata via definitivamente. Si è rotta anche la mia storia con Gianluca.
Dopo cinque anni di relazione, mi sembrava giunto il momento di qualcosa di più serio di weekend fuori città, cene e feste. Entrambi avevamo passato la trentina già da un po’ e sentivo l’esigenza di un rapporto più stabile, di qualcosa che potesse assomigliare alla creazione di una famiglia, ma lui non era d’accordo. Mi ha augurato di trovare presto un compagno serio, ha sottolineato più volte la parola “serio”, ed è uscito dalla porta e dalla mia vita. Ho provato a chiamarlo, ma non ha risposto. Qualche giorno dopo è arrivata la notizia della brutta malattia di mia madre e non ho più pensato a cercarlo. Ho percorso la strada da Nord a Sud della penisola ogni settimana per starle vicino, ma quel male se l’è portata via in pochi mesi. La sua perdita mi ha rotto il cuore.
L’anno è finito e non c’era più niente che si potesse rompere. I mesi successivi sono trascorsi quasi senza che ne avessi consapevolezza, aiutata dal mio lavoro che mi ha occupata totalmente. Ho lavorato senza fare neanche un giorno di ferie fino a dicembre. Ero stremata e soprattutto ero sola. Mia mamma amava l’ultimo mese dell’anno e per Natale organizzava grandi feste che riunivano la famiglia. Ma quell’anno lei non c’era e quindi avevo deciso che non sarei andata a casa dai miei. Era insopportabile l’idea di trovarla vuota o di essere, tra i miei fratelli, l’unica senza compagno o famiglia. All’inizio del mese, avevo accampato delle scuse di lavoro che mi avrebbero trattenuto a Milano e deciso che non avrei festeggiato le festività in nessun modo. Contavo sulla complicità della città meneghina che, con la sua forte vocazione lavorativa e i ritmi frenetici, mi avrebbe di certo aiutato a dimenticare le feste e la solitudine, o quanto meno a non ricordarmeli ogni minuto. Per me Natale è sempre stato l’odore dei mandarini, il presepe e la tombola in famiglia, non certo vetrine addobbate come passerelle e luci da stadio. A Milano non correvo rischi: qui del mio Natale non avrei trovato traccia.
La certezza è sfumata il giorno dopo Sant’Ambrogio, il 7 dicembre. Sono rientrata a casa prima del solito grazie a una riunione saltata all’ultimo minuto; il buio della notte non era ancora calato del tutto. Stavo aprendo il portone, quando ho sentito una nenia, una musica. Era il suono delle zampogne. Al centro del giardino condominiale, quattro zampognari erano intenti a suonare intorno a una nicchia dove il custode normalmente montava un brutto presepe fatto da lui e di cui andava fierissimo. Sono rimasta così colpita dalla musica che mi sono avvicinata. Quel suono mi era così familiare. Quando ero piccola, al mio paese gli zampognari comparivano agli inizi di dicembre e facevano il giro di tutti i portoni, suonando le musiche tradizionali del Natale. Ogni volta creavano stupore come fossero qualcosa di nuovo e allo stesso tempo confermavano un’antica tradizione.Le famiglie facevano un’offerta e loro erano tenuti in grande considerazione, come fossero i Re Magi venuti a festeggiare insieme a noi il Natale. Ecco, quel ricordo riportava alla mia mente una magia che non ricordavo più.
Ero senza parole e, quando hanno finito di suonare, avevo le lacrime agli occhi. Mi sono vergognata di questa debolezza e, senza neanche salutare, ho girato i tacchi e sono salita a casa mia. Una volta sul divano mi sono accorta di non aver fatto neanche un’offerta. Se mia madre avesse potuto vedermi, mi avrebbe rimproverata: «Loredana è Natale, la festa più importante dell’anno. Offri quello che hai e vedrai che il Signore ti ricompenserà mille volte di più».
Ma il silenzio della mia casa mi ha fatto dimenticare il calore che mi aveva invasa ascoltando la musica. Il giorno dopo con umore cupissimo sono ripassata dal giardino e ho dato uno sguardo al presepe. Non era il solito, questo era certo. Era molto curato nei particolari, con dei pastori bellissimi che riproducevano lavori artigianali. Ero intenta a guardare i particolari e non mi sono accorta che alle mie spalle c’era una persona.
Un uomo sulla quarantina, alto e con dei bellissimi occhi nocciola.
Si è presentato: si chiamava Andrea ed era il nuovo portiere che da sei mesi lavorava nel palazzo. Aveva la passione per i presepi e aveva chiamato gli zampognari, un gruppo di suonatori di Concorezzo, in provincia di Milano, perché senza le musiche della tradizione non gli sembrava Natale. Mi ha anche raccontato del suo arrivo a Milano e del nuovo lavoro che gli piaceva tanto. Ha detto anche che mi vedeva sempre sola, che spesso sembravo triste e che per questo non si era avvicinato prima. Ha smesso di parlare solo davanti al caffè che ha voluto offrirmi al bar e, sorridendo, mi ha chiesto come mi chiamassi. Gli ho detto il mio nome e poi sono andata di corsa al lavoro.
In metropolitana mi sono ritrovata a sorridere tra me e me, come non mi capitava da tempo. Andrea mi aveva avvolta con le parole e mi aveva guardata, tra una chiacchiera e l’altra, con i suoi occhi bellissimi. Grazie a lui mi ero sentita bella come non mi capitava da anni. Il tutto in una manciata di minuti. Quella mattina non sospettavo che l’avrei rivisto il pomeriggio. Mi aspettava nel portone: voleva accompagnarmi fino all’appartamento e strapparmi un appuntamento per il giorno dopo; avremmo ascoltato insieme la musica degli zampognari. Così, con quel suo modo di fare a tratti indolente, a tratti diretto e ruvido, Andrea mi ha preso il cuore tra una canzone e l’altra, senza quasi che io potessi opporgli resistenza. Alla Vigilia di Natale è venuto da me a cena. Abbiamo mangiato, giocato a tombola e poi siamo andati insieme alla messa di mezzanotte. Anche il resto della notte l’abbiamo trascorso insieme, parlando a lungo e facendo l’amore.
È stata la notte di Natale più bella che ho avuto, o forse no. Forse, a pensarci bene, la più bella sarà quella di quest’anno perché, se i tempi saranno giusti e le previsioni rispettate, saremo in tre: io, Andrea e la nostra bambina. In ogni caso, anche se dovessimo aspettare ancora qualche giorno per incontrarla finalmente e stringerla con amore tra le braccia, sarà comunque un momento meraviglioso perché, come ha detto Andrea l’anno scorso, è una festa che ognuno di noi si porta dentro. Non importa dove si è, con chi si è o se si sta attraversando un brutto momento. Se sappiamo cercare dentro di noi, troveremo senz’altro la forza e la fiducia per rinascere. Io, grazie a lui, l’ho trovata.
Pubblicata su Confidenze 52/2016
Foto: Istock
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