“Voto la storia ‘Fame d’Amore’. La protagonista racconta come è uscita dalla bulimia. Mi sono commossa. Un tema importantissimo. Bellissima” scrive Angela, una nostra lettrice, sulla pagina Facebook. Vi riproponiamo sul blog la storia vera pubblicata, sul n. 12, in occasione della giornata mondiale dedicata ai disturbi alimentari
Se potessi ritrovare la ragazzina che ero un tempo, compulsiva e bulimica, ossessionata dall’aspetto fisico, le direi di distogliere lo sguardo da se stessa. E di riempire quel vuoto aprendosi agli altri, senza timore del loro giudizio
STORIA VERA DI SERENA G. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI
Mi chiamo Serena, di nome e di fatto. Sono una donna realizzata. Ho studiato duramente e ho trovato il lavoro dei miei sogni. Sono carina, sto bene e tutto va per il meglio. Ecco, era questo il messaggio che volevo far arrivare. Questo era ciò che volevo sembrare. E per molti anni ce l’ho fatta a tenere in piedi questa recita, a far sì che tutti, più o meno, credessero a questa proiezione di me, finta, fasulla. Una fatica immane, uno sforzo costante che non generava altro che rabbia. Sì, perché dietro la facciata della donna giovane e in gamba si nascondeva in realtà una ragazzina bulimica e compulsiva che si era spinta fino al baratro estremo mettendo in serio pericolo la propria vita. Per molto tempo non sono riuscita a raccontare la mia storia, ad accettarla perfino. Troppo dolore e troppa paura confondevano le mie parole. Troppo tempo passato a nascondere la mia malattia. Ma oggi sento che ci posso provare. Posso tentare di buttare indietro lo sguardo e partire alla ricerca di quella ragazzina nel punto esatto in cui si è persa.
Sono stata una figlia amatissima, arrivata in una famiglia che mi ha attesa a lungo e con pazienza. I miei genitori mi hanno cresciuta con amore, tentando di colmare l’assenza di fratelli o sorelle, visto che già io per loro ero stata un miracolo. Se riguardo indietro, alla mia infanzia, ciò che trovo è solo una bambina un po’ sola, ma serena.
La scuola fu una scoperta. Mi piaceva, leggevo, studiavo molto più degli altri ragazzini. Ero abituata a stare con gli adulti e forse ero un po’ più matura dei miei compagni. I voti erano ottimi, i rapporti con gli altri bambini un po’ meno.
Ma ancora fin qui, niente di eclatante. Ancora troppo presto. Oggi so che il peggio doveva ancora arrivare. E lo vedo avvicinarsi da lontano. Nella memoria si fa strada un ricordo un po’ sfuocato pieno di buchi neri.
Mi rivedo in piedi davanti allo specchio della camera dei miei genitori e so che quello è il momento nel quale tutto ha avuto inizio. Avevo l’apparecchio ai denti, gli ormoni a fuoco, un corpo trasformato e rotondo, immaturo. Avevo 14 anni e dei compagni di scuola feroci, come solo i ragazzini sanno essere. «Cicciona, sei cicciona». Ero terrorizzata da queste parole che immancabili mi ferivano quasi ogni giorno a scuola. Mi sentivo sola e difettosa, una che i ragazzi si guardavano bene dall’invitare e le ragazze da includere nel loro gruppo. Non mi bastavano la protezione e l’affetto dei miei genitori, la stima degli insegnanti, i miei libri, i miei voti. Niente mi bastava più per spegnere quell’umiliazione e quella rabbia.
Mi rivedo a passeggio nella via principale della mia città con mia madre per comprarmi qualcosa da mettere. Risento la pesantezza delle mie spalle, del mio seno, le mie gambe grosse che si sfioravano mentre camminavo. E quei vestiti sempre scuri, che cadevano sempre male, sempre troppo o troppo poco, storti, offensivi, veritieri. Non c’era niente per me. Niente che mi salvasse dal giudizio degli altri. Giudizio che ribadiva implacabile la mia inadeguatezza e la mia goffaggine. Rivedo mia madre accarezzarmi, mentre io deglutivo inconsolabile l’odio per il mio corpo. Non l’avevo scelto, non l’avevo voluto e non l’avevo cercato quel corpo. Ma potevo cambiarlo.
Così è stato un attimo. Decisi che sarei cambiata, dimagrita, migliorata e conformata. Mi avrebbero apprezzata e perché no? Accettata e amata. Non è questo che in fondo tutti vogliono? Accettazione e amore. Accettazione e amore, essenziali per vivere. Chi ero io per non doverne beneficiare? Ce l’avrei fatta, a costo di morire. Cominciò così, in quell’istante, quella che chiamo la fase uno del mio percorso. Iniziai una serie di esercizi fisici quotidiani e contemporaneamente smisi di mangiare. Faticoso sì, ma ero certa che il gioco ne valesse la candela. Quello che non sapevo ancora era che, senza accorgermene, nel giro di poco tempo non sarei più stata io a dettare le regole di quel gioco.
Il mio quasi digiuno giornaliero consisteva in un solo caffè amaro e due cracker al mattino e un’in- salata la sera. Niente pranzo. Al suo posto camminate lunghissime e serie di addominali la sera prima di dormire. Ai miei genitori dicevo che mangiavo fuori, di tutto e troppo. In realtà mi sfiancavo a poco a poco, senza sosta e indulgenza, perché non potevo fallire. Dovevo arrivare fino in fondo. E in fondo ci arrivai. Eccome.
La mattina in cui svenni e caddi nel bagno del liceo andando a sbattere la testa contro il lavandino, chiamarono i miei e un’ambulanza. Mi svegliai dietro un separé del Pronto soccorso mentre un giovane medico stava parlando con i miei genitori.
«Dai valori del sangue risulta una forte anemia, carenze minerali e vitaminiche severe…».
Mia madre non fiatava, sembrava ipnotizzata. Sbatteva le palpebre, incredula. Mio padre invece ascoltava e si asciugava gli occhi con il dorso della mano, ogni tanto tirava su col naso. Ricordo il dolore che provai. Ma non fu sufficiente.
Ero arrivata a pesare 49 chili per un metro e 70. Finalmente gli stessi ragazzini feroci che un tempo mi davano della cicciona ora si accapigliavano per poter uscire con me, anche solo per un gelato. Che io non toccavo ovviamente. Le ragazze mi chiedevano quale fosse la mia palestra, il mio dietologo, il mio segreto. Ero al massimo. Sentivo che li avevo in pugno, che ce l’avevo fatta. Non potevo di certo perdere quello che mi ero conquistata con tanti sacri ci e tanta dedizione.
Ma i miei furono inflessibili. Dopo la co sa in ospedale si erano spaventati davvero e non erano più disposti credere alle mie bugie. Sarei dovuta andare da un nutrizionista e regolare la mia alimentazione. Non potevo rischiare di svenire ancora. Ma soprattutto dovevo mangiare bene, nutrirmi adeguatamente. Le loro, per me, erano parole vuote, loro non potevano capire, ma per tenerli buoni mi dissi che avrei sempre potuto fare una prova. Dare loro una possibilità.
Così, iniziai un regime alimentare bilanciato. Nel vero senso, perché io pesavo tutto. Non un solo grammo doveva superare la quantità prescritta, niente doveva essere ingerito in più di quanto scritto su quel foglio spiegazzato. Il cibo era diventato un’ossessione, tutto ruotava intorno ai miei pasti, alle loro cadenze. A poco a poco i miei giorni, ognuno uguale all’altro senza via d’uscita, erano diventati quelli di una reclusa all’interno di una monotona routine. I miei genitori erano preoccupati per il fatto che non prendessi peso, lo capivo dalle loro facce, dai loro sorrisi tirati, ma se non altro vedevano che mangiavo secondo un regime, con un criterio. Non immaginavano nemmeno lontanamente che io avessi trovato il ”sistema”. Così lo chiamavo. E con questo inizia la terza fase del mio percorso nella malattia.
Sapevo che se avessi seguito la dieta comunque sarei ingrassata di qualche chilo. La mia paura era di perdere il controllo e di ritornare nel giro di poco quella ragazza grassa e goffa del passato. E niente mi faceva più paura. La sua indolenza, la sua debolezza mi avevano procurato n troppe umiliazioni. Ero arrivata ad avere il rispetto e l’ammirazione degli altri con il controllo e i sacrifici. Avevo pagato tutto a caro prezzo e niente mi avrebbe riportato indietro.
E furono proprio il controllo e i sacrifici a darmi lo spunto per il ”sistema”. A dire il vero ne avevo sentito parlare in un film. E il mio ”sistema” sembrava funzionare alla grande. Mangiavo regolarmente quanto prescritto poi in bagno vomitavo tutto o quasi. Controllo e sacrificio. Tutto calcolato.
I primi tempi funzionò. Poi, a poco a poco, diventai meno maniacale. Cominciai a rilassarmi. Smisi perfino di pesare tutto. A volte mi concedevo un pezzettino di cioccolato, così per il gusto di sentirlo in bocca, tanto poi… c’era il “sistema”.
In seguito, il pezzettino di cioccolato diventò sempre più grande fino alle dimensioni di una tavoletta intera, poi due, anche tre, tanto poi…il “sistema”. A ben pensarci però, la cioccolata da sola non mi dava poi tanta soddisfazione, così ci mangiavo insieme un pezzo di pane, dei biscotti, delle merendine, tanto poi… Ma tutto quel dolce diventava nauseante, magari un pezzo di pizza, una focaccia, due crocchette, tanto poi… Ricordo che durante quelle che erano diventate vere e proprie abbuffate mi assicuravo sempre di bere molta acqua o meglio ancora delle bevande frizzanti. Facilitavano il “sistema”, dopo. Ero diventata una veterana della pratica ormai, conoscevo i trucchi, i tempi, i meccanismi.
Mi rivedo in quel periodo davanti allo specchio magra sì, ma stanca, appassita e con la consapevolezza, in fondo, che qualcosa stava andando storto, che era andato fuori controllo. Ma soprattutto, anche se non lo volevo ammettere, cominciavo a essere spaventata.
Quello che più mi faceva più paura era la frenesia. In quei momenti diventavo due persone: una che agiva sotto un impulso irrefrenabile e un’altra che guardava da lontano, sgomenta. Perché quello che accadeva dopo il primo assaggio era proprio questo: il mio corpo avvertiva subito la tachicardia cha dava il ritmo all’azione, mentre la mente cominciava a scandagliare diverse possibilità di cibi ingeribili e le possibili combinazioni. Dopo i primi minuti non sentivo nemmeno più i sapori, solo le note del dolce o del salato. La mente si offuscava e una parte di me agiva con una foga inaudita. Diventava un viaggio fuori dal tempo, una fuga dalla realtà. Così mangiavo a più non posso, inghiottivo tutto quello che riuscivo. Non potevo fermarmi, la mente cercava solo cibo. Tanto dopo mi sarei liberata. Una volta svuotata, la frenesia calava insieme al battito cardiaco. La mente taceva, placata almeno per un po’. Mi sentivo leggera, spossata e serena. Per poco, lo sapevo. Ma anche solo per un momento mi godevo quel momento brevissimo di pace.
E con questo ritmo, passavano gli anni. Sono stati anni di carcere duro per me, perché malgrado il diploma, il lavoro che mi piaceva e che mi permetteva di crescere, il mio ”sistema” era diventato ormai parte della mia routine.
Ero una giovane donna che lavorava, apparentemente appagata, ma che in realtà era erosa dalla rabbia, dall’aggressività e dai sensi di colpa. Stavo malissimo, eppure non ne parlavo con nessuno.
Avevo tagliato ogni contatto autentico con l’esterno e il cibo era diventato il mio unico referente. Sapevo che non mi avrebbe mai tradita, né giudicata, né tantomeno abbandonata. Pensavo che nessuno potesse capirmi. In più, la vergogna mi chiudeva la gola. Ma oltre al mio problema anche la paura non mi ha mai lasciata. Per fortuna. Infatti, è stato proprio grazie alla paura che ho cominciato a desiderare fortemente di uscire da questo circolo vizioso.
Era quasi Natale, ero sola in casa ed ero in attesa della telefonata di un ragazzo che non arrivava. Venni presa da una delle mie crisi, niente di più normale. La prima fetta di pandoro era dolce, soffice, poi non ricordo più nulla. So solo che quando mi ritrovai davanti agli occhi l’involucro vuoto cominciai a disperare. Non avevo nemmeno bevuto a sufficienza. Mi sentii morire. Mai come allora fui consapevole del mio problema e mai come allora sentii di aver bisogno d’aiuto. Ma prima mi dovevo liberare. Il “sistema” aveva sempre funzionato, lo avrebbe fatto anche in quel caso. Mi girava la testa, non ero lucida. Mi chiusi in bagno. Ne sarei uscita dopo due ore, spaventata a morte e completamente coperta di sangue. Questa crisi era stata terribile, ero andata oltre. Piansi al telefono con mia madre, le chiesi aiuto e le raccontai tutto. Era la prima volta che mi fidavo di qualcuno. Era la prima volta che mi sentivo accolta nella mia disperata autenticità.
I medici mi sistemarono i capillari dell’occhio destro e lo stomaco abbastanza rapidamente. Mia madre invece mi accompagnò lungo il mio percorso di guarigione per molto più tempo.
La prima cosa importante era stata far emergere il problema nella realtà. Parlarne con lei aveva dato al mio disturbo una valenza reale, al di fuori di me. Adesso esisteva e andava risolto. Questa consapevolezza mi ha portata a cercare aiuto.
I centri per la cura dei disturbi alimentari non sono tutti uguali, non lo sono nemmeno le persone che ci vanno, né gli psicoterapeuti che ci lavorano.
Spesso non mi sono sentita capita, spesso non sono riuscita a farmi capire. Reagivo alle situazioni costruendo barriere difensive e innervosendomi mentre ascoltavo i racconti delle altre pazienti. Poi a poco a poco la mia rabbia è diminuita. E questo mi ha permesso di vedere sempre più chiaramente, di capirmi, ritrovarmi. Ho conosciuto bambine, ragazze, donne e perfino signore di una certa età che soffrivano di bulimia e che con me lottavano per sconfiggerla. Tutte donne sensibili, diverse l’una dall’altra.
Donne che non colpevolizzavano gli altri o la società, che non avevano colpe da distribuire, ma donne che si assumevano la responsabilità di cercare accettazione, ascolto e amore in qualcosa di diverso dal cibo.
Se potessi ritrovare la ragazzina che ero un tempo, spaventata dal rifiuto, compulsiva e ossessionata dal proprio aspetto fisico, le racconterei la sua storia. Le direi che non siamo il centro del mondo, che sembra banale, ma alla fine aiuta. Le racconterei anche che in fondo al mio percorso ho visto la luce quando ho deciso di impegnare il mio tempo al di fuori dell’ufficio per un corso con la Croce Rossa Italiana per diventare volontaria. Questa opportunità mi ha portata in salvo. Ha distolto lo sguardo severo della mia mente da me e lo ha puntato sugli altri. Su ciò che temevo di più.
Ora sono io che dò a chi ne ha bisogno tutta l’accettazione, l’ascolto e l’amore che posso. Ho imparato che tirare fuori, dare è l’unico modo per riempire quel vuoto che ho tentato di colmare in modo sbagliato in tutti questi anni.
E solo ora posso dire che la serenità ha cominciato a farsi strada in me. Di nome e di fatto. Ce la si può fare. Ognuno a modo suo. Garantito. ●
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