Diedi la mano a don Luigi e sentii il cuore accelerare i battiti. Ero una ragazza in età da marito e mi stavo innamorando dell’uomo sbagliato. Non era un’infatuazione, però. Oggi che sono passati tanti anni, posso dire che non rimpiango nulla
Storia vera di Adele L. raccolta da Sabrina Bergamini
Come fa freddo in questo inverno. Sembra un tempo fatto per pregare, l’inverno. C’è stato un tempo, ormai lontano, in cui di tutte le stagioni questa era la mia preferita. La stagione del silenzio, così la chiamava mio padre. E io, quel silenzio, lo ricordo bene. Ammantava ogni cosa: la terra immobile, gli alberi spogli, i boschi intorno. Era un silenzio che profumava di vita, di attesa. Sotto la coltre di gelo pulsavano i germogli di un nuovo raccolto impaziente di donarci i suoi frutti, inondarci dei suoi colori. E’ un silenzio che mi è entrato dentro, si è fatto spazio tra le ossa, ha penetrato la carne. Ho passato l’intera esistenza nella sua ricerca. L’ho ritrovato spesso, ma non sempre, nella penombra di una chiesa vuota, nella fioca luce di una candela, nell’ora della sera.
È questa la ragione per cui sono qui, adesso. Mani giunte, un rosario tra le dita. Ho sgranato un numero infinito di rosari, è strano, adesso che ne ho un disperato bisogno nemmeno una preghiera riesco a ricordare. Nemmeno una parola esce da queste mie labbra aride e stanche. E mentre le parole si disperdono nella mente, i ricordi affiorano nitidi più che mai, uno dopo l’altro. Forse è anche questo un modo per pregare, per restare appesi alla vita che scivola via lentamente, scandisce le ore, i minuti, gli ultimi istanti. E allora chiudo gli occhi e resto in attesa di un segno, di un volto. Lo invoco con tutta me stessa, con tutta la forza che hanno certi amori immensi che nemmeno la morte può dividere.
L’anno del 1958 portò nella mia esistenza due grandi novità: il diploma magistrale che mi abilitava all’insegnamento, il mio grande sogno, e l’arrivo in paese del nuovo parroco. Don Celestino era ormai molto anziano quando una sera si addormentò per sempre. Lasciò un grande vuoto nella nostra piccola comunità ma la tristezza per la sua dipartita venne presto rimpiazzata dalla crescente curiosità su chi avrebbe preso il suo posto. Il mistero venne sciolto la prima domenica di maggio. Tutto il paese si era riunito nella piccola piazza per l’arrivo di don Luigi. Lo accolse il Sindaco in persona con la fascia tricolore al petto e una calorosa stretta di mano. Dopo la funzione religiosa ci spostammo nel cortile dell’oratorio dove era stato allestito un rinfresco. I bambini che da lì a poco avrebbero ricevuto il sacramento della prima comunione recitarono una poesia, io venni presentata da suor Luisa come una delle catechiste più preziose. Avvampai a quelle parole, timida com’ero e così poco avvezza a ricevere complimenti. Don Luigi mi porse la mano rivolgendomi un gran sorriso che metteva in risalto i denti bianchi su un viso dai tratti ben delineati. I suoi occhi scuri e vivaci penetrarono i miei, azzurri e sfuggenti, per un brevissimo istante, subito rapiti da altri occhi e mani e volti che si alternavano su di lui, impazienti e bramosi di attenzioni.
Quella sera, al buio, distesa nel letto, ripensai agli occhi di don Luigi, alla mia mano avvolta nella sua. Il breve contatto mi aveva fatto accelerare i battiti del cuore. Farfalle nello stomaco. Era questo che avevo sentito. Per la prima volta e per l’uomo sbagliato.
Avevo ormai raggiunto l’età in cui le ragazze guardano al matrimonio come traguardo da raggiungere il prima possibile, ma io non avevo ancora nemmeno l’ombra di un fidanzato e a dire il vero, non consideravo affatto il matrimonio un trofeo da conquistare o l’unica possibilità nella vita di una donna per potersi sentire pienamente realizzata. Non era dello stesso avviso mia madre. Si dannava l’anima al pensiero di restare con una figlia zitella che considerava senza dubbio la più grande disgrazia che mi potesse capitare e, alle sue continue lamentele, rispondevo che non volevo accontentarmi come avevo visto fare a tante mie coetanee, spose senza amore. «Nostra figlia vuole le farfalle nello stomaco, non darle il tormento» ribatteva mio padre, scoppiando a ridere di gusto. Fosse stato per lui, mi avrebbe tenuta in casa per sempre.
«Tua figlia va cercando le spine, altro che farfalle» concludeva mia madre. Era una scena che si ripeteva da tempo, le parole ormai le conoscevo a memoria. Solo adesso, tuttavia, acquistavano nella mia mente un vero significato. Farfalle e spine. Mi addormentai pensando prima alle une, poi alle altre. E il vago presentimento che le due cose andassero di pari passo, la felicità più pura e grande nasconde sempre il pericolo di un grande dolore, per questo molti ci rinunciano, ripiegano su un sentimento sciapo e vago.
Arrivò l’estate e mi travolse con i suoi colori e profumi e la vita che sentivo per la prima volta scorrere veramente nelle vene. Mi dedicai, insieme ad altri giovani, a sistemare, pulire e riorganizzare l’oratorio che don Celestino, vista l’età avanzata e la salute precaria, aveva lasciato progressivamente decadere nello sporco e nel più totale disordine. Don Luigi, con l’entusiasmo tipico dei giovani, aveva da poco compiuto trent’anni, desiderava avviare numerose attività e rendere quel luogo un centro nevralgico per i giovani che altrimenti si sarebbero dispersi per le strade polverose di quel piccolo paese che nulla aveva da offrire. In un brevissimo lasso di tempo riuscimmo a ripristinare il campo da calcio, organizzare un salone per i lavori manuali, un laboratorio di cucito e uno di creta, avviare un corso di musica. Durante quei mesi io e don Luigi passammo molto tempo insieme, uniti da obiettivi comuni, felici di costruire qualcosa di utile. Il sorriso che spuntava sui volti dei bambini ci ripagava della fatica e degli sforzi, che a dire il vero, non erano poi molti. Accanto a lui mi sentivo leggera, avvolta da una soffice nuvola capace di sollevarmi dalla polvere di pettegolezzi che si stava alzando su di noi. Erano numerose le malelingue a cui non era sfuggita la nostra vicinanza, l’affinità che ci univa. Amavo passare il tempo in sua compagnia, parlare di teologia, di filosofia, soffermarmi sui punti salienti della predica domenicale. Ero una ragazza abituata a porsi domande in un mondo in cui alle donne era invece richiesto il silenzio e l’oblio. Don Luigi era l’unico ad apprezzare la mia curiosità, a non trovarla inadeguata. In autunno iniziai ad insegnare nella scuola elementare di un paese vicino e ripresi a fare la catechista una volta a settimana. Certe maldicenze erano arrivate fino alla porta di casa mia, si erano intrufolate di soppiatto in cucina avvelenando i pasti e l’aria. Mentre a mio padre certe dicerie entravano da un orecchio e uscivano dall’altro, riuscivano invece a mandare su tutte le furie mia madre che tornò a darmi il tormento sulla questione mai sepolta del mio mancato fidanzamento.
«Il Locatelli ti fa la corte da un bel pezzo, si può sapere che ha che non va? La sua famiglia tiene terra a volontà, ti sistemi bene» ripeteva ogni sera, alzando ogni volta di una nota il tono di voce. Io cercavo rifugio nello sguardo buono di mio padre, sempre pronto a difendermi ma l’atmosfera iniziava a farsi incandescente. Di notte, nel buio della mia stanza, era sempre a Luigi che pensavo. Sorridevo da sola, come una stupida. Sorridevo appena lo vedevo e lui ricambiava quel sorriso che valeva più di mille parole, più di tutti quei baci che le mie amiche si scambiavano con i propri fidanzati. A me bastava l’intreccio casuale delle nostre dita, il tocco leggero della sua mano sulla mia. Erano farfalle, erano spine. Era un sentimento irrinunciabile.
Un giorno, era ormai inverno inoltrato, trovai don Luigi ad attendermi in sacrestia, gli occhi lucidi e un foglio stretto tra le mani. Era una lettera del Vescovo che gli comunicava il suo immediato trasferimento. Mi sentii mancare a quelle parole. Ci sedemmo vicini, incapaci di proferire anche solo una parola. Gli presi la lettera dalle mani, la lessi un milione di volte. Il silenzio ci avvolgeva come un manto invisibile. Fu don Luigi a ritrovare la voce dopo una pausa che mi parve lunghissima. « Mi mandano in Francia come missionario delle famiglie italiane emigrate nel bacino minerario del Nord-Pas de Calais» disse infine.
«La colpa è tutta mia. Lo sappiamo entrambi il motivo di questo improvviso trasferimento» replicai con le lacrime agli occhi.
«Incontrarti è la cosa più bella che mi sia accaduta in tutta la vita, ma non posso scegliere tra te e la vocazione, davvero non posso» disse in un soffio, le parole che uscivano a fatica.
Dopo la sua partenza, seguirono mesi vuoti, nulla aveva più senso per me, nemmeno l’insegnamento che tanto amavo. Poi, un giorno, arrivò una lettera. Poche parole, semplici e chiare.
«Mi manchi più di quanto avrei mai potuto immaginare. Qui c’è così tanto da fare, i volontari non sono mai abbastanza, perché non mi raggiungi?». Scoppiai a piangere per la felicità. La soluzione per non rinunciare a Dio ma nemmeno al nostro amore c’era, ed era lì, servita su un piatto d’argento.
Partii senza rimorsi, con la benedizione di mio padre e l’ira di mia madre che mai avrebbe accettato la mia scelta di diventare assistente pastorale. In Francia iniziò la mia nuova vita accanto all’uomo che amavo, l’uomo sbagliato, l’uomo delle farfalle. Non ero pronta ad affrontare tanta povertà. La vita degli emigranti si consumava nella miseria più totale e si mescolava alla naturale nostalgia che nutrivano per la loro terra natia che si erano visti costretti ad abbandonare. Il lavoro in miniera era davvero duro, in molti si ammalavano di silicosi e alcuni morivano di questa terribile malattia. C’era davvero tanto lavoro da fare.
Iniziai la mia missione andando a conoscere le famiglie di emigranti nelle baracche in cui vivevano, questo contatto diretto mi permise di toccare con mano i problemi quotidiani che dovevano affrontare queste persone che si sentivano perse in un paese di cui nemmeno conoscevano la lingua. Spesso si rendeva necessario un aiuto concreto nell’espletamento di pratiche burocratiche, rese difficili soprattutto per motivi linguistici, per questo motivo una delle prime cose che feci fu quello di organizzare un corso di studio. La mia conoscenza del francese non era ottima ma buona e la misi a servizio della comunità che aderì al progetto con gratitudine e sorprendente entusiasmo. La messa della domenica rappresentava un momento di gioia e di condivisione: finalmente si tornava a parlare nella nostra lingua, ci si sentiva veramente a casa. Si trascorreva il resto della giornata tutti insieme, improvvisando un pranzo nella grande stanza adiacente la chiesa, don Luigi con la sua bella voce allietava le ore e faceva sorridere i bambini con i suoi giochi di prestigio.
Non scorderò mai il primo Natale trascorso in Francia, in mezzo a questa comunità che ormai consideravo a tutti gli effetti la mia nuova famiglia. Vincendo la mia timidezza mi ero recata in consolato e avevo chiesto giocattoli e dolci per i bambini che non avrebbero trovato nulla accanto al presepe. Con mia grande sorpresa, esattamente qualche giorno dopo, si fermò davanti alla baracca dove vivevo un furgone carico di ogni bene: bambole di pezza, trenini di legno, cioccolata, zucchero, arance, datteri.
Fu meraviglioso attendere la mezzanotte, assistere alla nascita di Gesù, distribuire i doni tra quelle persone che non conoscevano altro che la fatica e la rinuncia, vedere nascere la speranza nei loro occhi, la scintilla della gioia. In seguito mi dedicai a tante altre attività, dalla visita ai malati agli anziani ricoverati nelle case di riposo ed iniziai a fare da interprete presso un ambulatorio pediatrico che si occupava di seguire i neonati, mi capitò persino di assistere un medico durante i parti più difficili. Non dimenticherò mai l’emozione di tenere tra le mani un bambino appena nato. Io e don Luigi lavoravamo a compiti diversi ma sempre confrontandoci e cercando di disseminare qua e là la fede in Dio senza che nessuno si sentisse obbligato a seguire dogmi e regole.
«L’amore è l’esempio migliore, la nostra porta è aperta a tutti, anche e soprattutto ai laici» ripetevamo a tutti coloro che si rivolgevano a noi in cerca di soluzioni a problemi che ritenevano irrisolvibili, come quando una madre ci chiese aiuto per la figlia finita in un losco giro di prostituzione e che riuscimmo a salvare dalla strada. Passarono gli anni e dopo più di venti, venimmo richiamati in Italia. A don Luigi venne assegnata la guida di una piccola parrocchia. La mia presenza, al suo fianco, non destava più molto scandalo. Ci mancava, tuttavia, il mondo missionario. Stavamo pensando di fare richiesta e ripartire quando una brutta influenza mise a letto don Luigi, lasciandolo senza forze. Dopo un discreto numero di esami, arrivò una diagnosi inaspettata e terribile: tumore ai polmoni. La malattia lo consumò in pochi mesi. Morì un giorno di maggio. Maggio, il mese della Madonna, delle rose, delle spine.
Quella mattina entrai nella sua stanza, spalancai la finestra per far entrare l’azzurro del cielo, mi sedetti sul bordo del letto, gli posai tra le mani una rosa bianca appena raccolta. Fu in quel momento che mi tornarono in mente le parole di mia madre. Don Luigi aprì gli occhi, mi sorrise, e come leggendomi nella mente, indovinando i miei pensieri mi disse: «Non c’è rosa senza spine. L’importante è che ne valga la pena. La cosa buffa, è che spesso, questo, lo si comprende solo alla fine del viaggio».
Avvolsi le sue mani nelle mie. Farfalle nello stomaco, come da ragazza. «Ne è valsa la pena ogni singolo istante di ogni singolo giorno, non cambierei nemmeno una sola virgola della mia vita» risposi cercando di trattenere le lacrime. Quelle, le avrei lasciate libere di scorrere dopo la sua morte e per molto tempo, prima di riuscire a riorganizzare la mia vita e consacrarla ancora una volta agli ultimi, i dimenticati, gli emarginati. Riapro gli occhi. Li poso ancora una volta su quell’altare vuoto che inizia a popolarsi dei volti delle persone che ho amato e che non ci sono più. Le saluto una ad una. Nessuna manca nel segreto del mio cuore.
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