“Ferdinanda fa miracoli” di Antonella Tomaselli, pubblicata sul n.14 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Ferdinanda Salvini raccolta da Antonella Tomaselli
A pochi passi da casa mia c’è un bosco. Conosco i suoi alberi uno per uno. Alcuni li ho piantati io. Metto un seme in un vaso e quando la piantina che ne è nata è abbastanza forte, la porto là e la piazzo in piena terra. Scelgo alberi autoctoni, ma anche no. Per la nascita di ogni bimbo che conosco semino un ginkgo biloba. Ho cominciato con mia figlia Elena. Il suo giovane albero è bello e forte. Come lei.
Adoro la natura e gli animali da sempre. Già da piccola soccorrevo ogni uccellino caduto dal nido, ogni micino sperduto. Crescendo ho accentuato questo atteggiamento. E mio marito è stato sempre pronto a darmi una mano. Nei dintorni, chi trova un animaletto bisognoso, me lo porta. Io me ne prendo cura. E quando sta bene lo libero nel suo habitat naturale, se è un animale selvatico; oppure me lo tengo, se si tratta di un animale domestico. Tempo fa allevai un picchio verde. Una storia curiosa, questa. Faccio la guida per la Pro Loco di Morgano e avevo portato una scolaresca alle vicine sorgenti del fiume Sile. A un certo punto udimmo delle piccole grida. Ci zittimmo tutti e di nuovo sentimmo quella specie di pianto. Mi girai di scatto e vidi una cornacchia che tratteneva qualcosa tra gli artigli. Istintivamente mi precipitai verso di lei. E lei fuggì lasciando la sua preda: un uccellino. Un esserino fragile, coperto solo da un leggero piumino. Un batuffolo. Me lo portai a casa. Gli diedi da mangiare, imboccandolo con attenzione. Misi il piccolino in una gabbia ampia a forma di pagoda che avevo piazzato, tempo prima, in mezzo al bosco. Ero da lui ogni momento possibile. Lo chiamavo facendo il suo verso: «Chiù, chiù». E lui rispondeva: «Chiù, chiù». Era un picchio verde. Qui da noi c’è solo il picchio rosso maggiore. Chissà da dove l’aveva portato quella cornacchia. Il piccolo cresceva e giunse il momento di insegnargli a mangiare da solo. Cercai nel bosco e trovai un albero sul cui tronco c’era un bell’andirivieni di formiche. Misi il picchio verde alla base e il piccolo si aggrappò alla corteccia. Catturò una formica. E un’altra. E poi andò più su. Corsi a prendere una scala che appoggiai all’albero, e salii anch’ io. Così avrei potuto recuperare il picchio, a pranzo concluso. Una scena fantastica seguita da un pubblico attento: la mia cagnolina Rosetta, la gatta Morgana e Apollo, una delle mie oche. Arrivò il giorno della liberazione: ormai il piccolo mangiava da solo e le membrane delle ali si erano aperte. Non potevo più indugiare. Lo portai alle sorgenti del Sile. Cercavo l’albero giusto ma non lo trovavo mai. Uno aveva il tronco troppo liscio, l’altro era troppo basso. Bugie. È che mi dispiaceva separarmi dal picchio, mi ci ero così affezionata…
Mi feci forza, per il suo bene. L’appoggiai alla base di un albero. Lui cominciò a salire. Non resistetti, lo presi e lo rimisi in basso. Si arrampicò nuovamente. Ma si fermò quasi subito. Si girò a guardarmi. Sembrava che mi chiedesse il permesso di salire ancora. Le mie mani si mossero da sole per riprenderlo. Ma mi frenai e le strinsi dietro la schiena. Il picchio ricominciò a salire. Si fermò a guardarmi ancora due o tre volte. Io gli sorridevo e stringevo ancor di più le mani. Arrivò in cima. Raggi di sole trovavano la strada tra le fronde e accendevano i suoi colori. Lo vidi spiccare il volo e raggiungere la punta di un albero vicino. Gli occhi inondati di lacrime mi impedirono di seguirlo ancora.
Non finì così. Il 7 ottobre ero davanti a casa quando mio marito gridò: «Ferdinanda, ascolta!». Mi fermai di botto. Dal bosco qualcuno mi chiamava: «Chiù, chiù». Risposi immediatamente: «Chiù, chiù» e presi a correre verso gli alberi. Era il picchio verde. Era aggrappato alla gabbia a forma di pagoda. Che felicità! Aveva nidificato in zona. È proprio qui che vive ormai. E spesso viene a salutarmi.
Prima ho citato Apollo, una delle mie oche. A tenergli compagnia c’erano Platone e Cesira – i suoi genitori – e Lucrezia. C’era anche Cesare: mi era stato affidato da un allevatore, perché era molto debole e malato. Con le mie cure diventò grande e forte. A malincuore lo riportai dall’allevatore, suo legittimo proprietario. Ma Cesare cominciò un ostinato sciopero della fame. Mi chiamò l’allevatore: «L’oca non mangia da diversi giorni, se non è già morta, poco ci manca». Salii in macchina e guidai più veloce che potevo. Ma non arrivai in tempo. Cesare era morto. Lo presi in braccio e lo distesi sui sedili dell’auto. L’avrei riportato da me e gli avrei dato almeno una degna sepoltura. Nei pressi di casa le altre mie oche mi accolsero starnazzando, come sempre. Fu in quel preciso momento che mi parve che Cesare si muovesse. Un nanosecondo e dal suo becco uscì un fioco: «Vi vi vi». Aprii la portiera e lui corse verso le altre oche. Guardavo la scena allibita. Ma non era morto? Tutto il gruppo, lui compreso, starnazzava con grande eccitazione. Chissà cosa si raccontavano. Cesare riprese a mangiare. E io decisi che non avrebbe mai più lasciato casa mia.
Le mie mani hanno curato e allevato tanti animaletti. Potrei raccontare dei rondoni che salvo e lancio nel cielo quando sono pronti. Del piccolo pipistrello che qualcuno mi ha portato giorni fa. Dei torcicolli, dei fagiani, di un merlo bianco e nero, dei piccoli ghiri e di tanti altri ancora. Aiuto anche i rospi ad attraversare la strada. Scendono dalla montagnetta vicina per arrivare alle pozzanghere attigue al Piave. Ma il percorso è attraversato da una strada trafficata. Per questo li raccolgo in un secchio e li porto dall’altra parte della carreggiata. Così possono riprendere incolumi il viaggio.
Sono tanto felice. Qualcuno dice che faccio miracoli. Io dico invece che è l’amore che fa i miracoli. Sempre.
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