Storia di Valentina T. raccolta da Bruna Alasia
Una canzone di successo mi ha spinto a raccontare la mia storia: mi piacevano la musica e le parole, narrava di gente ribelle, pioniera, persino rinnegata, attribuendole una connotazione positiva. Canticchiarla mi faceva sentire un po’ eroina, come dice chi conosce il mio passato. Quando si salta verso una vita nuova, non si ha mai la certezza di fare la cosa giusta, ma sono andata verso l’ignoto con passione. L’amore può essere più forte della paura, a volte, persino salvifico. Basta saper osare.
Avevo trentasei anni, sposata da dodici. Mio marito l’avevo conosciuto alle elementari. Da ragazzo dicevano fosse bello. Mi corteggiava, ma io non lo filavo. Un giorno, non so cosa accadde, una compagna di scuola mi diede di gomito indicandomelo: «Hai visto che splendore Daniele?». Scrollai le spalle. Quasi scandalizzata lei esclamò: «Tu sei guercia». Da quel momento, chissà perché, lo guardai in maniera diversa, con gli occhi degli altri. Improvvisamente rivalutai le sue attenzioni, lusingata dell’invidia di non poche ragazze. Oggi, tuttavia, so che l’attrazione sessuale verso di lui non è mai stata autentica, l’ho capito quando incontrai Dag. Mio marito dopo le superiori si era messo a lavorare nella drogheria del padre. Mi capitava persino di annoiarmi quando stavamo insieme, ma mi lasciai trascinare. Assennato e di buona famiglia, faceva contenti i miei genitori quando veniva a casa. Una sera, dopo una pizza, facemmo l’amore: avevo diciotto anni ed era la mia prima volta. Ci sposammo appena conseguii la laurea in Storia dell’Arte, che misi nel cassetto perché ci ritrovammo a lavorare nel suo negozio di specialità gastronomiche ed erbe aromatiche. C’erano tutti i sapori del mondo e all’inizio mi divertii, ma non durò molto. Tutti i giorni ripetevamo gomito a gomito gli stessi gesti e la sera non avevamo voglia di parlare. Eravamo giovani, eppure facevamo l’amore raramente. Senza accorgermene, scivolai subdolamente nella depressione. Una mattina gli dissi: «Daniele vado a fare un giro».
«Stai male?», mi guardò stupito.
«Sto bene, ma ho bisogno di una passeggiata».
«Ti ha dato di volta il cervello?». Non gli risposi. Lasciai il negozio. Improvvisamente lacrime calde, copiose, presero a scendermi lungo le guance senza motivo, o almeno così credevo. Dovetti allontanarmi dal quartiere per non incontrare nessuno. Senza rendermene conto mi ritrovai alla stazione, a osservare i treni in partenza: mi colpì in particolare quello per Parigi, provai invidia verso i viaggiatori. Ero meravigliata per quelle inspiegabili emozioni. Era quasi sera quando imboccai la via di casa, prima di arrivarci mi fermai davanti alla vetrina di un fotografo. Mi folgorò un’idea ed entrai. Quando rincasai mio marito era già lì, mi guardò disorientato: «Che hai fatto tutto il tempo? Ci siamo preoccupati». Non riuscii a pronunciare parola. In mano avevo una scatola. «Che cosa hai comprato? » mi chiese indicandola. Gliela porsi, lui la aprì e rimase interdetto. «Una macchina fotografica professionale?» sgranò gli occhi. «Che cosa ci fai?».
«Non so». Dovevo avere un’aria sincera e desolata perché, senza arrabbiarsi, constatò: «Ti sta proprio dando di volta il cervello».
Invece quella macchina fotografica era importante per il mio equilibrio, imparai a usarla. Attingendo ai miei studi, presi a fotografare le opere d’arte della mia città, a trasformarle con le tecniche del fotoritocco e fotomontaggio: i risultati mi soddisfacevano. Riuscii a trasfigurare il David di Michelangelo in una sorta di fotomodello sexy, suscitò commenti positivi al punto che lo feci incorniciare e lo misi in salotto. Mio marito non capiva, non amava il mio hobby, lo accettava rassegnato, contento di vedermi più serena, anche se a volte per quel passatempo non andavo a lavorare. Nel 1991 a Firenze, al Forte di Belvedere furono esposte le statue di Fernando Botero: amavo i ciccioni dello scultore colombiano e colsi l’occasione per guardarli da vicino. Era un pomeriggio feriale, senza gran folla. Dall’alto del Forte il panorama mozzava il fiato. Onde a colori i tetti di Firenze, e i bronzi corpulenti dell’artista si stagliavano contro il cielo. Presi a far scatti veloci, senza interruzione, girando intorno alle sculture, finché una voce mi apostrofò: «Jesus! Are you studying anatomy?». Mi voltai verso l’interlocutore: un giovane alto e dinoccolato, lunghi capelli biondi, barba sapientemente incolta, occhi indaco. Risposi in italiano: «Non studio anatomia, mi diverto a fotografare. Sei inglese?».
«No, di Stoccolma».
«Che cosa fai qui?».
Parlò nella mia lingua un po’ a stento: «M’interessano l’arte, l’architettura».
«Che lavoro fai?».
«Architetto».
«Come ti chiami?».
«Dag e tu?».
«Valentina».
Non compresi subito di essere stata fulminata, benché il suono della sua voce mi desse un brivido. Seduti su un muretto, ci raccontammo, in inglese e in italiano, quello che ci attraeva dell’esistenza. Scoprimmo di avere molto in comune: l’arte, i viaggi, la noia di un lavoro ripetitivo e un sotterraneo bisogno di cambiare vita. Dai nostri occhi sapevamo che qualcosa di inspiegabile stava accadendo. Ci separammo quando ci avvisarono che il Forte chiudeva. Quel suo sguardo penetrante, tra l’azzurro e il viola, mi era entrato in corpo: la notte non riuscii a dormire, ma non gli telefonai, malgrado mi avesse lasciato il numero dell’albergo. Due giorni dopo ero in negozio e stavo servendo un cliente quando, voltandomi casualmente, me lo ritrovai davanti. L’indaco dei suoi occhi mi confuse.
Gli avevo raccontato della drogheria nella quale lavoravo, ma non di essere sposata. Dag aveva l’aspetto di un bellissimo vichingo, mio marito lo notò e, quando si accorse che mi apostrofava con confidenza, s’intromise: «Piacere Daniele. Sono il marito di Valentina».
Si percepì lo smarrimento dello svedese. Finse di interessarsi alle spezie, disse che a Stoccolma voleva tornare con specialità italiane, ma quando uscì, carico di pacchetti, sapevo che non l’avrei più rivisto. Quella notte riflettei che mi aveva cercato, che per uno straniero risalire a quella drogheria non doveva essere stato facile. Se lo aveva fatto, c’era un perché. Così gli telefonai.
Il colpo di fulmine era reciproco, le nostre difese caddero: nell’arco di ventiquattro ore mi ritrovai nel suo letto. Non fu una cosa fisica ma molto di più: se è vero che nulla succede per caso, il destino ci aveva posto sulla stessa traiettoria per una causa imprescindibile. Dag aveva divorziato un paio di anni prima da una moglie di cui non era mai stato innamorato. Adesso, nonostante i successi di un lavoro che amava, si sentiva incompleto. Dipingeva, ma aveva bisogno di qualcuno che lo capisse: stesso desiderio avevo io con la fotografia. Ci incontrammo ancora e ancora, in negozio notarono le mie sparizioni, ma poiché quei momenti si avvicendavano da tempo, non diedero troppo peso alle assenze. Lo svedese era appena entrato nella mia vita eppure sentivo di conoscerlo da sempre. Dato il breve tempo a disposizione facevamo l’amore come forsennati, passeggiando nei parchi ci baciavamo incuranti dei passanti: se qualcuno mi avesse riconosciuto, rischiavo di buttare all’aria dodici anni di matrimonio. Il sesso passionale non fu la nostra calamita: Dag era la mia anima gemella, qualcuno in cui mi specchiavo, lui risvegliava in me parti sopite. Mi raccontò moltissimo di sé, io gli parlai di me, come mai avevo fatto. Scoprimmo desideri, bisogni, progetti affini, anche se eravamo nati l’una a sud e l’altro a nord dell’Europa. Entrambi ribelli alle condizioni imposte dall’ambiente, con una fortissima speranza di cambiare, l’uno maieuta dell’altro, univamo le forze. Cinque giorni prima di partire Dag mi chiese di lasciare tutto e di seguirlo in Svezia. Lo guardai incredula: «Dici sul serio? ».
«Queste cose non si chiedono per scherzo» rispose. «Stoccolma è bellissima».
La decisione di rivoluzionare la mia vita, appena un mese dopo averlo incontrato era follia, ma ciò che s’impossessò di me in quel momento fu la paura di perdere un’occasione unica. Vissi le quarantotto ore seguenti in stato di trance e non mi feci sentire da Dag, mi recai da mia madre cui dissi tutto. Lei mi guardò con aria preoccupata: «Che tu fossi ribelle si era capito, ma questo mi sembra troppo, non sai nemmeno chi è, e se ti avesse raccontato un sacco di bugie?».
«No, mamma, lo sento onesto, a quale scopo dovrebbe chiedermi di seguirlo?».
«Perché è matto».
«Allora questa è una follia a due».
Dopo aver stabilito con Dag un piano preciso, mi armai di coraggio e andai ad annunciarlo a Daniele. Lo vidi trasecolare: «Buttare tutto all’aria in quattro e quattr’otto! Sei matta?».
«Non è in quattro e quattr’otto, sai che tra noi non andava da anni».
Rispose lapidario: «Secondo te con lui andrà bene? Uno che nemmeno conosci? Stai facendo una grande bischerata e se torni non mi trovi più».
Mi congedai dalla mia famiglia sapendo che nessuno di loro mi avrebbe accompagnato al check-in. Quando l’aereo decollò, lo stomaco mi arrivò in gola dalla paura, ma provai anche un grande senso di liberazione: avevamo sfidato il mondo e ora ci aspettava l’incognita desiderata.
Questa è la nostra storia, il nostro salto nel vuoto. Oggi ho sessant’anni, vivo a Stoccolma da ventiquattro. Abitiamo in un quartiere residenziale, con un giardino che curo con amore, nel quale ho piantato dei sempreverdi. A Stoccolma dopo aver imparato lo svedese, ho trovato modo di insegnare italiano per guadagnare qualcosa. Mi sono iscritta a una scuola di fotografia e sono riuscita a fare delle mostre, a volte espongo insieme a Dag. Abbiamo molti amici artisti, mi piacciono le serate con loro. Passiamo spesso le vacanze in Italia o a Parigi. Ho sposato Dag una decina di anni fa.
Non ho seguito avventatamente una sirena, è stato un richiamo di vita. Se il mio caso è più unico che raro, è anche la prova che il destino non ha regole: in un’ora può accadere molto di più che in un’intera esistenza, basta volere.
Testo pubblicato su Confidenze 42/2015.
Foro: Getty Images
Ultimi commenti