Mio figlio, nato con un cromosoma in più, mi ha insegnato che tutto è possibile. Ho capito che per aiutarlo a superare i suoi limiti devo essere io la prima ad andare oltre i miei
Storia vera di Elena Ferrarese raccolta da Elena Filini
E pensare che al liceo volevo essere la prima della classe a prendere la patente. Mi ero messa sotto a studiare già a 17 anni: abitavo a Belluno all’epoca, la città mi stava strettina e mi vedevo sfrecciare in autostrada verso la pianura.
Avevo già pianificato tutto, perché quattro ruote significavano per me adolescente libertà e infinite possibilità. Quindi non ho avuto alcun problema, compiuti i 18 anni, a passare l’esame di teoria da privatista al primo colpo. Ero proprio determinata. Peccato che tutta questa convinzione si perdesse un po’ nel momento della pratica. Anche questa da privatista. La mancanza di feeling con la frizione e con la velocità, in particolare, non hanno mai giocato a mio favore.
Con l’esame pratico è iniziata l’odissea. A Belluno c’erano un esaminatore gentile e un’esaminatrice severissima. Al primo tentativo mi è capitata lei. Un grande classico, mi sono detta, senza scoraggiarmi. Ho eseguito correttamente e discretamente tutte le sue richieste, ma a fine esame mi ha fatto accostare. «Mi spiace, non me la sento di promuoverti, mi sei sembrata troppo insicura». Un dramma. Ho sognato quell’esame moltissime volte cercando di capire dove potessi esserle parsa un pericolo ambulante.
Smaltiti rabbia senso di ingiustizia, mi sono lanciata nel secondo tentativo. Ho trovato l’esaminatore buono. Ho pensato: la sorte è dalla mia. Dovevo solo mostrarmi più sicura di me. Ecco, appunto. Cosa capita all’ansioso di natura quando continua a ripetere dentro di sé “devo sembrare sicuro”?
Non ne ho fatta una giusta. Marce che grattavano, frenate improvvise, frecce a caso. Il capolavoro? Il parcheggio in retro. Da denuncia. La conseguenza stavolta non mi ha stupito: bocciata. Una bella grana.Avrei dovuto ripetere tutto, anche la teoria, perché nel frattempo mi era scaduto il foglio rosa. Ma poi è arrivata la decisione di andare a studiare e a vivere a Venezia. E con la città è stato da subito un colpo di fulmine.
Vi ho trovato il mio habitat naturale, il ritmo lento della vita, niente smog, la laguna, l’uso dei piedi: in 15 anni in centro storico ho cambiato casa in affitto cinque volte, in sestieri tutti diversi, e da ogni abitazione sapevo calcolare a memoria esattamente quanti minuti ci avrei messo per raggiungere la stazione, piazzale Roma, l’università, il parrucchiere… che bellezza! Ma apprezzavo anche il dolce procedere del vaporetto, il piacere di leggere un libro buttando l’occhio sull’acqua, senza paura che il tuo mezzo si scontrasse con un altro, caso rarissimo rispetto alle probabilità di incidente in auto. Sì, perché nel frattempo avevo sviluppato-oltre al rigetto-anche una paura folle di stare in macchina, nonché il mal d’auto. E poi la scelta, dopo la laurea, di essere libera professionista: a che poteva servirmi più la macchina?
Per 15 anni ho usato treni, aerei, torpedoni, vaporetti, due ruote. Schivavo scientificamente l’automobile. Però anche il periodo veneziano, a malincuore, è finito. Ho conosciuto il mio futuro marito, proveniente dal Vicentino e, nel 2016 ci siamo trasferiti a Bassano del Grappa. Scelta azzeccata: ho trovato una bella mansarda in mezzo al verde, a un quarto d’ora a piedi dalla stazione, dopo aver meticolosamente controllato che ci fossero treni diretti ogni mezz’ora per Venezia, ancora oggi centro del mio lavoro. I nuovi amici bassanesi mi consigliavano di prendere la patente, soprattutto nel caso avessi avuto intenzione di avere figli, perché, tutto sommato, Bassano è bella, però mal collegata in termini di mezzi pubblici con il resto del mondo, a eccezione di Venezia. Ma io avevo già avvistato l’eventuale asilo nido comunale a 15 minuti a piedi da casa e la mia vita senza auto procedeva benissimo, con una misurata indipendenza, anche a Bassano.
Poi però nella storia di ognuno capitano quegli sconvolgimenti che non ti aspetti, quello che rimette tutto in gioco. Nel 2018 è nato il mio splendido bimbo, Gioele, con un cromosoma in più. Trisomia 21, meglio conosciuta come sindrome di Down. Non avendo fatto esami invasivi in gravidanza e non avendo casi in famiglia, è stata una sorpresa alla nascita. Devastante all’inizio. Ma mi ha fatto tirare fuori, non so da dove, una forza incredibile, quella dell’innamoramento forse, che tuttora mi aiuta a superare gli ostacoli quotidiani.
Oltre a essere proprio un bel bambino, Gioele non ha nessuno stato patologico grave legato alla sindrome di Down. È sanissimo, ha una capacità cognitiva molto buona. Deve però lavorare sull’ipotonia e sul linguaggio, sull’abilità di esprimersi con l’aiuto di esperti come neuro psicomotricisti e logopedisti.
Così a 40 anni, mamma di un bimbo di tre, ho fatto molta violenza su me stessa e mi sono iscritta a un’autoscuola vicino casa. Mentre le domande di teoria non mi risultavano poi così sconosciute, della guida avevo rimosso proprio tutto, non sapevo più nemmeno distinguere l’acceleratore dal freno e la paura di prendere sotto qualcuno non mi aveva abbandonato. E finalmente, dopo tanti soldi spesi, tante paure, tante sgridate dell’istruttore e qualche pianto in solitaria, ho preso la patente. Sì, ce l’ho fatta. Al primo colpo, sia teoria sia pratica.
Questa volta non mi è sembrata un’impresa così impossibile, ma forse sono stata semplicemente più fortunata Certo, l’ho fatto perché così posso portare anch’io mio figlio a fare le sue attività distanti da casa, quando serve o se il papà non c’è. Ma l’ho fatto soprattutto perché consapevole che proprio io, pigra come sono, dovrò spronare Gioele a impegnarsi un po’ di più degli altri bimbi, visto che il suo percorso sarà necessariamente più in salita rispetto al loro. Ho pensato che l’unico modo che posso avere per aiutarlo a superare i suoi limiti, è imparare a superarli io stessa, i miei limiti. E questo è stato il mio primo passo: patente presa. Ora sono in attesa dell’arrivo della mia prima auto bianca, usata e tutta mia. Nel frattempo faccio esercizio con la macchina di mio marito, leggermente sulle spine per questa condivisione. La cosa buffa è che invece Gioele sembra pacifico e divertito quando vede la mamma al volante. ● © RIPRODUZIONE RISERVATA
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