Riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 8 di Confidenze
«Chiudi gli occhi adesso» mi aveva sussurrato Germano, mentre ballavamo un lento alla festa di Carnevale. Poi mi aveva travolta con un bacio lungo e appassionato, pieno di trasporto e complicità. Allora, l’avevo guardato e avevo intuito la verità
STORIA VERA DI ELISABETTA C. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI
Germano aveva degli occhi stupendi. Mi avevano colpito da subito. Avevo sempre avuto un debole per gli uomini con gli occhi chiari, chissà forse una specie di inconscio retaggio infantile in cui l’immagine del famigerato principe azzurro era sempre biondo con gli occhi azzurri. Anche se poi a dire il vero Germano aveva davvero poco del principe azzurro. Non che fosse scostante o antipatico, ma era quello che le amiche definivano “il bel tenebroso”, uno che stava sulle sue, che parlava poco, riservatissimo, schivo. Ci eravamo conosciuti all’università. Io studiavo senza grande entusiasmo Giurisprudenza a Roma, venivamo entrambe da Ostia, dall’aria di mare e dai gabbiani molesti, ma nonostante avessimo diviso gli stessi luoghi dell’infanzia, non ci eravamo conosciuti prima dei vent’anni. Per me la scelta della facoltà era stata difficilissima. Non avevo idea di cosa fare della mia vita terminato il liceo, Germano invece aveva le idee chiarissime: sarebbe diventato avvocato e avrebbe proseguito la tradizione familiare, prendendo in mano lo studio dei genitori. Era un tipo metodico e attento, non uno studioso brillante in termini di voti, ma non saltava mai una sessione e riusciva sempre a portare a termine il piano di esami che si era prefissato. Io invece ero completamente disorganizzata e disordinata anche nel gestire il mio piano di studi. Il fatto era che non studiavo con la giusta motivazione, anzi a dirla tutta non ne avevo davvero una. La scelta era infine ricaduta su Giurisprudenza per il solo motivo che mi era parsa quella più utile per un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Poi era arrivato Germano. Forse quel suo metodo così efficiente e il fatto che mi spronasse a laurearmi in fretta come lui per poter iniziare insieme un percorso di pratica a partire dallo studio dei suoi, mi avevano coinvolta. Mi sentivo più al sicuro forse, rispetto all’idea di avere in qualche modo le spalle coperte da una coppia di professionisti che ci avrebbero seguito nel nostro percorso di crescita lavorativa e questa prospettiva aveva anche in qualche modo accelerato il legame affettivo fra me e Germano. Avevamo bruciato in fretta le tappe, lui pianificava già un imminente matrimonio, guardava gli annunci per appartamenti in affitto, era completamente proiettato nella dimensione del domani. Io cercavo semplicemente, e non senza fatica, di stare al suo passo. Non ci riuscivo bene e sentivo di quando in quando una sorta di severità nello sguardo del mio fidanzato, anche se Germano non aveva mai manifestato apertamente la cosa: si limitava a qualche rimprovero, spronandomi a fare meglio al prossimo esame, alla prossima sessione. Poi però le sessioni senza che io riuscissi a superare un esame, neppure con il suo aiuto, erano diventate troppe. Stavamo insieme da circa tre anni ormai e lui era già in procinto di terminare la triennale e poi proseguire con il biennio, io invece ero ancora molto indietro. Durante le cene in famiglia, percepivo un sottile ma strisciante senso di disapprovazione da parte dei genitori di Germano, non per il fatto che fossi una cattiva ragazza, ma per l’evidenza che non riuscivo a stare al passo del figlio, a inseguirne con profitto le ambizioni. Forse erano solo preoccupati che Germano avesse puntato su un ronzino piuttosto che su un purosangue, almeno per guidare lo studio di famiglia. Avvertivo che la cosa li impensieriva parecchio, anche se cercavano di non farmelo pesare.
A una di quelle cene poi, una sera, era arrivato Stefano. Non lo avevo mai visto prima e come da tradizione quasi familiare, ero stata accolta da lui “in veste” del fratello. Sì perché Stefano e Germano erano gemelli e forse nel fingersi con me Germano, Stefano dava spago a una specie di prova del fuoco. Una sorta di sfida al riconoscimento, che credo rientrasse nel tentativo di testare il mio intuito. Avevo suonato il campanello della villetta di Germano, come tante volte avevo fatto di sabato in occasione di questi “rendez-vous” fra avvocati, come li chiamava suo padre.
«Ciao!» aveva esordito quello che credevo essere Germano, nell’aprirmi la porta. Di primo acchito, forse anche perché ero distratta da un messaggio che avevo appena terminato di scrivere al cellulare, non mi ero minimamente accorta che ci fosse qualcosa di diverso. Istintivamente mi ero avvicinata al mio ragazzo per dargli un bacio di saluto, ma lui con un gesto abile e velocissimo, era riuscito a schivarlo, tirandomi dentro con una scusa. «Vieni dai! C’è una sorpresa».
Un po’ confusa e disorientata mi ero lasciata trascinare nell’abitazione. Dopo i saluti formali con i genitori era finalmente arrivata la sorpresa. I “Germano” erano due. Proprio di fronte a me avevo due versioni identiche del mio fidanzato. La cosa mi aveva scioccata. Certo sapevo che Germano aveva un fratello, me ne aveva parlato diffusamente come la pecora nera della famiglia, un tipo sempre in giro per il mondo a fare lavoretti come inserviente in ostelli o scaricando casse di frutta nei mercati. Stefano era uno “zingaro”, diceva suo fratello, uno a cui la vita cittadina non era mai piaciuta granché e andava in cerca di qualcosa, senza sapere esattamente cosa. Sapevo dell’esistenza di Stefano, non pensavo però che fosse del tutto identico al mio ragazzo. In casa non c’erano foto di famiglia o simili e Germano non mi aveva mai chiarito del tutto la cosa.
«Sorpresa!» avevano esclamato in coro i gemelli, continuando ad alimentare il mio sconcerto. Il padre mi si era poi avvicinato con un certo sorriso di compiacimento. «Elisabetta, vediamo se indovini chi è Germano» mi aveva detto mentre mi metteva una mano sulla spalla con un atteggiamento non tanto affettuoso, quanto pregno di quel senso di sfida che si respirava da sempre in quella famiglia. Sentivo un’improvvisa pressione, era un test e questo era chiarissimo, non potevo sbagliare, almeno questa prova dovevo passarla.
Mi ero avvicinata piano ai due cloni per cercare di studiarli con attenzione e dare finalmente la risposta giusta. Germano e Stefano erano evidentemente monozigoti, identici in tutto, non li tradiva neppure un centimetro in più o in meno nell’altezza, erano davvero quello che si suol dire “due gocce d’acqua”. Sentivo il padre ridacchiare alle mie spalle, forse sicuro del mio ennesimo fallimento, ma a quel punto mi era scattato un input di orgoglio: dovevo riconoscere il fidanzato “giusto”. Occhi, bocca, naso, perfino taglio di capelli erano esattamente gli stessi. Anche gli abiti erano molto simili, nel senso che tutti e due erano vestiti come di solito si vestiva Germano.
Solo più tardi avrei scoperto che poco dopo l’arrivo a Ostia, di ritorno da un viaggio in Guinea, Stefano si era andato a sistemare i capelli dal barbiere di famiglia e per accontentare i genitori in quello scherzo che per lui era “stupido e patetico” aveva indossato gli abiti del fratello. Non c’era scampo per me. Poi improvvisamente l’illuminazione: avevo cercato con attenzione certosina il dettaglio che mi avrebbe consegnato la risposta esatta e finalmente eccolo: poco sopra l’occhio di quello che si era presentato a me come “Germano”, scorreva una sottile linea bianca che sembrava segnare l’arco inferiore del sopracciglio sinistro.
Una cicatrice! Piccola, ben curata, ma Germano non ne aveva nessuna, ne ero sicura. Avevo tirato verso di me il gemello che doveva essere per forza il mio ragazzo e senza indugi gli avevo scoccato un bacio sulle labbra.
Alle mie spalle subito un applauso e una risata. Il padre si congratulava, mentre Germano mi abbracciava. Per una volta ci avevo azzeccato!
«Ok, adesso che avete fatto il vostro solito giochino, mi posso rimettere i miei vestiti?» aveva esclamato Stefano con una certa aria si sollievo.
I suoi avevano accordato il cambio, ma non prima che sua madre avesse sottolineato che con quei “panni civili” stava molto meglio. Mentre Stefano saliva a cambiarsi, noi ci eravamo accomodati a tavola. Poco dopo Stefano era ricomparso con una T-shirt celeste acceso e dei pantaloni cachi. Di certo Germano non sarebbe mai andato in giro con quei colori addosso. La madre disapprovava, sostenendo che il figlio fosse più “carino” con la camicia.
«Hai già un figlio “da camicia”, che te ne fai di due?».
La battuta di Stefano mi aveva fatto ridere. Avevo intuito presto che era un tipo molto più simpatico e alla mano del fratello. La cena era stata rivelatoria in questo senso. Stefano aveva monopolizzato la serata, parlando del suo ultimo viaggio e delle sue disavventure fra le mangrovie, isolato da tutto quel mondo “civile” in cui sua madre lo sognava incamiciato e pettinato. L’affinità fra me e lui era esplosa subito, lo avevo tempestato di domande, ma Germano non sembrava ingelosirsene. Credo che fosse convinto che non avrei mai considerato un tipo scapestrato come Stefano.
«E tu invece? Come mi hai riconosciuto? Mia madre mi ha fatto rasare la barba e tagliare i capelli dal nostro barbiere di fiducia esattamente come Germano. Ci taglia i capelli da quando eravamo piccoli. Io poi me li lascio crescere e li ritaglio solo quando sono qui. È la regola per stare a tavola vero mamma?» aveva esordito a un tratto Stefano con una certa aria di sfottò verso la signora imperlata e sempre impeccabile.
Io avevo sorriso.
«La cicatrice. Quella sull’occhio».
Stefano se l’era toccata istintivamente.
«Questa eh… Vorrei dirti che me la sono fatta in qualche modo rocambolesco».
«Ma invece è solo caduto da piccolo» aveva concluso con un certo sussiego Germano, spiegando che forse quello era il motivo per cui suo fratello si era rincretinito.
I due si erano messi a punzecchiarsi un po’ ma la cosa era finita presto, i genitori disapprovavano certi comportamenti, specie a tavola. La cena si era conclusa su quella battuta. Io e Germano ci eravamo ritagliati qualche momento insieme prima di salutarci e quando era stato il momento di congedarmi dal team avvocatesco, Stefano mi aveva concesso un solenne baciamano, un po’ per prendere in giro tutti credo, ma la cosa mi aveva colpita. Per qualche tempo avrei visto ancora Stefano a casa dei suoi genitori: era in Italia a causa di un vecchio problema a una gamba che era stata operata diverse volte e che era tornata dolorante. Avrebbe fatto accertamenti e capito eventualmente se doveva operarsi ancora. Grazie a questo piccolo incidente la nostra neonata affinità aveva avuto presto il tempo di trasformarsi in amicizia. Mi piaceva Stefano perché non sentivo alcuna pressione con lui, da me lui non si aspettava nessun risultato, mi sentivo libera. «Perché non molli tutto e insegui il tuo sogno Ely?» mi aveva detto un giorno Stefano in veranda dai suoi, mentre Germano era nello studio del padre a parlare di una causa.
La domanda mi aveva colta di sorpresa. «Sto già inseguendo il mio sogno…». «Sarebbe?».
«Diventare avvocato». A quel punto era scoppiato a ridere.
«Quello è il sogno di mio fratello, ma non il tuo».
«Che ne sai?».
«Lo so perché mentre lui parla di usucapione e gradi di giudizio come fosse la cosa più esaltante del mondo, tu sei qui a dondolarti annoiata su questo dondolo, proprio come sto facendo io».
Avevo abbassato lo sguardo. Era la prima volta che qualcuno metteva in risalto ad alta voce quella verità che cercavo in ogni modo di tacere. Era il talento di Stefano capire le persone, persino lui sarebbe stato un avvocato migliore di me.
«Allora?». «Allora cosa?». «Questo sogno?».
Non c’era scampo con lui, avrebbe insistito finché non avessi ceduto.
«Ceramica. Mi piacerebbe aprire un laboratorio di ceramica. Faccio delle cose per un piccolo negozio vicino casa dove ho seguito dei corsi. Mi sono appassionata…» ho finito per ammettere.
Era nata così la nostra complicità. Avevo avuto il coraggio di confessargli che pensavo di mollare l’università da un po’, ma che non trovavo ancora la forza di confessarlo a Germano. Non avrebbe capito. Poi, non avevo un soldo per avviare l’attività. Stefano si era enormemente stupito della mia arrendevolezza. Nei giorni a seguire mi aveva aiutato a cercare diversi bandi destinati a sovvenzionare piccole imprese con fondi europei.
Mancavano pochi giorni a Carnevale e i ragazzi della facoltà di Lettere avevano organizzato in un locale non troppo distante dall’università una festa in maschera. Non avevo voglia di andare, ma Stefano mi aveva convinta. Germano aveva stabilito che io e lui ci vestissimo da Diabolik ed Eva Kant, decisione alla quale non mi ero opposta come sempre.
La sera della festa però il mio fidanzato aveva avuto un problema con la sua macchina e aveva chiesto a suo fratello di accompagnarmi. Ci avrebbe raggiunti non appena risolto l’inconveniente con l’auto. Germano mi aveva avvisata con un messaggio, ma poi era arrivato lo stesso a prendermi con una smart a noleggio. L’avevo preso un po’ in giro per la tutina da Diabolik e per quella maschera da cui si intravedevano solo i suoi bei occhi azzurri, lui era più disteso del solito e alla festa ci eravamo divertiti parecchio. Durante un lento però, avevo sentito qualcosa di diverso. Improvvisamente mi era salito un brivido lungo la schiena.
«Chiudi gli occhi…» mi aveva sussurrato piano e sull’onda di quell’inaspettato romanticismo, avevo obbedito, come d’altra parte facevo sempre con Germano. Mi aveva baciata in un modo sconosciuto e bellissimo, un bacio così passionale che credevo non ne avrei mai ricevuto uno così nella vita. C’era un trasporto e una complicità dentro quel bacio che non avevo mai sentito prima. Poi avevo aperto gli occhi. La cicatrice sull’occhio. Stefano aveva cercato di trattenermi, di stringermi a lui, mormorando che sapeva da tempo quanto lo volessi anch’io, ma io lo avevo cacciato in malo modo. Poco più tardi sarebbe arrivato Germano, con una scusa mi sarei fatta riaccompagnare a casa. Nei giorni a seguire avevo evitato di andare a casa di Germano, ci vedevamo da me. Stefano mi mandava messaggi a cui non rispondevo, mi sentivo in colpa non per l’accaduto, ma perché il gesto di Stefano era solo la concretizzazione di un desiderio che mi tormentava da tempo. Volevo stare con lui, volevo mollare l’università, volevo avere il mio laboratorio. Non so bene come sia riuscita ad ammetterlo prima a me stessa e poi a comunicarlo a Germano, ma alla fine l’ho fatto. Gli ho detto del bacio, di tutto. Ma lo sapeva già. Stefano era stato più veloce di me nel confessarsi. Per lungo tempo non aveva più voluto vederci, né parlarci. Si era preso un tempo che mi era sembrato lunghissimo, infinito, per me pieno di angoscia e senso di colpa, durante il quale mi ero allontanata da entrambi i fratelli.
Poi una domenica pomeriggio mi era arrivato un suo sms: “Non eravamo giusti io e te. Mio fratello è uno a cui non interessa essere giusto per nessuno, ma per te sì. Vi odio eh, ma vieni a cena da noi”. ●
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