Vi riproponiamo sul blog una delle storie vere più apprezzate del n. 51 di Confidenze
Avrei potuto dirgli che si stava sbagliando, che non avevo comprato nessun quadro e non sapevo di cose stesse parlando. Invece benedicevo questa fatalità e l’idea di incontrarlo diventava eccitante
STORIA VERA DI LUIGIA M. RACCOLTA DA ANNALUCIA LOMUNNO
Poteva essere una giornata come tante, di moderata e tollerabile infelicità. Ci ero abituata, non ci facevo nemmeno caso. Ero tranquilla, disgustosamente sicura di me, e desideravo soltanto che non ci fosse nulla di particolarmente devastante all’orizzonte. Lavoro, amici, un amico più speciale degli altri con cui finivo a letto spesso, ma niente di più. Nessun coinvolgimento, i suoi baci, il suo viso, il suo corpo scolpito erano lì, in uno spazio preciso e definito, prevedibile. Andava bene a entrambi, nessuna angoscia. Vivevo indisturbata, tra fotografie ingiallite della mia infanzia felice e un esatto presente molto elegante. Una relazione segreta, biancheria segreta, occasionali lenzuola di seta. Un’idealista o una bastarda senza cuore, lasciavo libere tutte le interpretazioni a riguardo. Non pensavo che la mia vita potesse diventare una cosa completamente nuova all’improvviso. Ma sul mio sottovalutabile display, in quella indimenticabile giornata grigia e piena di freddo, era apparso di colpo un numero sconosciuto. Rispondevo appena incuriosita da una voce chiara, che sapeva di buono, bellissima. «Buongiorno, sono Giuliano, dovrebbe ritirare il suo quadro». Mi ripeteva come un tuono. «La galleria rimarrà aperta tutto il pomeriggio». Non sapevo di cosa stesse parlando quell’uomo misterioso. Ma intanto, lo lasciavo continuare, come se quella novità fosse una specie di tornado pacifico, e provavo a sondare quel fascino misterioso che mi aveva incantato senza una vera ragione. «Ho ancora in mente le sue parole, le ridico a me stesso come se fossero necessarie alla mia sopravvivenza. Lei ha comprato questo quadro perché voleva salvarlo. Era qui nella galleria da secoli forse, e nessuno lo aveva mai degnato di uno sguardo. E poi di colpo ha trovato gli occhi giusti, i suoi».
Quelle parole sembravano un miracolo, un miracolo di raffinatezza. Io non avevo comprato nessun quadro, non frequentavo le gallerie, e benché il mondo dell’arte mi sembrasse difficile e intrigante allo stesso tempo, non avevo mai avuto o cercato occasioni di contaminazione, di avvicinamento. Avrei potuto chiuderla lì, dirgli che stava sbagliando tutto, che si trattava di un errore, di un banalissimo errore. Ma in una frazione di secondo, mentre lui continuava a flirtare con me, credendo che fossi un’altra, ho ricomposto frettolosamente tutti gli errori della mia vita. Ho ripensato a tutte le volte che avevo sbagliato inconsapevolmente. Alle sviste, alle mancanze, alle stupidaggini, alla consistenza
drammatica di certe stanze vuote, di certe esperienze evitabili, all’infinità delle cose rotte impossibili da riparare. E allora sì, come una pazza incosciente sono rimasta ad ascoltarlo, benedicendo la fatalità e l’assurdità di una telefonata non destinata a me. «Venga presto, la prego» aggiungeva lui. «La supplicherò di parlarmi di questo quadro, e della sua necessaria essenzialità nello schema della sua casa, della sua vita».
Gli rispondevo che mi sarei precipitata, e come la più imbranata delle conquistatrici seriali, gli chiedevo anche di riconfermarmi l’indirizzo della galleria, colpevolizzando inesistenti vuoti di memoria, stress, impegni, appuntamenti, scadenze invasive, amnesie mie. Quella splendida voce si spezzava di botto, inevitabile. Era impossibile che non ricordassi una geografia così importante, pareva quasi che lo stessi prendendo in giro. Ma poi improvvisamente, la conversazione ripartiva come se niente fosse, e lui mi dettava l’indirizzo come se io potessi scriverlo. Come se fossi in prima elementare, come se dovessi memorizzarlo all’istante. Ok, mi puniva, mi cercava, mi voleva. Forse era convinto che stessi scherzando, e che ogni cosa fosse già strategia e seduzione tra noi due, gioco.
Chissà cosa avrebbe detto di fronte a questa perfetta estranea che rivendicava un quadro non suo. L’appuntamento era stato prontamente fissato. Avevo due lunghissimi giorni davanti, un lampo in realtà. Pensavo a cosa mettermi addosso per incontrarlo, elencavo i miei vestiti, visitavo il mio armadio come se fosse un museo. E poi naturalmente pensavo a lui, inconsciamente quasi mi ritrovavo a sentirne già la mancanza. Avevo fatto una ricerca sulla sua galleria, lo avevo individuato. E avevo provato ad approfondire, scandagliando i suoi profili social. Era single, per fortuna, sembravamo molto simili. Alcune letture in comune, città visitate da entrambi, una certa insolita passione per l’inverno, vita notturna qua e là, cinema, tanto, molti film visti in ogni dove, anche in casa, al riparo di un plaid avvolgente. Lui documentava molto, fotografava, era un appassionato della vita, supremamente seducente. E io ne ero entusiasta, ma mi sentivo anche particolarmente stupida. Lui non puntava su di me, aveva venduto quel celeberrimo quadro misterioso a un’altra donna, e ovvia- mente sarei stata smascherata in un attimo. Ma l’idea di incontrarlo era sempre maledettamente eccitante, una cosa mai provata prima. Gli avrei proposto un caffè o una cosa più contemporanea, un bicchiere pieno zeppo di cubetti di ghiaccio, cubetti perfetti. Volevo stupirlo, ma non sapevo nemmeno cosa raffigurasse quella tela. La sua galleria ospitava diversi giovani autori.
Giuliano era stato coraggiosissimo, perché aveva investito in una città di provincia, e promuoveva artisti sconosciuti ma talentuosi e determinati. Meritava la mia attenzione, mi faceva tremare. Era anche questo, sì, un inconfessabile segreto, o forse l’errore più grande e giusto della mia intera esistenza. Ma volevo rischiare, invischiarmi e non pentirmi. Ero pronta, anzi questo salto nel vuoto mi pareva paradossalmente la faccenda meno strana e barbarica che avessi mai tentato. Con il mio trench migliore, aprivo la porta del suo regno con la spavalderia di un critico d’arte. Giuliano era lì, riordinava cornici dorate. Mi sono avvicinata a lui da vecchia amica, e non sapevo esattamente cosa dire, improvvisavo. Era molto imbarazzante e mi intrigava. «Io sarei qui per quel quadro» gli dicevo, quasi balbettando.
Lui mi sorrideva, illuminandomi. «Il quadro è stato ritirato un attimo fa». Io arrossivo, ma continuavo a fissarlo negli occhi, Giuliano sembrava divertirsi. «Ormai sei qui, dovresti dare un’occhiata in giro».
Ok, replicavo con destrezza. «Perdonami, si è trattato di un equivoco, era evidente che tu avessi sbagliato numero, ma parlare con te era talmente interessante, non volevo che finisse». Lui diventava serio di colpo. «Non lo volevo nemmeno io» diceva. «La tua voce mi piaceva e ora mi piaci tu». Aggiungeva pure, proprio come avevo sperato. Quel pomeriggio ignoravamo la mia idea dei cubetti perfetti e optavamo per la migliore delle cene, per il migliore dei finali. Puntando sull’inizio di una storia d’amore autentica, la mia prima storia d’amore vera. ●
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