Riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 19
Sono cresciuta troppo in fretta, riempiendo in famiglia i vuoti di due genitori assenti. Mi sentivo forte, ma dentro ero fragile e, a un certo punto, sono crollata. È stato allora che la super squadra speciale della mia infanzia mi ha salvato la vita
STORIA VERA DI CINZIA V. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI
Caterina, Marco e Matteo eccoli, questi sono i miei fratelli. E poi c’erano loro, i nostri genitori. Ma si fa per dire. La realtà era tutta un’altra cosa.
A essere precisi Caterina, Marco e Matteo più che fratelli per me erano figli, da seguire, guidare, accudire. Tre bambini di pochi anni più piccoli di me, ma dei quali mi ero fatta carico senza nemmeno accorgermene. Sì perché se ci ripenso non saprei dire il momento esatto quando in cuor mio decisi di adottarli emotivamente ma so che da allora per me il mondo si era rovesciato come d’altronde il mio modo di guardare i nostri genitori.
Mia madre, dopo essersi sposata giovane e bellissima, si era illusa che il matrimonio e una nidiata di figli sarebbero bastati per avere mio padre tutto per sé. Credo non si sia mai data pace, il marito era un’ossessione che l’assorbiva completamente rendendo il mondo intorno pressoché inesistente, noi figli più di ogni altra cosa. La ricordo vaporosa e frivola dopo una mattinata dal parrucchiere, correre da una parte all’altra della stanza per mostrarmi i vestiti che avrebbe indossato per accogliere mio padre di ritorno dalle navi da crociera sulle quali era medico di bordo. Splendida e trepidante, si apprestava a rincorrerlo alle feste, alle cene e agli eventi, consapevole di consumare le sue energie dietro a un uomo che, dopo il lavoro, aveva fatto del tradimento il suo secondo talento.
«Cosa dici, pensi che piacerà a papà? O forse meglio questo?» mi chiedeva cinguettando con voce da ragazzina. Indicavo un abito a caso, ben consapevole dell’inutilità del mio parere. Allora si vestiva, si truccava con cura e si avvolgeva in una nuvola di profumo a suggello di un’altra sicura disfatta.
Sì perché mio padre era speciale e stargli dietro era impossibile. Serio e tutto d’un pezzo sul lavoro, seduttore e giocherellone incosciente nella vita privata, quando tornava era una vera e propria ventata di divertimento per ognuno di noi, mia madre compresa. La casa tutta esplodeva di fronte all’entusiasmo di quell’uomo bello come il sole che ci regalava ore memorabili di giochi, balli e gare da lui inventate, per poi finire tutti davanti a enormi gelati di cui ancora ricordo i gusti prelibati.
Purtroppo la sua presenza era una folata di vento che ci travolgeva e ci abbandonava sempre troppo presto. Di fronte alle impellenze lavorative o ai doveri, a dire di mio padre inderogabili, che lo facevano fuggire lontano sorridente e brioso come era arrivato, mia madre si disperava e opponeva un’estenuante resistenza con urla e fragori di guerra che la lasciavano comunque agonizzante e sola con la certezza che da qualche parte ci fosse un altrove sempre più urgente e più importante di lei. «Vostro padre, un mascalzone, ecco cos’è!» singhiozzava di struggimento amoroso una volta partito lo sposo fedifrago, prima di andare a chiudersi in camera in un letargo senza fine. Io e i miei fratelli trascorrevamo interi pomeriggi di fronte alla porta della sua stanza in attesa di un segno e quando usciva senza nemmeno vederci per correre a telefonare alle amiche a lamentarsi delle inesauribili pene d’amore cui era sottoposta da un destino ingrato, non sapevamo se esserne offesi oppure sollevati.
La situazione era grave, così di fronte alle assenze a strapiombo sull’abbandono di mio padre e al dolore accecante di mia madre, iniziai ad avvertire la vocazione dell’acqua, quella cioè di andare a colmare gli spazi vuoti. Cominciai a consolare quella donna-bambina prostrata dalle delusioni costanti, per migliorarle la vita con consigli e allegria posticcia, tanto per farle abbozzare almeno un sorriso che sapevo avrebbe fatto tanto bene a lei e ai miei fratelli.
«Mamma, vedrai che torna presto e ci porta fuori tutti insieme». Oppure: «Tu sei la più bella di tutte, lui non vede l’ora di tornare tra le tue braccia, fidati».
Ed è stato un attimo dare inizio alla mia carriera di genitore sostitutivo e sentirmi responsabile per tutti, nessuno escluso, mia madre per prima, anche se a volte mi capitava, in qualche moto di rancore di pensare rivolta a lei: “Ma non vedi che abbiamo bisogno di te? Non vedi come sono piccoli Caterina, Marco e Matteo?”. Altre volte invece inveivo mentalmente contro mio padre: ”Perché ti sei fatto una famiglia se poi scappi sempre? Non sei un padre, sei un ragazzino”.
Ma a parte questi rari momenti di sgomento, tiravo avanti a testa bassa e con il sorriso sulle labbra. Al mattino dopo essermi accertata che la mamma stesse bene, preparavo la colazione per tutti e prima di andare a scuola controllavo che i piccoli avessero le cartelle pronte e la merenda. Dopo pranzo facevamo i compiti sul grande tavolo del salone tutti insieme, così che potessi seguire chi ne aveva bisogno. La sera poi arrivava il momento più bello dove ognuno nel proprio letto raccontava le avventure della giornata. Erano risa
e sfottò, ma soprattutto era un modo che avevo inventato per scaldarci il cuore e farci sentire partecipi l’uno alla vita dell’altro. E fu proprio da quelle serate che nacque la cosiddetta “squadra dei super fratelli contro tutti”, che ci salvò la vita e a cui non avremmo mai smesso di appartenere. Per diversi anni andammo avanti così, con enormi sacrifici ma anche grandi soddisfazioni. In primis la scuola. Avevo sempre preteso dai miei fratelli impegno e serietà nello studio, tanto che eravamo sempre stati tra i primi della classe ed ero arrivata a pensare che l’appagamento che provavo nel vedere i ragazzi giudiziosi che ero riuscita a tirare su, legati da un amore profondo, fosse un sentimento sufficiente per la mia felicita. Ma dovetti ricredermi.
Una nuova esigenza emerse in me, in tutta la sua evidenza, durante il mio ultimo anno di università. Avevo ancora pochi esami da dare, ma stavo procedendo a fatica, sopraffatta da un nervosismo e un’inquietudine persistenti che in seguito a uno dei soliti litigi dei miei, deflagrarono in un’onda di rabbia travolgente. In un attimo tutti i pesi e le responsabilità che quei due mi avevano addossato senza problemi e che andavano ben oltre quanto una ragazzina potesse sopportare, si trasformarono in puro furore per l’ingiustizia subita e per l’infanzia che mi era stata sottratta. Furore che, ostinato e tagliente, esplose nel desiderio irrefrenabile di vivere una vita tutta mia. In fondo ora i miei fratelli erano grandi e potevo permettermela.
E fu con quella determinazione che conobbi Tommaso, un ragazzo dalla leggerezza innata, cosa di cui avevo un estremo bisogno, che mi faceva ridere senza dire una sola parola. Come studente dell’ultimo anno fuori sede, per alleggerire i genitori dalle spese, faceva qualche lavoretto e viveva in un appartamento da solo. Per me era l’occasione perfetta.
«Mi trasferisco da te, appena trovo lavoro» la buttai lì un giorno per vedere la sua reazione.
«Splendido» mi rispose lui senza esitare.
Così era deciso, ma se di fronte al mio annuncio i miei, sempre presi dalle loro bizze, se la cavarono con la solita frase della figlia responsabile, che sa quello che fa,
i fratelli non si davano pace.
«Sono all’università grazie a te. Adesso cos’è questa storia che proprio tu molli tutto per andare a lavorare? Studiare e studiare, non hai fatto che ripetercelo. Così non stai punendo mamma e papà, ma solo te stessa» non faceva che ripetermi mia sorella Caterina, mentre Marco e Matteo arrivarono a minacciare di andare da Tommaso a chiedergli di lasciarmi perdere.
Ma di fronte alle mie rimostranze dovettero arrendersi e non appena trovai lavoro, mi buttai a capofitto nella mia vita nuova di zecca.
Con Tommaso all’inizio mi trovai bene e se ci ripenso non saprei dire il momento esatto quando iniziai a sentirmi responsabile anche per lui e quando riproposi lo stesso schema della mia vita precedente. So solo che mi ritrovai a sostenerlo, a motivarlo e a mantenerlo economicamente per tutti gli anni di praticantato e per il periodo del master grazie al quale poi venne assunto da un’ottima società finanziaria.
«Sono fatta così, ho il senso materno, ci si nasce…» mi giustificavo, tanto da crederci sul serio visto che nel giro di poco divenni anche una madre di famiglia vera e propria. Un anno dopo che Tommaso aveva trovato lavoro, infatti rimasi incinta di Melodia e dopo poco di Lorenzo. Organizzavo la nostra vita famigliare, i pranzi, le cene, la scuola, le vacanze, gli incontri con gli amici e come avevo accudito i miei fratelli, mia madre e Tommaso ora lo facevo anche con i miei figli. E cosa interessante, dentro quella vita tutta mia, ero convinta di aver costruito un regno lontano da liti e scontri costanti, dove ognuno era felice. Almeno fino al giorno di quella telefonata.
Perché una telefonata che cambia tutto c’è sempre nelle storie come la mia.
Forse se mi fossi ricordata di Marco Aurelio che avevo tanto amato al liceo, non mi sarei illusa: ”Vivere è un’arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che ci arrivano imprevisti”. E il colpo che mi era toccato in sorte arrivò pesante e ben assestato.
Al telefono udii una voce esitante arrivare da lontano. «Parlo con la moglie di Tommaso? Lei non mi conosce, ma suo marito sì. Possiamo parlare?».
Esitai, rimanendo a fissare il vuoto con la netta consapevolezza di una bufera in arrivo.
«Sì… Chi parla?».
«Mi chiamo Marina e sono la donna che Tommaso ama da più di tre anni. Visto che lui non ha il coraggio di dirglielo, lo faccio io una buona volta».
Lì per lì quelle frasi shock rimasero prive di senso, miseri echi di un grande vuoto.
«Prego?» riuscii a sussurrare a stento.
E allora quel grande vuoto cominciò a riempirsi delle parole di quella sconosciuta. Dopo aver ascoltato educatamente per un tempo indefinito ed eterno la voce squillante che descriveva con dovizia di particolari una realtà abitata da un Tommaso sconosciuto, che amava e viveva in un altro universo lontano anni luce da noi, la sofferenza da astratta aveva cominciato a palesarsi in modo fisico. Sentii le gambe spezzarsi come falciate di netto e un dolore lancinante alla testa offuscarmi la vista. Interruppi bruscamente la donna al telefono in un momento qualunque del suo delirio per dirle, con la stessa indifferenza con cui ci si sgancia dalle proposte di un call center, che non avevo tempo, che avevo da fare, tanto, tanto da fare.
Una volta riattaccato, caddi in ginocchio e restai in salotto così fino all’imbrunire, immobile a fissare il muro senza osare muovermi per timore che ciò che dentro di me si era rotto in mille pezzi andasse perduto per sempre. Da lì, mi fu chiaro che la forza che avevo da sempre sentito dentro per sorreggere gli altri, come per sortilegio, era volata via e mi aveva lasciata vuota ed esangue e soprattutto mi fu evidente che scendere la china era molto più facile di quanto avessi pensato.
La mia camera rapidamente diventò il mio bunker da cui nemmeno i bambini potevano tirarmi fuori. Non volevo più nessuno a cui badare, meno che mai me stessa. Accostai le persiane, mi misi a letto e rimasi chiusa in quella stanza per settimane. La notte restavo sveglia, ossessionata da un unico pensiero: Tommaso. Persa in quella nebbia ogni tanto pensavo a mia madre e a mio padre che ormai non c’erano più e ai miei fratelli. A volte intravedevo una figura esile come un fantasma aggirarsi muta intorno a me e solo quando credetti di aver perso completamente la strada del ritorno iniziai a sentire la sua voce.
«Avanti, non puoi cedere ora, non è da te. Tu sei stata la mia forza!».
Quella presenza non mi mollò un momento fino a farmi uscire dal mio torpore e aprire gli occhi. «Ora ci sono io, andiamo, alzati» sussurrava seduta sul mio letto mia sorella Caterina. «Non ti lascerò più qui sdraiata. È ora di tirarti su e di ricominciare. Ne abbiamo passate tante, una in più non fa differenza. Noi siamo la “squadra dei super fratelli contro tutti”, ricordi?». Come dimenticare? Piano, senza mai mollare la sua mano, mi alzai dal letto. In salotto trovai Matteo che sistemava la spesa e Marco intento a giocare con Melodia e Lorenzo.
«Mamma che bello che ti sei svegliata! Tra poco è l’ora in cui zio Marco e zio Matteo ci aiutano a fare i compiti» mi salutarono i bambini saltandomi al collo.
«Ma cosa ci fate qui?» domandai confusa ai miei fratelli. Non fu necessario che mi rispondessero, i loro occhi mi riportarono indietro a un calore e a un’unione così saldi da far fronte a qualunque naufragio, così limpidi da dissipare ogni turbamento.
Gestirono le visite di Melodia e Lorenzo al loro padre che nel frattempo si era trasferito da Marina e, coadiuvati da un terapista, rimisero insieme i miei pezzi cominciando da lontano, perché per andare avanti avevo bisogno di tornare indietro.
Mi coccolarono come un uccellino caduto dal nido e attraverso la narrazione di noi mi regalarono perle di quell’infanzia che non avevo vissuto fino in fondo. Mi raccontarono di me e mentre ridevo e piangevo di fronte a quella bambina che ero stata, conobbi l’accettazione. L’accettazione di me stessa cucciola bisognosa di accudimento, di provare stati d’animo infantili, di poterli esprimere in capricci e bizze come sarebbe stato giusto. L’accettazione di mia madre che, giovane e disperata, persa nella stessa angoscia che stavo provando io, aveva deciso di vedere in me più un’amica e una confidente che una figlia. L’accettazione di mio padre per quello che era, un giovane volubile e immaturo che sapeva farsi amare. Infine l’accettazione di Tommaso, un uomo come tanti, che aveva scelto un’altra strada lontano da me.
Ognuno di noi finalmente aveva trovato un luogo di pace nel mio cuore.
E visto che nella vita ciò che si semina torna, sono stati proprio Caterina, Marco e Matteo, i miei super fratelli, fiori improbabili cresciuti insieme a me su un piccolo grumo di terra attaccato a una roccia, che mi hanno aiutato a sopravvivere. Comunque vadano le cose, oggi più che mai, ho una certezza: malgrado siamo grandi e ci somigliamo sempre meno nei tratti, proprio l’essere stati gettati soli nel mondo ci ha reso simili e di un valore inestimabile l’uno per l’altro, che durerà per sempre. ●
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