La storia preferita di questa settimana è “Il gatto rosso” di Miriam Messina, pubblicata sul n. 9 di Confidenze.
Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Martina R. raccolta da Miriam Messina
Ero da sempre allergica ai gatti, o così credevo, perché quando ne vedevo uno, avvertivo sempre una sensazione di malessere, anche se in realtà non starnutivo e non avevo pruriti, i classici sintomi di chi è allergico.
Quel giorno mentre salivo le scale per andare da mio padre incrociai un gatto rosso e lo evitai come la peste. Stavo pensando seriamente di tornare a vivere con lui, perché da quando era morta mia madre, due anni prima, era sempre troppo triste e demoralizzato. Entrai nel salone, le tapparelle erano chiuse, nonostante fuori ci fosse un bel sole. Mio padre era seduto sul divano con lo sguardo perso nel vuoto e in mano l’album del viaggio di nozze. Mi sedetti vicino e lui mi prese per mano: «Martina, io non riesco a dimenticarla, come devo fare?».
«Papà non puoi continuare a vivere nel ricordo, sei giovane, devi guardare avanti». In quel momento capii che non potevo più lasciarlo solo, dovevo tornare a stare con lui. Mentre stavo per comunicargli la mia decisione, il gatto rosso fece capolino dalla finestra, che avevo lasciato socchiusa. Con uno scatto mi alzai dal divano e lo cacciai immediatamente fuori.
Mio padre restò indifferente a tutta la manovra e cominciai a pensare seriamente che stesse cadendo in una vera e propria depressione. Entrai nella stanza matrimoniale dei miei genitori e cominciai a sistemare i vestiti che papà aveva lasciato in giro. Quando aprii l’armadio mi sembrò di sentire come sempre ancora il profumo di mia madre. Allora presi il suo cappotto grigio chiaro, lo avevamo acquistato insieme, lo indossai e mi sentii immediatamente meglio, come se mi stesse abbracciando. Chiusi gli occhi e infilai le mani nelle tasche e a un certo punto toccai qualcosa. Era un quadernetto. Lo aprii e notai che era un diario. Che emozione. Non sapevo che mia madre tenesse un diario.
Decisi di non farlo vedere a mio padre, per adesso, e di leggerlo poi con calma. Pranzammo quasi in silenzio e poi lui andò a fare un riposino. Mi accoccolai allora sulla poltrona di mia madre, tirai fuori il quadernetto e cominciai a leggere. Lei aveva cominciato a scrivere quel diario quando aveva scoperto di essere malata. Erano tutte lettere per me e mio padre. “Ciao Ettore, lo so che in questo momento ti sentirai triste e solo perché non sono più accanto a te, ma ricordati che nostra figlia ha bisogno che tu sia sereno, per poter continuare la sua vita e non avere il cuore doppiamente affranto. So che sei un uomo forte e che ce la potrai fare anche senza di me al tuo fianco”.
Le aveva scritte alternate, una per me e una per lui. “Ciao Martina, sei sempre stata una ragazza forte e matura, io non pretendo nulla da te, desidero soltanto che tu vada avanti nella tua vita senza avvertire un buco nero ogni volta che penserai a me. Non voglio che tu creda che la vita ti abbia tolto qualcosa, purtroppo è andata così e noi non possiamo farci niente. Dio solo sa quanto avrei voluto vederti realizzata in una tua famiglia e tenere tra le braccia un figlio tuo. Io ci sarò in quei momenti, sarò la tua forza e il tuo angelo custode, figlia mia”. Erano parole meravigliose e non vedevo l’ora che mio padre si risvegliasse per fargliele leggere. Quel pomeriggio ne leggemmo un bel po’ insieme, commuovendoci spesso. Poi decisi di uscire a fare due passi e comprare dei dolci da mangiare la sera con papà, sperando che li avrebbe graditi, visto che stava dimagrendo a vista d’occhio. Tornando a casa, feci mente locale sugli impegni per l’indomani.
Mi aspettava una lunga giornata di lavoro, ero parrucchiera in uno dei saloni più importanti della città, un mestiere che mi piaceva, lo avevo scelto io.
A casa mio padre assaggiò soltanto un pasticcino, con l’espressione sempre più assente. Il giorno dopo mi sarei messa in contatto con uno specialista per un colloquio, non potevamo continuare così.
Quella notte feci un incubo. Ero con mia madre che aveva il pancione, come se aspettasse un bambino, e teneva in braccio un gatto bianco. Io mi avvicinai al micio per accarezzarlo e all’improvviso mia madre urlò talmente forte che mi risvegliai in un bagno di sudore. Che strano sogno. Mia madre incinta. Non ci pensai più e cercai di riaddormentarmi. Trascorse una settimana molto dura, cercavo di convincere mio padre a consultare uno specialista che lo tirasse fuori dalla sua depressione. Una sera decisi di finire di leggere il diario di mia madre. Restavano due sole pagine, sapevo che erano le ultime parole che mia madre aveva scritto per me, per noi, l’ultimo dono per la famiglia che tanto amava. “Cara Martina, mentre ti scrivo c’è un gatto rosso che mi guarda dal vetro della finestra. Non ti ho mai raccontato il motivo per cui tu hai tanta paura di questi animali. Quando avevi 4 anni, io aspettavo un bambino, era un maschietto, avevamo deciso di chiamarlo Matteo. Un giorno eravamo in giardino, avevamo un gatto bianco allora, tu stavi giocando con lui. A un certo punto hai cominciato a tirargli la coda, lui si è innervosito e con un balzo ti è saltato in viso, graffiandoti sugli occhi. Tu hai cominciato a gridare e avevi il viso rigato di sangue. Ero sola, tuo padre era al lavoro e non sapevo che fare. Il sangue era tanto e pensai che il gatto ti avesse rovinato gli occhi. Per fortuna erano solo graffi sulla fronte, che sono guariti dopo pochi giorni. Dallo spavento però, io persi il bambino, cara Martina. Non so perché non ho voluto mai raccontarti questa storia, mi dispiace per non averlo fatto quando potevo. Mi dispiace che non potremo più parlare attraverso la voce e gli sguardi, ma sappi che i nostri discorsi di madre e figlia continueranno in eterno…”.
In quel momento capii finalmente il perché della mia fobia verso i gatti e compresi anche la verità su quella piccola cicatrice bianca che avevo sulla fronte.
Il giorno dopo salendo le scale di casa non provai la sensazione di angoscia che mi assaliva sempre quando andavo a trovare papà.
A un tratto mi sentii chiamare: «Martina vieni». Sussultai, era la voce di mio padre, allegra, forte, gioiosa, com’era sempre stata, non spenta come ultimamente.
Entrai nel salone illuminato dal sole e lui era seduto sul divano, sorrideva, gli occhi gli brillavano e sulle gambe aveva il gatto rosso che faceva le fusa. Mi sedetti accanto a lui, emozionata e felice. Provai a carezzare il gatto, era morbido e caldo.
Papà allora disse: «Dobbiamo uscire subito, prima che chiudano i negozi, per acquistare dei croccantini e una cuccia calda per la nostra micia, non può più vivere per strada, deve stare con noi. Vorrei chiamarla Carolina, come tua madre, ha il pelo rosso come i suoi capelli, al sole hanno lo stesso riflesso». Risposi che non si può dare a un animale il nome di una persona, ma poi guardai la gatta e in effetti il riflesso del pelo era uguale al colore dei capelli di mia madre.
Abbracciai forte mio padre e sentii che il futuro sarebbe stato sereno, finalmente.
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