Nell’articolo Padre e figlia, la giusta distanza (su Confidenze in edicola adesso) tre signori raccontano il rapporto con la donna più importante della loro vita: quella che hanno messo al mondo. Le testimonianze, però (a parte l’ultima), non rivelano legami idilliaci. Quindi leggendole mi è dispiaciuto moltissimo per gli intervistati.
Il pezzo inizia sostenendo che “ogni uomo può essere padre, ma ci vuole una persona speciale per essere papà”. Be’, mi ritengo super fortunata, perché il mio non era né l’uno né l’altro: lui era il babbut, cioè un genitore così straordinario (dire speciale è riduttivo) che nessun autore di belle fiabe sarebbe mai riuscito a inventare.
Sì, l’avrete capito: appartengo alla categorie delle figlie “innamorate” del papà. E, gran figata, il sentimento era corrisposto. Ma a rendere il nostro rapporto perfetto è stata anche la mia mamma, che dopo la separazione non ha mai ostacolato nessun incontro, anzi. Per noi bambini non esistevano i weekend alternati o altre regole ferree: vicini di casa, i genitori ci lasciavano liberi di decidere dove andare dopo la scuola, con chi fare le vacanze, a chi confidare gioie e dolori.
L’atteggiamento adottato dai Di Giorgio senior ha fatto della nostra famiglia un clan unitissimo fino all’ultimo. Ma, soprattutto, ha permesso a me di vivere il babbut come l’amico più fidato, grande e quindi saggio, sempre disposto a capire la mia vera essenza e a non influenzarmi con la sua forte personalità.
Insomma, la vita insieme a lui è stata meravigliosa, intensa e piena zeppa di calore, amore e divertimento. Anche perché, mondano fino al midollo, non perdeva occasione di coinvolgere me, mio fratello e i nostri amici nella sua esistenza roboante.
Tutto per dire che non vedo il bisogno di una giusta distanza tra padre e figlia. Mentre sono d’accordo (l’articolo sostiene anche questo) che il papà sia una figura centrale per la crescita di ogni ragazza. Nel mio caso, è stata quella che mi ha divertita quando ero bambina. Mi ha fatto sentire sicura (al limite della tracotanza) anche nei difficili anni dell’adolescenza. E mi ha sempre sostenuto mentre crescevo e facevo le mie scelte di vita importanti.
Con lui ho riso, pianto, chiacchierato, girato l’Europa in auto (non gli piacevano gli aerei). Frequentato ristoranti top e trattorie alla buona. Navigato mari, laghi e fiumi. Ho scoperto che nella vita puoi osare e se non lo fai è solo perché non lo desideri davvero. Ho capito che le giornate possono andare a gonfie vele ma anche impantanarsi nella calma piatta. E che la generosità d’animo è più gratificante dell’aridità di sentimenti.
Insomma, il babbut è stato il miglior maestro e la più solida colonna che potessi avere. E se devo a lui tanta della mia caparbietà nel cercare di godermi la vita, restano memorabili le serate nella sua casa sempre affollatissima di ospiti, con la chitarra e i cori intergenerazionali formati dai suoi e i nostri amici. L’unico neo? Un repertorio un po’ datato: invece di cantare Jovanotti si intonavano Una carezza in un pugno di Celentano o Domani è un altro giorno della Vanoni. Brani effettivamente paleolitici ormai, ma che a me piaceranno sempre.
Ultimi commenti