Mio figlio ha 15 anni e soffre di sindrome di Asperger, si sente a disagio con chiunque. Quando mi chiamano i Carabinieri a casa temo il peggio. Invece, ancora una volta, lui mi stupisce
storia vera di Giulia C. raccolta da Francesca Stucchi
Sabato notte, avevo appena lasciato la caserma dei Carabinieri con un peso che mi opprimeva il petto. Il comandante, un omone sulla cinquantina, mi aveva rivolto una decina di domande mirate, una sorta di interrogatorio. Voleva sapere esattamente a che ora fosse uscito di casa mio figlio, com’era vestito, se avessi notato qualcosa di strano nel suo comportamento, se mi avesse detto dove sarebbe andato, con chi e a che ora sarebbe tornato. Risposi precisa, non mi sfuggono i particolari e Michele lo guardo sempre con attenzione. È il mio primo figlio, ho sofferto le pene dell’inferno nei nove mesi di gravidanza, ho sputato sangue per partorirlo e sono svenuta nel corridoio quando, all’età di 15 anni, un dottore, dopo averlo sottoposto a mille test, guardandomi da sopra gli occhiali, mi disse, così su due piedi, che era affetto da un disturbo dello spettro autistico, la sindrome di Asperger.A dir la verità, io mi ero accorta di alcune stranezze, spesso se ne stava chiuso in camera sua al buio in silenzio, dondolandosi sulla sedia. Se aprivo la porta si metteva a urlare così forte che dovevo uscire. Non ricordava nulla di quello che gli dicevo, se la mattina gli davo delle indicazioni prima di andare al lavoro, nonostante i suoi sì, potevo star certa che non avrebbe fatto alcunché di quello che gli avevo chiesto. Certe cose invece le memorizzava perfettamente, soprattutto le serie di numeri, le targhe delle auto e i risultati delle partite di calcio. Non sopportava la confusione, l’attesa, l’acqua e nemmeno la scuola, o meglio la scuola tradizionale. Poi un istituto adatto a lui l’abbiamo trovato, dove le persone erano considerate per quello che erano più che per le prestazioni scolastiche, dove contava più l’applicazione pratica che lo studio teorico; dove un ragazzo con un’intelligenza diversa non faceva paura, anzi era una risorsa. Dopo le superiori aveva iniziato a lavorare in un’azienda informatica, il suo capo l’aveva preso a cuore e lui riusciva a rendere bene, mettendoci qualcosa di suo.Michele è sempre stato un ragazzo triste, incapace di spiegarci cos’avrebbe potuto farlo stare meglio. Alto e magro, ci scruta da sotto il ciuffo con lucenti occhi rame, tiene quasi sempre i pugni chiusi, con chiunque è a disagio, ovunque fuori luogo. Eppure è così intelligente e rapido nel risolvere i problemi, il suo professore di matematica delle superiori diceva che era il primo a trovare la soluzione di quelli più complicati. È molto sensibile, in grado di avvertire ogni impercettibile battito di ciglia. Questa sensibilità è un’arma a doppio taglio, da un lato capta le profondità dell’animo umano, come pochi sanno fare, dall’altro ne vede anche tutta la bruttezza e l’egoismo e soffre per questo. È bellissimo il mio ragazzo, adoro il suo sorriso, ma è così raro… Qualche volta sorride quando non si accorge che lo sto guardando e io fantastico su cosa stia pensando in quel momento.
Suo fratello Livio invece è esuberante, solare e sicuro di sé, mi domando come possa aver cresciuto due ragazzi così diversi, anche fisicamente. Capelli biondi lui, cortissimi, occhi celesti, fa palestra e ha un fisico scolpito. Livio è paziente con Michele, non fa domande inopportune, prende al volo ogni sua richiesta di contatto e sfrutta al meglio quei pochi attimi di serenità. Costruisce ponti tra me e lui, soprattutto da quando il loro papà ci ha lasciati. Lo conquista con piccoli gesti di attenzione, come i pancake ai mirtilli, a cui Michele non sa resistere. Glieli prepara ogni weekend e la colazione diventa un’imperdibile occasione di relazione familiare. Per Michele Livio è un’ancora di salvezza, un faro acceso nella notte, sa che può contare su di lui in ogni momento.
Il Carabiniere mi aveva congedata rassicurandomi che Michele sarebbe stato presto rilasciato, ma saperlo in caserma da solo sotto pressione mi spaccava il cuore. Mio figlio!
Un ragazzo quella sera era finito in ospedale ferito con un coltello, fuori da un locale a due passi da casa nostra e Michele era l’unica persona che avevano trovato accanto a lui, quando era arrivata l’ambulanza. Mio figlio ovviamente non aveva il coltello, ma era sporco di sangue. Sono sicura che non sarebbe capace di far del male a una mosca, ma, come mi ha detto il Carabiniere, è pur sempre un ragazzo autistico di cui non ci si può fidare. Invece io di lui mi fido ciecamente. Quando avrà visto il ragazzo ferito, chissà che paura avrà avuto, non avrà potuto aiutarlo, ma spinto dalla sua gentilezza d’animo gli sarà rimasto accanto. Sono più che sicura che è andata così.
Tornai a casa stanchissima, per via dello spavento e della tensione, la sveglia segnava le due. Mandai un messaggio alla mamma di Riccardo, un suo compagno delle superiori, un ragazzo tranquillo e riflessivo, l’unico con cui Michele si trova ed esce qualche volta. Sicuramente aveva passato la serata con lui. La madre mi disse che Riccardo dormiva, era rientrato verso mezzanotte. Lo svegliò su mia insistenza e mi fece chiamare: «Ci siamo salutati fuori dal locale, io ero in moto, l’ho visto incamminarsi verso casa, cosa gli è successo?» mi chiese preoccupato. Gli raccontai quello che sapevo. Poco dopo Riccardo e sua madre erano a casa nostra. Livio era in gita scolastica, nemmeno a farlo apposta. Non potevo chiamarlo. Per fortuna non ero sola, altrimenti sarei morta di angoscia. Riccardo ci raccontò quello che si ricordava della serata, c’era un gruppo che suonava nel locale, gente tranquilla, quando sono arrivati ragazzi un po’ su di giri, loro sono usciti. Michele poteva essersi fermato notando il ragazzo ferito e aver magari visto qualcosa. “Riuscirà a ricostruire quegli istanti e a spiegare ai Carabinieri quello che ha visto?”. Questa domanda mi assillava, così chiamai la caserma e spiegai che mio figlio, per la sua sindrome, avrebbe potuto agitarsi troppo, che sarebbe stato meglio che lo raggiungessi per tranquillizzarlo. Mi permisero di andare da lui. Che sguardo impaurito aveva… Lo abbracciai, tremava. «Non preoccuparti amore, risolveranno tutto e presto sarai fuori da qui». Il Comandante entrò all’improvviso con un plico di fogli da farci firmare, diede una pacca sulla spalla a Michele e ci disse: «Potete tornare a casa, le telecamere del locale non hanno registrato il momento dell’aggressione, ma hanno inquadrato il punto in cui il ragazzo si è accasciato. Michele è passato di lì, ha visto il ragazzo a terra e si è seduto accanto a lui, escludiamo che possa essere coinvolto nel reato». Calde lacrime mi rigavano il viso. “Come avevo immaginato” pensai.
«Vi chiamo domani mattina, magari Michele può aiutarci a rintracciare il colpevole» disse il Carabiniere prima di accompagnarci alla macchina. Appena salito in auto, Michele si addormentò, io guidai ringraziando il Signore di averlo con me. Gli accarezzai i capelli per svegliarlo sotto casa. «Guarirà mamma?» mi chiese a occhi chiusi.
«Il ragazzo, tesoro? Certo, i dottori lo stanno curando, presto starà meglio, anche grazie a te». Ci abbracciammo stretti, appoggiai la testa sul suo petto e trovai stupendo il ritmo irregolare del suo cuore. Poi lui mi guardò negli occhi, come non fa quasi mai, sorrise e disse sottovoce, quasi tra sé e sé: «GD……..NC, la targa della macchina di quelli che gli hanno fatto del male e sono scappati via».
Ancora una volta mio figlio aveva fatto la differenza, col suo spontaneo gesto di compassione e la prontezza nel memorizzare la targa dell’auto: avrebbero trovato i colpevoli.
«Sono fiera di te!» esclamai. «Sei il mio ragazzo speciale».●
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Articolo pubblicato sul numero 27 di Confidenze 2023
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