Il nostro primo Natale

Cuore
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Siamo qui, tutti insieme, tanti, diversi l’uno dall’altro, ma come parti di un tutto che finalmente si sono ricomposte e non si perderanno più. È la mia meravigliosa famiglia allargata. Leggi la storia del 16 dicembre del nostro Calendario dell'Avvento

Storia vera di Kevin S. raccolta da Antonella Tomaselli

 

Era maggio. Io e Diana, mia sorella, eravamo seduti vicini. Lei aveva appoggiato la testa sulla mia spalla. Ero immobile, perché forse si era addormentata. Lentamente tornai a guardare l’ampia vetrata un po’ più a sinistra. Fuori tirava vento. Era forte, e scuoteva le chiome degli alberi del parco. Quelle chiome messe a nuovo dalla primavera si piegavano in ripetuti inchini. Non si può morire in primavera, pensavo. Intanto il giorno veniva inghiottito dalle ombre della sera. Si accesero le luci, nella piccola sala d’attesa. Erano azzurre, fredde. In qualche modo mi diedero disagio. Avrei preferito rimanere in quel limbo di luce crepuscolare. Mi accorsi che Diana stava piangendo.
La strinsi un po’ a me. Vidi la nostra immagine riflessa in uno degli specchi che rivestivano la colonna più vicina: eravamo così smarriti. Per un attimo pensai che sembravamo due gattini abbandonati. Entrò un giovane medico e venne verso di noi. Purtroppo confermò ciò che aveva detto il medico precedente: le probabilità che nostro padre potesse superare quest’ultima crisi, erano infinitesimali. Però adesso avremmo potuto vederlo.

Brevemente. Diana si appese al mio braccio e ci incamminammo veloci verso la camera dove lui era ricoverato. Mi si strinse il cuore appena incontrai i suoi occhi. Erano di un azzurro più chiaro del solito, più celesti. Galleggiavano nelle ombre viola delle profonde occhiaie. Ci sorrise, debolmente. Diana, facendo attenzione alla cannula della flebo gli prese una mano. Gli sussurrò: «Papà…».
In un sospiro lui rispose: «Siete qui». Chiuse per un poco gli occhi. Poi riprese: «I miei tre figli, qui intorno a me». Guardai Diana, allarmato. Lei si protese verso di me e mormorò al mio orecchio: «Sta delirando…».
Mi rivolsi a lui dolcemente: «Papà, hai due figli, non tre. Io e Diana, e siamo qui, accanto a te».
Lui cominciò ad agitarsi: «No, io ho tre figli», ripeteva, insisteva, si impuntava. Gli occhi lucidi di lacrime.
Diana, turbata, mi fece un cenno, come per dirmi di lasciar perdere e nello stesso tempo schiacciò il pulsante per chiamare un infermiere. Ne arrivarono prontamente due, e mentre uno si prendeva cura di papà, l’altro ci invitava cortesemente a uscire dalla camera. Udimmo ancora mio padre che si lamentava: «Tre figli… La mia bambina…».

Io e Diana ci ritrovammo di nuovo nella sala d’aspetto dalla luce fredda. Quando potemmo rientrare nella camera, nostro padre dormiva profondamente. Il medico ci esortò ad andare a riposarci. Gli avevano dato un calmante. Se la situazione fosse peggiorata ci avrebbe chiamati immediatamente. Ma io e Diana decidemmo di restare. Passammo la notte a guardarlo. E a parlare di lui. E di noi, di quando eravamo bambini. Lo lasciammo il mattino seguente, dopo l’arrivo di nostra madre.
Ci dirigemmo, come sonnambuli, verso la fila dei taxi, per tornare in albergo. Diana comunicò al tassista l’indirizzo, poi rivolta a me, disse con apprensione: «Ci riposiamo due ore, tre al massimo, e poi torniamo in clinica». Si sentiva in colpa per il bisogno di dormire. Mi specchiavo nel suo viso infelice.

Mio padre non morì. Incredibilmente si riprese. Lentamente e con difficoltà. Ma ci riuscì. Quando stette meglio gli parlammo di quella sera in cui, nel delirio, aveva sostenuto di avere tre figli. Glielo raccontammo ridendo, aspettando che si unisse alla nostra allegria, certamente esagerata, ma necessaria per esorcizzare quei ricordi così dolorosi e ancora troppo vicini.
Fu così che ce lo confessò. Titubante prima, forse timoroso di una nostra reazione negativa o di un giudizio, andò man mano – visto che ascoltavamo senza batter ciglio – ad arricchire di particolari, a riferire del suo dolore, del suo rimpianto. Avrebbe voluto ritornare indietro nel tempo. Per rimediare.
In Sudafrica, dove viveva, aveva conosciuto nostra madre. Erano due studenti, e si erano innamorati. I primi timidi baci divennero mille. Presto la smania di scoperta fu irrefrenabile, e il desiderio imperioso. Quando nostra madre rimase incinta fu solo panico. Erano due adolescenti, poco più che bambini: come avrebbero potuto prendersi cura di un figlio o di una figlia? Vissero momenti d’inferno in un’altalena di se e ma. Non volevano mettere fine alla piccola vita che stava crescendo nel ventre della mamma e rifiutarono l’aborto. Fluttuanti, recalcitranti, inermi, scelsero di dare in adozione quel frutto del loro amore, o della loro spensieratezza.
Quando Kimberley venne al mondo, entrambi rinunciarono a lei e l’affidarono a una coppia che non poteva avere figli. Da allora non ne seppero più niente, non la videro mai più. A loro rimase sempre quel grande vuoto. Un tormento, compagno di ogni giorno di vita. Anni dopo, conclusi gli studi e avviati nel lavoro, mio padre e mia madre, ancora innamorati, si sposarono. Prima nacqui io, poi Diana. La nostra fu un’infanzia felice. Poi il rapporto di mamma e papà cominciò a sgretolarsi, piano piano. Perché? Non lo so. A volte le cose succedono, giusto perché così devono andare. Si separarono che io e Diana eravamo già grandi. Non ci furono drammi. Tutto avvenne consensualmente. E loro rimasero comunque uniti da un forte affetto, e dalla stima che provavano l’uno per l’altra. Mia madre accettò un’offerta di lavoro negli Stati Uniti e si trasferì in California. Mio padre ritornò nel suo Paese d’origine, e si stabilì a Londra. In seguito Diana si sposò con un irlandese e si trasferirono in Francia, dove risiedeva la madre di lui. Io rimasi in Sudafrica, dato che avevo un buon lavoro a Città Del Capo. Conobbi Elena, una ragazza italiana, capitata per caso da quelle parti, durante un viaggio turistico. E fu subito amore. In un tempo piuttosto breve la seguii in Italia, dove viviamo tuttora.

Io, mia madre, mio padre e Diana, eravamo tutti lontani, ma uniti dall’invisibile e tenace filo dell’affetto, e da quei legami di sangue che sono sempre così potenti. I miei genitori avevano comunque ben custodito il loro segreto. Le forti barriere erette calarono solo quando mio padre si sentì in punto di morte, quando intuì che non avrebbe avuto altro tempo. Ma ora ci ripeteva che Kimberley gli mancava troppo. Avrebbe voluto abbracciarla. Almeno una volta. E dirle, nonostante i fatti che sembravano testimoniare il contrario, che lui l’amava. L’aveva sempre amata. Ci fornì pochi dati, ma precisi. Io e Diana cominciammo subito le ricerche. Non avremmo potuto continuare le nostre vite facendo finta di niente: dovevamo mettere ogni tassello al proprio posto. O almeno volevamo provarci. Nostra madre ci seguiva stranita, combattuta tra rimorsi e speranze. Ambasciate, Internet, e anche i social network, ci aiutarono. Ogni sera al nostro appuntamento fisso, tramite Skype, ci scambiavamo le informazioni recuperate.

Trovammo Kimberley. Sì, poteva essere proprio lei, nostra sorella, troppi dati coincidevano. La contattammo in Facebook. Prudenti, in un primo momento, andammo poi a briglie sciolte. Era davvero lei. Era settembre. Ci organizzammo e io e Diana la raggiungemmo. Il dettaglio ancora più inverosimile era che Kimberley abitava a Londra. A circa cento metri dall’abitazione di nostro padre. La vita a volte è davvero strana. Quando la incontrammo la prima volta, fu certezza: i documenti parlavano chiaro, ma in più lei aveva una rassomiglianza straordinaria con nostra madre, ne aveva anche il portamento, e lo sguardo. L’ansia e l’imbarazzo iniziali furono presto fugati da gesti e parole dettati dal cuore. Kimberley era a Londra da quasi tutta la vita, perché lì si erano trasferiti il papà e la mamma adottivi. E a Londra si era sposata e aveva avuto due bambini. Quando si incontrarono lei e i nostri genitori, fu incredibilmente bello. Ci vollero giorni e giorni perché gli animi si calmassero e la vita potesse riprendere un ritmo più naturale. Ci tenemmo sempre in contatto, ma eravamo comunque tutti un po’ sparsi per il mondo.

Adesso finalmente saremo insieme per qualche giorno. È dicembre e io e Elena abbiamo preparato tutto: la casa è addobbata, il camino è acceso, l’albero di Natale troneggia in soggiorno, dalla cucina arrivano allettanti profumi golosi, nell’aria danzano le note delle musiche natalizie, in vari angoli risaltano presepi e ghirlande. Diana, suo marito, nostra madre e il suo attuale compagno, i genitori di Elena, i suoi fratelli e sua sorella, con i rispettivi consorti e figli, sono già qui. Siamo in tanti. Tutte le luci sono accese, il chiacchiericcio, le risate e i bambini che giocano, stemperano l’attesa. Finalmente suona il campanello. Alla porta, davanti a noi, sorridenti, ci sono Kimberley e mio padre. Subito dietro di loro i bambini, il marito e i genitori adottivi di nostra sorella. Ci abbracciamo tutti. Un’operazione che richiede diverso tempo, visto il numero dei presenti. Mio padre mi dà una leggera pacca sulla spalla, poi mi attira vicino e sussurra: «Grazie!». Io gli sorrido e gli faccio l’occhiolino. Tolti cappotti, sciarpe e berretti, e sistemati i bagagli, ci ritroviamo tutti in soggiorno. Vorrei fermare questo momento prezioso: siamo abbaglianti, come se il Natale avesse acceso il cuore di tutti. L’amore e la gioia sono sui visi, nei gesti affettuosi, nei sorrisi. Siamo qui finalmente insieme, tanti, diversi l’uno dall’altro, ma come parti di un tutto che finalmente si sono ricomposte e che non si perderanno più. Osservo questa allegra moltitudine che è la mia famiglia. Una famiglia particolare. Forse un po’ vagabonda, un po’ fuori dagli schemi. Che commette errori, ma su quelli impara, e prova a riparare. Che condivide gioie e dolori, e che accetta e accoglie. Imperfetta, ma generosa, e con tanta voglia di recuperare il tempo perduto. La mia famiglia. Ecco è arrivato il momento. Al segnale pattuito con Elena, io batto le mani per richiamare l’attenzione, tutti si zittiscono e ci guardano. E mia moglie, con quei suoi occhi da Bambi che sorridono umidi, alzando il bicchiere dice: «Brindiamo al nostro primo Natale. Buon Natale a questa grande e bella famiglia!».

Adesso è Natale.

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Pubblicato su Confidenze 52/2014

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