“Il ragazzo delle carezze” di Antonella Tomaselli, pubblicata sul n. 17 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate questa settimana. Ve la riproponiamo online
Storia vera di Isa di Molfetta raccolta da Antonella Tomaselli
Come sono gli angeli? Che forma hanno? Quali note sussurrano? Qual è il colore della loro luce? Be’, non sono le domande che mi posi quel giorno. Assolutamente no. Il medico specialista aveva finito di visitarmi, guardava e riguardava i risultati degli esami clinici. Io seduta davanti a lui, aspettavo. Mi sforzavo di controllare l’ansia, di tenerla a bada. Ma era una lotta impari. La volontà di pensieri più leggeri si spegneva nell’azzurro freddo delle pareti di quella stanza e nella sottile scia di disinfettante che galleggiava nell’aria.
Un nodulo al seno. Quattro parole, risultate da un check-up di routine, che avevano scatenato tutta una serie di approfondimenti e di paure. Ma io, guerriera, avevo voluto affrontare tutto da sola, per non affliggere i miei figli. Ora però, in attesa del responso del senologo, mi sembrava che la terra tremasse sotto ai miei piedi. E pensare che io nemmeno volevo farli quei controlli, mi aveva convinto un’amica. «Ti prego. Se non li facciamo insieme non li faccio neanche io» mi aveva “ricattato”. Per lei tutti gli esami erano risultati negativi. Per me invece no. «Bisogna ricorrere ad asportazione chirurgica» mi disse infine lo specialista. Non era esattamente quello che mi aspettavo, che speravo. «È tutto scritto qui» aggiunse mentre mi porgeva il plico di fogli che descriveva il mio problema e indicava i successivi passi.
Arrivò il giorno dell’intervento. C’erano altre tre signore che si sarebbero dovute sottoporre allo stesso tipo di operazione chirurgica: aspettavamo insieme. Toccò a me per prima. Mi fecero entrare in sala operatoria e mi chiesero di stendermi su quel tavolo freddo, del colore delle lame dei coltelli. Ubbidii come un automa. Come se non fossi io, ma un’altra me. Chiusi gli occhi. Allora le paure, divenute più aggressive, dominarono i miei pensieri. Paura dell’anestesia, del dolore, di non avere altro tempo. Paura per i miei figli. Sentivo che avrei cominciato a tremare. Sì, ancora un attimo e non ce l’avrei fatta più a trattenermi. Sarei sfuggita al mio controllo. E poi… una carezza lieve sulla mia fronte arrivò a darmi tregua, sollievo, respiro. Sì, due dita mi sfioravano poco sopra agli occhi, fino alla tempia. Sollevai leggermente le palpebre e tra le ciglia vidi un ragazzo. Era tutto bardato: cappellino verde, camice, mascherina. Intuii che era bello. E giovane. Un bel ragazzo moro, alto, con gli occhi di velluto scuro. Mi accarezzava e io mi sentivo più sicura, tranquilla, serena. Si chinò verso di me, fino al mio orecchio, e sussurrò: «Sono qui per te». Mi arrivarono dolci la sua voce e quelle sue parole, come balsamo, come rugiada. L’ultimo atto prima del buio dell’anestesia.
Andò tutto bene. Ed ebbi una ripresa velocissima. Nella convalescenza mi sentii così allegra! Ero invasa da un’energia positiva che sembrava inesauribile. Ero io a consolare continuamente le mie compagne di stanza, a far loro coraggio. Per questo nell’unico momento in cui mi videro pensierosa mi chiesero allarmate: «C’è qualcosa che non va?». «No, va tutto bene. Stavo pensando a quel ragazzo che mi accarezzava prima dell’intervento» risposi. «Ha accarezzato anche voi?» chiesi. Nessuna di loro lo aveva visto. Nessuna di loro era stata accarezzata in sala operatoria. Ero sbalordita. Possibile che l’avessi sognato? Forse era stato l’effetto dell’anestesia? O della paura? A volte la mente può giocare degli scherzi. Però mi era sembrato tutto così reale!
Comunque ormai mi sentivo bene e sarei potuta ritornare a casa.
Il giorno dopo stavo aspettando il medico per l’ultimo controllo prima delle dimissioni dall’ospedale ed ero in una delle salette riservate, quando un ragazzo si affacciò alla porta. Lo riconobbi immediatamente: era lui che mi aveva accarezzata in sala operatoria. Allora non avevo sognato! Era tutto vero. Mi avvicinai. Anche lui mi riconobbe subito.
Lo ringraziai per quel suo bel gesto e gli dissi quanto bene mi aveva fatto, quanto mi aveva rasserenata. Sorridevo. Anche lui. A un tratto mi chiese: «Ti posso abbracciare?». «Ben volentieri» risposi di slancio. Mi strinse a sé e io ricambiai quell’affettuoso contatto con altrettanto calore. Mi chiamarono dall’ambulatorio e ci salutammo veloci. Quando uscii lui non c’era più. Ritornai nella mia stanza d’ospedale, presi il mio piccolo bagaglio e mi diressi verso il bar della struttura: avevo voglia di un caffè. Lì incontrai l’anestesista e per scherzare un po’, gli chiesi: «Su, dimmi! Cos’ho combinato mentre ero sotto l’effetto della tua anestesia?». Lui scoppiò a ridere e si rifugiò dietro al segreto professionale. Ridevo anch’io. Fu appena prima che ci congedassimo che gli chiesi di salutarmi tutta l’equipe della sala operatoria. «In particolar modo il tuo collega anestesista» sottolineai. «Sono solo io l’anestesista, non ce n’è un altro. C’ero solo io in sala operatoria» precisò lui. Oddio, di nuovo mi si presentava lo stesso punto interrogativo: ma il ragazzo delle carezze esisteva oppure no?
Uscii dall’ospedale con questo dubbio. Lo confidai, più tardi, solo alla mia amica del cuore. Anche lei era perplessa. Passarono diversi giorni, ma non ero tranquilla. Dovevo andare fino in fondo e sapere la verità. Tornai in quell’ospedale per cercare il ragazzo. E lo trovai. Esisteva! Era un tirocinante fresco di laurea. Gli raccontai che avevo avuto il dubbio di essermi immaginata tutto. Lui mi disse che effettivamente qualcosa di inconsueto era comunque accaduto. «Quando ti ho accarezzato la fronte in sala operatoria e anche quando ti ho mormorato all’orecchio che ero lì per te, non so perché l’ho fatto. Dentro di me ho sentito una forte spinta a comportarmi così. Era come se al posto tuo ci fosse mia mamma». Dopo un attimo di silenzio, continuò: «Ecco, in quel momento mi sentivo tuo figlio. Tra me e te c’era questo forte legame».
Lo guardavo sorridendo. D’istinto allungai una mano a scompigliargli i capelli.
«E ti devo confessare un’altra cosa» continuò lui, abbassando gli occhi per una sorta di pudore: «Non abbraccio mai nessuno. Con te invece è stato diverso. E appena ti ho rivista ho dovuto seguire questo impulso». Lo salutai. Probabilmente non lo rivedrò più. Ma non gli dissi che sapevo quanto era successo. Lo volli tenere solo per me, ancora per un po’. Gianmauro, il mio bambino, il mio terzogenito, quel mio figlio adorato che volò in cielo tanti anni fa, avrebbe avuto oggi l’età del ragazzo delle carezze. Folgorata da quel preciso pensiero allora esplosero in me le domande: “Come sono gli angeli? Che forma hanno? Quali note sussurrano? Qual è il colore della loro luce?”. E io le avevo proprio tutte le risposte.
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