Il regalo inatteso

Cuore
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“Il regalo inatteso” di Vittoria D’Alena, pubblicata sul n. 52 di Confidenze, è la storia più votata della settimana. Ve la riproponiamo online

 

Storia vera di Elisabetta R. raccolta da Vittoria D’Alena

 

Eccola lì la mia conquista, la più bella e importante. È davanti allo specchio della sua camera circondata dalle sue migliori amiche. Ha già indossato il vestito che abbiamo comprato insieme nel suo negozio preferito, in centro. L’ha visto in vetrina e ha voluto solo quello per la sua festa. Oggi la mia bambina compie diciott’anni, e adesso si pavoneggia allo specchio beandosi dei complimenti e degli sguardi estasiati delle sue amiche. Le avevo detto di non truccarsi troppo e di non usare smalti di colori troppo accesi, ma i miei consigli non sono stati nemmeno ascoltati. Però quello che vedo mi blocca all’istante sulla soglia della porta. Vivinne è una donna ormai, e questa nuova consapevolezza mi commuove.

«Come sto mamma?», mi chiede mostrandosi in tutto il suo splendore. Il vestito, di un delicato color crema, mette in risalto le lunghe gambe.

«Sei splendida tesoro», le dico abbracciandola. È tanto più alta di me, e i capelli lasciati sciolti sulle spalle profumano di shampoo alla mela verde, il suo preferito da sempre. Quand’era piccola, insaponare quella massa riccia e crespa era una vera e propria impresa, passavo ore a cercare di pettinare quei ricci indomabili.

«Mamma, apri già i rubinetti?» mi prende in giro accorgendosi dei miei occhi lucidi.

«Su, vai o farai tardi, i tuoi amici ti aspettano. Ci vediamo dopo».

E tra risatine, rumori di tacchi per le scale e i vari «Davvero sto bene? Giurate!», lei e le sue amiche volano via come farfalle colorate. Abbiamo affittato una sala per la sua festa e per un’oretta a festeggiare con lei ci saranno i suoi amici. Poi arriveremo noi con il buffet e la torta. Nella stanza regna il caos più assoluto. Vestiti, scarpe, cosmetici, collane sparse ovunque, sono la sua passione. E sul cuscino del letto lascio il mio regalo per lei. Ho attaccato al pacco un biglietto.”Da parte di mamma e papà. Ti vogliamo bene piccola Vivinne.” Proprio in quel momento entra Fabio, mio marito. «Pensavo volessi darle il regalo alla festa» mi dice.

«Preferisco di no. Sarà un momento particolare, tutto nostro, e non voglio condividerlo con nessuno».

 

Ho aspettato anni prima di decidermi, ma adesso è proprio arrivato il momento. Confesso a Fabio di avere un po’ di timore, non riesco a immaginare la reazione di Vivinne.

«Andrà tutto bene, Roberta. Ne sono certo», mi rassicura.

«Ora però muoviamoci. Voglio scatenarmi nelle danze con mia figlia», mi dice ridendo. È il solito giocherellone.

«Ma ci sono tutti i giovani adesso».

«Perché io sono vecchio, scusa?» scherza, e in poco tempo siamo pronti per andare. La sala è gremita di ragazzi che ballano, ridono e si divertono. I miei nipoti più grandi hanno trasformato la sala in una discoteca, e coinvolgono anche noi “matusa”. Mio marito si scatena davvero, lui e Vivinne sono dei ballerini provetti. È una festa bellissima e la mia bambina è la stella più luminosa di questa serata d’agosto. Riccardo, mio nipote, annuncia che ci sarà una sorpresa per noi. «Accomodatevi cari zii, e guardate da questa parte», dice con aria solenne. Su un grande telo bianco appare la mia Vivinne quando aveva due anni, e su quel telo oltre alle foto e ai video, scorrono anche i miei ricordi.

La scelta di adottare un bambino è stata ponderata negli anni con assoluta consapevolezza e serenità. Abbiamo maturato questa nostra volontà con tutto il cuore. Io e Fabio sapevamo che i tempi sarebbero stati lunghi e che la burocrazia doveva seguire il suo corso, dovevamo armarci solo di tanta pazienza. Ma un bel giorno, assolutamente inaspettata, ci arrivò la foto di colei che presto sarebbe diventata nostra figlia. Dal momento in cui ho guardato quegli occhi grandi e seri ho avuto un solo desiderio: andare da lei e stringerla a me. Era già nei nostri pensieri, nel nostro cuore e nella nostra vita.  Vivinne aveva quindici mesi e viveva in uno dei Paesi più poveri e martoriati dell’Africa.

«Ci sono delle cose che dovete sapere circa la situazione attuale del Paese in cui avete scelto di andare», ci disse il responsabile dell’ente a cui avevamo dato il mandato. Ci spiegò che il Paese stava lentamente uscendo da un sanguinoso conflitto e che c’erano altissime probabilità di trovare una realtà di violenza e guerre interne. Tutto ciò non ci fece desistere. Guardavo gli occhioni di mia figlia e non ci pensavo nemmeno a cambiare nazione. Ormai faceva parte di me, e volevo portarla via dalla guerra, dalla miseria e dalla violenza. L’unico vero incubo per quanto mi riguardava era l’aereo, volare mi terrorizzava da morire. Stringevo al petto la foto di Vivinne, ero certa che lei mi avrebbe dato la forza di superare la mia paura. Ma per tutta la durata del volo ero in uno stato di tensione assurdo. Non lasciai nemmeno per un istante la mano di Fabio, e quando i miei piedi toccarono terra esplosi in un grido liberatorio.

«Ce l’ho fatta! Vivinne, stiamo arrivando!».

Mancava veramente poco. Almeno così pensavamo.

Invece raggiungemmo il posto dove viveva nostra figlia dopo una settimana dal nostro arrivo. Affrontammo una serie di difficoltà burocratiche e organizzative veramente estenuanti. Ci cambiarono alloggio ben quattro volte per motivi di sicurezza, poi si presentarono dei problemi con il nostro visto, timbri mancanti e pessima traduzione dei documenti. Ci capitò veramente di tutto, furono i giorni più brutti della mia vita.

«Godiamoci questi tramonti, Roberta. Tanto non possiamo fare nulla se non aspettare che tutto si risolva» mi disse Fabio.

«Ti ricordo che non siamo qui in vacanza. Rimani tu qui impalato a guardare il tramonto, io telefono di nuovo all’associazione. Non ce la faccio più ad aspettare», gli risposi nervosa. E finalmente il gran giorno arrivò.

 

Partimmo all’alba, e ci vollero quattro ore per arrivare al villaggio. Le strade polverose erano per lo più impraticabili, ed eravamo tutti tesi perché ci avevano parlato di agguati avvenuti di recente. Quello che si presentò ai nostri occhi, altro non era che un agglomerato di capanne fatte di paglia e mattoni rossi. C’erano pozzanghere di fango ovunque, e un filo spinato delimitava una struttura fatiscente. Era la casa di accoglienza gestita dalle suore. Scendemmo dalla jeep e tanti bambini ci vennero incontro. Tirammo fuori biscotti e palloncini, e una suora ci portò nella struttura dove c’erano i bambini più piccoli.

L’interno era ancora più terribile di quanto avevamo visto fuori. Neonati di pochi mesi sistemati dentro cassette che fungevano da culle, altri che strisciavano sul pavimento mangiando qualcosa che sembrava riso. Non avevo mai visto tanto degrado e sporcizia, e gli occhi di quei bambini mi straziavano il cuore. Il cattivo odore e le mosche rendevano quel posto un vero letamaio. Ci dissero che molti di quei bambini erano in attesa di essere adottati, e la cosa mi rincuorò. Come Vivinne, anche loro aspettavano una mamma e un papà, aspettavano di essere amati e protetti da due genitori che non li avrebbero più fatti sentire soli.

«Dov’è Vivinne? Non la vedo» dissi alla suora, con l’aiuto della guida che faceva da interprete. Lei fece cenno di aspettare e sparì dietro a una tenda. Tornò dopo pochi minuti che a noi sembrarono secoli, con la mia bambina. Aveva gli occhi assonnati, e subito la presi in braccio. Indossava una magliettina verde, la stessa della foto che ci avevano mandato. La strinsi a me, e lei sgranò gli occhi, mi guardò e scoppiò a piangere, tendendo le mani verso la suora. Anche Fabio la prese in braccio, ma la reazione fu la stessa. Urlava e si dimenava, calmandosi solo quando Fabio la restituì alla suora.

 

A quel punto ci fu la mia, di reazione. Ero stremata dall’ansia e dall’attesa, corsi fuori e piansi disperatamente. Il rifiuto della bambina mi straziava, non avevo immaginato certo così il nostro incontro.

«Si calmi signora», mi disse la guida. «La bambina non ha mai visto dei bianchi, e suor Amila è l’unica persona che si occupa di lei. La reazione di Vivinne è la stessa di tutti i bambini piccoli che incontrano per la prima volta i genitori che vengono a prenderli». Poi mi consigliò di usare uno stratagemma che l’avrebbe sicuramente attirata. Entrai di nuovo, e la bambina ci guardava con diffidenza stringendosi alla suora. Tirai fuori un biscotto e lo porsi sorridendo. Lei cominciò subito a sgranocchiarlo e quando lo terminò tese le braccia verso di me, ne voleva altri. Fu in quel momento che la conquistai. Dopo un paio di biscotti divorati in un attimo mi sorrise, e decise che di me poteva fidarsi. M’identificava con il cibo che non era il solito riso e tapioca, ma qualcosa di molto più buono. Regalò un sorriso anche a Fabio, che mi aveva rubato il segreto per accattivarsi la benevolenza di nostra figlia.

«Potete andare, ora. Amatela, coccolatela, cullatela», ci disse la suora dopo averci raccontato la storia della breve vita di Vivinne. Lasciammo lì tutto quello che ci era stato permesso di portare. Acqua, cibo in scatola, biscotti e palloncini. Poche cose ma donate con tutto il cuore. Ce ne andammo con gli occhi pieni di quelle immagini terribili, ma la gioia di avere la nostra piccola cancellò la tristezza. Feci alla bambina un lungo bagnetto,e notai che la permanenza in quel posto aveva lasciato dei segni sulla sua pelle. I piedini e le ginocchia erano graffiati, così come le manine. I capelli cortissimi e ricci erano finalmente puliti e profumati, e dopo il bagno si addormentò esausta. Il mattino dopo, appena sveglia, ci regalò un altro sorriso illuminato da due piccoli dentini. Si, l’avevamo definitivamente conquistata. E gli anni sono scivolati via velocemente come quelle foto che ritraggono Vivinne all’asilo, sull’altalena o che fa il girotondo con gli amichetti. E in un’altra foto c’è ancora lei che mangia un gelato enorme. Poi c’è l’ultima, la più recente, quella del suo diploma. È un vero raggio di sole, amata da tutti e piena di corteggiatori.

«Uhm. Quel ragazzo la stringeva un po’ troppo per i miei gusti» borbotta mio marito mentre torniamo a casa. Vivinne arriva poco dopo, accompagnata dai suoi amici.

«È stata una festa stupenda e so già che il vostro regalo sarà ancora più spledido» trilla saltando al collo di suo padre, che le ha promesso un’auto nuova appena avrà terminato gli esami per la patente.

 

Le do la buonanotte ed esco dalla sua stanza. Aspetto trepidante che apra il pacco e che ci raggiunga in camera da letto. «Mi sento come in quei giorni in Africa, quando aspettavamo di vederla. Sono un po’ ansiosa, non lo nascondo» dico a Fabio, ma mi accorgo che  il mio scatenato ballerino si è addormentato con gli occhiali e il libro aperto. Sta passando troppo tempo, possibile che Vivinne non abbia ancora aperto il pacco? Mi anticipa di pochissimo, stavo per alzarmi dal letto e raggiungerla. «Mamma… cos’è questo?».

Chiudo la porta della camera da letto e insieme torniamo nella sua stanza. Non so perché, ma sono quasi contenta di essere da sola con lei a condividere questo momento speciale. Vivinne ha tra le mani un telo tutto colorato con dei bellissimi motivi africani. «È tuo, Vivinne».

Le racconto la storia di una donna che ha partorito la sua bambina da sola, tra il fango e la polvere. È il frutto di uno stupro, ma lei l’ha conservata dentro di sé come il più prezioso dei gioielli. Sa che le rimangono pochi giorni di vita, tossisce sangue e diventa sempre più magra. Non può nutrire la sua creatura appena nata, e non vuole che muoia insieme a lei.

 

Avvolge la piccola in un telo, l’unico che possiede per proteggerla, e la sistema sulle spalle curve nel modo in cui le donne africane trasportano i loro piccoli. Cammina per ore intere aiutandosi con un bastone e ogni tanto si ferma per bagnare le labbra della bimba con la poca acqua che è riuscita a portare con sé. Non può nutrirla con il suo latte perché la malattia e la fame hanno divorato anche il suo seno. Arriva all’orfanotrofio che è ormai notte, e lascia la sua creatura a suor Amila, pregandole di salvarle la vita. La suora offre un po’ di riso anche a lei, ma non ne ha bisogno, non più. Quello che vuole è affidarle la piccola, che si chiama come lei. Vivinne. Adesso può andare a morire in pace. E sino a quando non siamo arrivati io e Fabio quel telo è stato il suo unico riparo, la sua culla. La suora ci ha detto che è sempre stata avvolta in quel telo, e che dovevo portarlo via con me insieme a Vivinne.

«È arrivato il momento che tu sappia, tesoro. La tua mamma africana ti ha salvato la vita, e io non smetterò mai di ringraziarla per il grande dono che ci ha fatto».

Lei accarezza quel pezzo di stoffa, lo osserva, lo annusa. Rappresenta le sue radici e la sua storia, il legame con la donna che l’ha messa al mondo con grandi sacrifici. I suoi stupendi occhi neri piangono adesso, e gira il viso nascondendosi al mio sguardo. Chissà perché mi sento rifiutata come la prima volta che l’ho tenuta in braccio, ma è giusto che la lasci sola ad ascoltare le sue emozioni. «Vado a dormire, tesoro»  le dico trattenendo il pianto. «Aspetta mamma. Grazie. Grazie di cuore».

La stringo forte, e lei mi sorride tra le lacrime.

«Ti adoro mamma», mi sussurra.

Esiste qualcosa che non conosce il passaggio del tempo e che non finirà mai. L’amore di una mamma per la sua creatura, e io mi sento mamma in ogni cosa che ho trasmesso e che ho ricevuto da Vivinne. È venuta da me la prima volta attirata dai biscotti, ma giorno per giorno ho conquistato il suo cuore con un solo linguaggio, quello dell’amore. Rimane stretta a me a lungo, come quando era bambina. Il calore di quell’abbraccio durerà tutta la vita.

Confidenze