Storia di Clara B. raccolta da Paola Tasca
Esco dall’ospedale nell’aria gelida e secca di questo martedì mattina di inverno e mi stringo forte nel cappotto. In realtà il mio è un gesto meccanico, perché il freddo non lo sto affatto sentendo. Eppure sono sicura che siamo vicino allo zero, la radio stamattina parlava di probabili nevicate in pianura. Dovrei rabbrividire almeno un po’, no? Invece niente: non ho freddo, ma nemmeno caldo. Non ho sete né fame, non ho voglia di parlare, non ho voglia di fermarmi a comprare il pesce per pranzo, come avevo programmato prima di uscire di casa. Non ho voglia di salire in macchina e infilare la chiave nel cruscotto, non ho voglia di telefonare a mia madre per chiederle come sta, non ho voglia di compiere i gesti banali, i gesti normali che ho compiuto tutti i giorni della mia vita. Non ho voglia di niente, ma il mio corpo ha una memoria tutta sua che funziona indipendentemente dalla mia volontà e così, nonostante il mio unico desiderio in questo momento sia quello di venire inghiottita da una voragine senza fondo che si apre all’improvviso sotto i piedi, il mio corpo è costretto a camminare, la mia mano deve per forza aprire la portiera dell’auto, la schiena deve appoggiarsi al sedile, le dita stringono il volante “Fermati, Clara” penso. “Fermati un attimo, riposati, rilassa i muscoli contratti. Resta qualche minuto così, seduta nell’auto, al riparo dai rumori esterni, respira a fondo l’aria fredda, chiudi gli occhi e non pensare”.
Ma come faccio a non pensare, a non ricordare?
«Mi dispiace signora, purtroppo gli esami non ci dicono niente di buono. Il suo nodulo deve essere operato al più presto. Ma non deve preoccuparsi troppo, la diagnosi è stata tempestiva, siamo in fase iniziale, le percentuali di guarigione…». Ecco come è cominciato questo martedì mattina, con un camice bianco seduto di fronte a me, in un ambulatorio asettico, che mi parlava di cose assurde, cose che non capivo, cose che senza dubbio riguardavano un’altra paziente. “Deve esserci stato uno scambio di cartelle cliniche” ho pensato. Il camice bianco parlava, parlava, io a un certo punto non l’ho più ascoltato. Non ero io quella a cui dovevano asportare un seno. Il medico si sbagliava, succede in ospedale. Un paio di settimane fa, quando l’ecografia aveva evidenziato una macchia sospetta, non avevo voluto darci peso. “Va bene, farò l’ago aspirato per scrupolo, ma di sicuro non ho niente” ho pensato. Con cortese urgenza c’era scritto sull’impegnativa, ma secondo me era tutta fretta immotivata. Quindi ci doveva essere un errore.
Ho solo 37 anni. Sono sana come un pesce. Lavoro sodo per mantenere me e mia figlia, che ha 16 anni. Non posso certo permettermi il lusso di ammalarmi. E quello di morire, poi… Suvvia, non scherziamo! “Forza Clara, stai qui seduta ancora un po’, tieni gli occhi chiusi e non pensare”. Ma come si fa a non pensare, a non ricordare? Sara è nata quando avevo appena compiuto 20 anni. Ero una ragazza come tante, carina, piena di progetti per il futuro, ma un po’ troppo ingenua. Al mio primo anno di università ho incontrato Matteo. Lui era il leader del movimento studentesco, un bel ragazzo alto e sportivo, con un modo di fare affascinante e una parlantina sciolta. Me ne sono innamorata all’istante, la prima volta che l’ho sentito discutere nel corso di un’assemblea universitaria. Ho fatto di tutto, nei giorni successivi, perché lui si accorgesse di me. Ho indossato abiti carini, mi sono truccata (io, che ero e sono acqua e sapone!), ho letto quotidiani su quotidiani per sapere tutto di politica interna ed estera, ho girato per i corridoi dell’ateneo con certi volumoni di filosofia sotto il braccio da farmi venire l’ernia al disco… E nel giro di un paio di settimane io e Matteo eravamo inseparabili. Insieme giorno e notte, insieme alle feste e alle riunioni, insieme a manifestare, insieme a dormire fino a tardi la domenica mattina.
È durato tre mesi, tre mesi durante i quali mia madre e mio padre non mi hanno praticamente più vista. Raccontavo loro che dormivo e studiavo in casa di altre due studentesse del mio corso, e loro ci credevano. Ingenui, come me. D’altra parte da qualcuno devo pure avere preso. Poi ho saltato un ciclo, ma non ho voluto farci caso fino a quando ho saltato anche il secondo. Solo allora mi è preso il panico. Non ho aperto bocca con nessuno, non ho detto niente nemmeno a Matteo, ho comprato un test di gravidanza in farmacia e l’ho fatto di nascosto, nel bagno dell’università.
Così lì, davanti a una porta coperta da disegnini spiritosi, da scritte sboccate, da brevi poesie di qualche poeta sudamericano, con lo stick appoggiato al termosifone freddo del gabinetto, ho saputo che Sara mi stava crescendo dentro. Qualcosa di così grande, di così sconvolgente, che mi stava davanti agli occhi tutto compresso in una righina rosa, e che mi si rivelava in un posto così squallido. Sono scoppiata a piangere, ho pianto tanto, da sola, terrorizzata. Ma una cosa, in tutta quella paura e quel soprassalto del cuore, si faceva avanti con chiarezza: non avrei rinunciato al mio bambino.
Gli volevo già bene. Era mio figlio, un pesciolino che nuotava nella mia pancia ancora piatta.
I miei genitori non l’hanno presa proprio bene, ma come potevo pretendere che fossero felici all’idea che avrei dovuto interrompere gli studi, cercarmi un lavoro, mantenere un bambino senza papà? Perché Matteo non se l’è sentita. «Non è il momento, Clara» mi ha ripetuto, in affanno, decine e decine di volte. «Meglio se interrompi la gravidanza, a un bambino ci penseremo più avanti, quando saremo laureati».
Col cavolo, gli ho detto, io non interrompo un bel niente. L’unica cosa che si è interrotta è stata la nostra relazione. Non volevo un pusillanime al mio fianco: sarei stata io coraggiosa per due, avrei protetto da sola il mio bambino, gli avrei garantito il meglio che potevo garantirgli. Come nei peggiori romanzi d’appendice del secolo passato, il ragazzo di cui mi ero innamorata si rivelava gretto, meschino, pavido come un coniglio. Stentavo a credere che “sedotta e abbandonata” fosse qualcosa più di una frase fatta, un modo di dire. Invece era la realtà, e stava toccando proprio a me. La famiglia di lui ha fatto quadrato e ha messo in giro voci secondo le quali io ero una ragazza poco seria e chissà di chi era quel bambino. Pareva di essere in pieno Ottocento!
Per fortuna mia e di Sara, la mia famiglia, al contrario di quella di Matteo, è umile e modesta ma trabocca di affetto. Mamma e papà dopo i primi momenti di smarrimento si sono fatti in quattro per me, per noi: mi hanno accompagnata alle visite di controllo, mamma è entrata in sala parto con me e mi ha tenuta per mano durante le ore del travaglio, hanno pensato al corredo della bambina, mi hanno riempita di body, bavaglini e tutine per Sara, mi hanno aiutata a vegliare su di lei quando è stata malata. Insomma, hanno fatto davvero di tutto. Quando la mia bellissima bambina è nata, è stata festa per tutti. Ricordo che l’ho guardata per la prima volta, dopo tante ore di dolori e fatica e spinte e contrazioni, me la sono stretta al petto, ancora tutta appiccicosa e bagnata, l’ho annusata e ho riconosciuto subito il suo odore di buono, di tenero, quell’odore che ancora oggi riconoscerei tra milioni di altri, l’ho baciata sulla testolina pelosa e morbida e allora ho capito che avevo fatto davvero la cosa più giusta. Sara meritava tutti i sacrifici del mondo, Sara era quanto di più bello la vita avesse potuto offrirmi. Ho pianto a lungo, con lei in braccio, ma stavolta era un pianto di pura gioia.
Piango anche adesso, sola nell’abitacolo freddo della mia auto. Dovrei mettere in moto e partire. Invece non posso smettere di andare indietro con la memoria. Dopo la sua nascita ho iniziato a lavorare. L’unica cosa che non hanno potuto aiutarmi a fare i miei genitori, infatti, è stata proseguire gli studi: le loro entrate modeste non consentivano certo di mantenere ancora me e mia figlia. E comunque io ero troppo orgogliosa per accettare un aiuto così consistente da parte loro: era stata una mia scelta, avere Sara, e me la sarei cavata da sola. Così mi sono rimboccata le maniche, ho rinunciato a qualsiasi spesa per me durante la gravidanza, quando non potevo certo mettermi a cercare un lavoro, e poi sono entrata in fabbrica appena la bambina ha compiuto sei mesi, abbandonando a malincuore l’università. Dopo un paio d’anni, sono riuscita a trovare un paio di stanze in affitto vicino alla casa dei miei genitori e sono andata ad abitarci con Sara: nonostante la grandissima generosità dei miei, sentivo che dovevo a tutti i costi crearmi una vita autonoma e indipendente da loro, una famiglia composta solo da me e da mia figlia, anche se con l’affetto dei nonni sempre a portata di mano.
Lì dentro, in quelle due stanze, siamo cresciute assieme, io e Sara. Perché anch’io avevo bisogno di crescere, anch’io ero tutto sommato una bambina, e un po’ alla volta imparavo ad assumermi tutte le responsabilità, a fare da mamma e da papà (per ché Matteo, a un certo punto, era sparito del tutto), a confrontarmi con le difficoltà che la vita ti mette davanti ogni giorno. Ho fatto l’operaia per dieci anni e ne vado fiera. Sono stati anni difficili, anni in cui a volte la sera, quando tornavo dal lavoro e dovevo fare la spesa, preparare la cena, stendere il bucato, guardare i compiti di Sara che era stata dai nonni tutto il pomeriggio, ero così stanca da addormentarmi vestita, di colpo, sul divano dove mi stendevo un attimo dopo aver messo a letto la bambina. A 30 anni mi sono detta che dovevo darmi qualche prospettiva. Sara stava crescendo ed era abbastanza serena, matura, forse un po’ timida, ma determinata e di carattere. Piano piano, nella mia testa, ha cominciato ad affacciarsi un’idea: perché non riprendere gli studi? Perché non darmi un’altra possibilità? A scuola ero sempre stata brava, studiare mi piaceva. Ma come potevo portare via del tempo a Sara? «Non preoccuparti per me, vedrai che staremo insieme anche di più di adesso, perché studieremo assieme mamma!» mi ha detto la mia bambina di 11 anni, quando ne ho parlato con lei.
Ma che cosa avevo fatto di buono per meritarmi una figlia così? È stata dura, durissima, ma dopo sei anni mi sono laureata in Lettere. E, incredibile ma vero, stento ancora a crederci, il liceo privato della mia città mi ha assunta part-time. Ho integrato lo stipendio con lezioni private, ho iniziato anche a insegnare italiano ai corsi serali per stranieri organizzati dal Comune. Insomma, da un paio d’anni a questa parte la vita sembra sorridermi: l’insegnamento mi piace moltissimo, il pomeriggio spesso sono a casa e passo molto tempo con Sara, che nel frattempo si è iscritta al liceo linguistico, è brava e impegnata. Io sono davvero orgogliosa di lei, ma anche lei di me.
E ora… Mi riscuoto, sono ancora seduta qui in macchina, adesso sto gelando. Metto in moto e mi avvio verso casa. Piango in silenzio. Possibile che debba finire tutto così, mi chiedo? Un nodulo al seno a 37 anni e tutto svanisce come per magia? Non più Sara, non più i miei genitori, non più le fatiche e le emozioni che ho provato in tutti questi anni? Tutto cancellato, per sempre? Quando arrivo sotto casa, mi accorgo che fiocchi di neve sempre più grossi stanno scendendo dal cielo.
Mi fermo lì fuori, in piedi, e guardo le luci dell’albero di Natale che illuminano la finestra della nostra cucina. È un abete enorme, che io e Sara decoriamo sempre assieme l’8 dicembre di ogni anno. I balocchi più belli, di vetro trasparente e decorati con spruzzi bianchi come neve, sono ancora quelli che i miei genitori usavano per l’albero di Natale della mia infanzia. È una tradizione nostra, come quella di aprire i doni la mattina di Natale, mai prima. E mi viene in mente il sorriso felice di mia figlia, da bambina, ogni volta che apriva un regalo ed era proprio quello che desiderava! Che senso ha farlo adesso? Che senso ha la festa? Come faccio a entrare e dire a mia figlia “ciao Sara, sai, quest’anno il 25 dicembre verrai a trovarmi in ospedale, il Capodanno probabilmente lo passerò a letto qui in casa e forse per l’Epifania sarò in grado di tirare giù con te questo stupidissimo albero di Natale che adesso mi mette tristezza solo a guardarlo”? Alzo il volto, chiudo gli occhi e lascio che la neve mi scenda sulle ciglia, ogni fiocco si scioglie al calore delle lacrime e quando mi arriva alle labbra sento un sapore strano, sapore di lacrime mescolato con quello che da piccola immaginavo dovesse essere il sapore delle nuvole.
«Mamma, ma le nuvole che portano la neve hanno un gusto diverso da quelle che portano la pioggia?» chiedevo a mia madre quando nevicava.
«Certo Clara» rispondeva lei. «Le nuvole che portano la pioggia sanno di bosco e di erba appena tagliata. Le nuvole da neve invece hanno il sapore della panna dolce. Sono nuvole speciali, arrivano poche volte all’anno ma ogni volta si portano dietro una magia». Per me la magia era coprire tutto di bianco. E mia madre continuava: «Sì, la magia di far fermare per qualche tempo tutto. Così la gente può smettere di correre e può pensare un po’ di più alle cose importanti della vita».
Smettere di correre. Fermarsi. Da quanto tempo non lo faccio? Da quanto tempo mi affanno dietro ai mille impegni quotidiani, le necessità mie e di Sara, senza concedermi un po’ di spensieratezza? E in fondo, lo so benissimo, la spensieratezza che non concedo a me, non la concedo nemmeno a mia figlia. Che infatti è una bravissima ragazza, ha un cuore d’oro, ma è troppo seria e matura per la sua età. Credo di averle portato via qualcosa di prezioso della sua infanzia, nella mia ansia di essere una buona madre e un buon padre, nel mio desiderio di perfezione e, lo ammetto, di rivalsa verso un destino che mi aveva, sì, dato Sara ma al contempo mi aveva rifiutato la possibilità di crearmi una famiglia completa. Le ho tolto quella leggerezza che ogni bambino ha il diritto di avere sempre e che ogni adulto dovrebbe ritagliarsi ogni tanto. Ecco quello che mi sono negata in tutti questi anni: fermarmi, pensare e sorridere. E ridere anche.
Ma forse è arrivato proprio il momento per farlo. Vorrà pur dire qualcosa, questa giornata. Non può essere soltanto una sconfitta, una fine. Cos’ha detto il medico, prima? La diagnosi è stata tempestiva, siamo in fase iniziale… Forza Clara, non è troppo tardi. Le nuvole cariche di neve portano magia, non sconfitte. Sono giovane e sono una lottatrice, lo so. Ho una famiglia stupenda, ho anche amici che mi sono stati vicini in tutti questi anni. Ma soprattutto, ho me stessa. Basta solo che mi fermi a riposare un po’, a tirare il fiato e a imparare di nuovo a godere della vita. Sorridendo ogni volta che sarà possibile sorridere e cominciando proprio da adesso a farlo. Ancora immobile sotto la neve, respiro a fondo ed estraggo il cellulare dalla tasca. Chiamo mia madre. «Ho bisogno di parlarti» le dico. «No, non devi preoccuparti, ti spiegherò tutto, ma per un po’ di tempo avrò bisogno ancora di te, di voi. Sarà per poco, perché sono sicura che tutto andrà per il meglio». Quando chiudo la telefonata, mi sento già un po’ più sollevata. Raddrizzo le spalle e mi avvio verso la porta di casa. Ora devo andare a spiegare a mia figlia il sapore delle nuvole.
Pubblicata su Confidenze 52/2009
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