“Il suo grande cuore verde” di Mara Munerati, pubblicata sul n. 20 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
In casa, mia mamma ha una foresta amazzonica in miniatura. Non mi sono mai spiegata come riesca a essere così brava con le piante fino a quando non l’ho vista in azione. Finalmente so qual è il suo segreto
Storia vera di Mara Munerati
Alle mamme non si fanno mai abbastanza complimenti. Io almeno non sono una di quelle figlie che ne dispensa molti. Dovrei farlo di più, lo so. Ogni momento che si vive insieme è da considerarsi prezioso: lei è pur sempre la mamma e, per esempio, se non ci fosse stata quella volta che ho avuta la lavatrice in panne, sarei ancora qui a togliere secchi d’acqua dal pavimento del bagno. So tutto, ma sono una di quelle figlie che non sa come fare i complimenti alla propria madre. Lei che è bravissima in cucina e ogni giorno s’inventa un nuovo piatto per deliziare i palati più esigenti di tutta la famiglia; lei che tiene la casa sempre in ordine per accogliere nel migliore dei modi amici, parenti e ospiti di passaggio; lei che parla alle piante e le rianima come farebbe il migliore dei cardiochirurghi con i propri pazienti.
Proprio così. Mia madre fa rivivere le piante.
La sua casa è una riproduzione in miniatura della foresta amazzonica, un insieme ben curato di piante, piantine e arbusti. Fiori di ogni tipo, foglie di tutte le forme e alberi dalla chioma folta e allegra. Un trionfo di verde tra le mura di casa. Un po’ come Central Park a Manhattan, solo nel basso ferrarese, tra un campanile acciaccato dal terremoto e vecchi palazzi degli anni Settanta.
Non so dirvi come sia nata questa sua passione, posso dirvi però come ho scoperto il suo magico segreto.
Quando mi parlava di pollice verde, ho sempre pensato che fosse tutta questione di pratica, di studio, di interi pomeriggi a leggere quanto sole deve prendere o quanta acqua bisogna dare a una pianta; se dev’essere potata una volta all’anno o se la natura fa tutto quel che è necessario senza che l’uomo debba piantarci il naso, o la paletta.
Senza dubbio è quello che faccio io quando tento di non mandare al cimitero le mie tre piantine sfortunate. Ed è stato cercando di salvare una di queste che ho dovuto chiamare il Pronto Intervento Pollice Verde, ovvero mia madre.
Il mio pollice è sempre stato più nero che verde, così come il mio sentimento per le piante è sempre stato più simile a un finto interesse per un essere vivente con una lingua diversa dalla mia. La maggior parte delle piante che sono passate da casa mia mi sono state regalate. Molte sono durate il tempo di capire che io non facevo al caso loro, e altre sono state adottate da chi ha un cuore molto più verde del mio. Nonostante questo, convivo felicemente con un’orchidea, un’aloe e un “tronchetto”. Non chiedetemi il nome esatto di quest’ultimo perché è così che mi è stato presentato.
Comunque questo famoso tronchetto stava per morire. E far morire una pianta così, a detta di mia madre, è davvero una delle cose più difficili al mondo. Eppure io ci stavo riuscendo alla grande.
Così la settimana scorsa mi ha telefonato per conoscere i sintomi.
«Ha le foglie che cadono».
«Sono secche?».
«Sembra di sì».
«E la terra com’è?».
«È terra».
Siamo andate avanti così per un quarto d’ora: io a elencare tutto quello che le poteva servire per fare una diagnosi precisa, lei a fare le domande necessarie per avere un quadro clinico il più completo possibile.
Poi, più nulla. Il medico delle piante sembrava essersi ritirato per programmare terapie, medicamenti e interventi a cuore aperto. Almeno fino a oggi.
«Ho preparato il vaso, oggi pomeriggio arrivo».
Così, diretta, senza troppi giri di parole.
«Hai degli attrezzi da giardino, vero?».
Senza nemmeno un briciolo di preavviso, ha deciso che era tempo di intervenire. Ovviamente per me il problema non era della massima urgenza, quindi ho cercato con gentilezza di posticipare il suo intervento, ma non c’è stato nulla da fare: all‘ora fissata ha suonato il campanello.
«Hai un cerino? Serve della cera nel caso ci tocchi di recidere una parte del tronco».
Poi è cominciata l’operazione. Io non sapevo dove mettere le mani. Lei cercava di darmi istruzioni sul da farsi e intanto armeggiava con guanti, paletta e sottovasi. Muoveva la terra con una cura che non avevo mai visto prima. Accarezzava il tronco storto come fosse la schiena di un gatto. Con affetto, amore e infinita premura. Poi ha iniziato a tirare e muovere le radici. Toglieva la terra con le mani per sistemarla in un vaso più grande.
Una volta arrivata a sollevare l’intero tronchetto, ha iniziato a parlarci, proprio come stava facendo con me appena due minuti prima. Gli faceva complimenti, lo rassicurava, gli sussurrava parole di conforto come fosse un vecchio amico in difficoltà.
«Non ti preoccupare, tra poco passa» gli diceva con tono calmo e amorevole. Poi ha iniziato ad aggiungere altra terra nel vaso più grande per risistemarlo a dovere. La delicatezza con la quale lo ha adagiato a terra mi ha stretto il cuore. Io la guardavo e lei sorrideva alla pianta. Mettevo la terra nel vaso con la stessa cura di un muratore che butta la calce su un mattone e lei accarezzava le foglie secche come fossero le mani di un bambino che si è appena sbucciato un ginocchio. Non avevo il coraggio di proferire parola, di intervenire nel loro dialogo. Perché a un certo punto mi è quasi sembrato che lo stesso tronchetto le dicesse qualcosa, una sorta di ringraziamento appena bisbigliato.
In compenso io mi sentivo tremendamente in colpa. So che si trattava di uno stupido travaso e basta, ma ero contenta che lei fosse lì in quel momento a ridare vita a quella povera pianta. Allo stesso tempo, mi sentivo di aver fatto qualcosa di sbagliato, di aver fatto del male a qualcuno, anche a lei, per non essermi accorta che stavo facendo morire una pianta solo perché non avevo avuto voglia di prendermene cura. Non mi era mai capitato di sentirmi così e davanti a tanta tenerezza ho provato la sensazione di essere davvero piccola. Volevo infilare la testa nella terra e nascondermi, ma ho preferito restare in silenzio e continuare a osservare il grande cuore di mia madre compiere quella straordinaria magia.
Una volta sistemato il tronchetto nel nuovo vaso, lo abbiamo annaffiato. Gli abbiamo pulito le poche foglie rimaste ancora verdi, ammirandolo nella sua nuova e confortevole casa.
Con la coda tra le gambe mi sono infine fatta spiegare come avrei dovuto trattarlo di lì in avanti, promettendo di impegnarmi molto di più.
Prima di andare via, mia madre si è avvicinata a lui e lo ha salutato con un affetto sincero. «Fai il bravo, mi raccomando!».
«Sono io che devo fare la brava» ho precisato tutta dispiaciuta.
Lei ha riso e mi ha detto di non preoccuparmi troppo, che la natura trova sempre il modo per far andar bene le cose, bisogna solo avere la grazia di prestarle un orecchio, e soprattutto il cuore.
E così come era arrivata, se n’è andata, lasciando il tronchetto di nuovo nelle mie mani.
Sono entrata in casa, mi sono fatta una doccia per scrollarmi di dosso terra e dispiacere, e mi sono seduta sul divano ripensando alla scena a cui avevo appena assistito.
Poi, come chiamata da una voce amica, sono uscita di nuovo in cortile ad ammirare la vita che avevamo appena salvato.
Gli ho fatto l’occhiolino e poi sono rientrata.
Sono sicura che, almeno per questa volta, il tronchetto ha accettato le mie scuse.
E ho fatto anche i complimenti alla mia mamma. Alla sua cura, al suo amore e al suo immenso cuore verde. ●
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