Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 32 di Confidenze
Sono sempre stata un maschiaccio, attenta a preservare la mia indipendenza, indifferente al giudizio degli altri. Le relazioni erano un passatempo, i figli un’opzione non considerata. Ma il destino ci porta dove vuole, o almeno è stato così per me
STORIA VERA DI EMMA P. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI
La giornata è finita, fuori c’è ancora luce anche se quest’anno la primavera fatica a farsi strada attraverso le maglie strette dell’inverno. Tutti sono andati a casa e in ufficio sono rimasta solo io. Ogni tanto mi capita, finito il lavoro, di trattenermi senza apparente motivo. In realtà, mentre riordino la scrivania lentamente, so che qui, tra queste quattro mura, i ricordi affiorano più facilmente. In un angolo del soffitto il servizio di pulizia non si è accorto di una minuscola ragnatela, percepibile giusto da un occhio attento. Solo un rimasuglio di garza grigia. A quel rimasuglio è rimasto attaccato il ricordo del nostro incontro, ma non solo quello: lì attaccato c’è ben altro e molto di più, ora lo vedo con chiarezza
Perché sorrido? Perché proprio questo volevo. Ritornare indietro, all’inizio di tutto.
Un maschiaccio scalmanato ed esuberante. Per molto tempo mi sono sentita così rispetto a tante mie amiche e compagne di scuola. D’altronde sono nata e cresciuta libera, unica femmina con tre fratelli maschi che non davano nessuna importanza al mio genere. Quello che importava invece era essere abbastanza grande da poter inforcare una bicicletta per salire finalmente nell’olimpo del divertimento ed entrare nella piccola gang di famiglia dove regnava l’uguaglianza assoluta. Punto e basta. Quando ripenso alla mia infanzia mi vedo scorrazzare libera avanti e indietro tutto il giorno, giocare a calcio insieme ai miei fratelli e agli altri ragazzini del vicinato, tirare sassi nel laghetto e poi pescare, sempre nello stesso laghetto, con la canna che mio padre ha costruito per me, il vento tra i capelli, il sole che mi brucia la pelle, sudata e felice.
Sarà stata l’aria di quegli anni giocosi, l’indipendenza totale di cui ho goduto, o semplicemente una questione di mera genetica, ma nella vita ho sempre ricercato la sensazione meravigliosa di libertà che avevo sperimentato allora. Ho sostituito la bici con una moto di grossa cilindrata per sentire ancora il vento tra i capelli, il sole che brucia la pelle e lo sguardo un po’ ribelle che non mi ha mai fatto preoccupare troppo delle classificazioni, delle convenzioni sociali e dei giudizi altrui.
In effetti, crescendo, il mio lato selvaggio, invece di affievolirsi, si è accentuato. Se escludiamo la scuola, dove fortunatamente ho sempre dato ottimi risultati e che per me è stata un punto fermo, gli altri ambiti della mia vita sono sempre stati espressione della mia personalità: abbigliamento trasandato, preferibilmente mascolino, giacconi di pelle, jeans strappati, stivali, diverse moto, tanti amici, tanti partner passeggeri, e mai e poi mai niente di serio che limitasse anche solo minimante la mia libertà.
Dopo la maturità, fui colta da un’incontrollabile bramosia di viaggiare a tal punto che era diventato un chiodo fisso. I miei fratelli mi suggerirono di prendere una pausa di riflessione e mi regalarono un viaggio per l’Europa di quasi tre mesi.
Venni a contatto con situazioni tanto diverse e lontane dalla mia quotidianità, con ragazzi del nord Europa già indipendenti da tempo, e rientrai in Italia con il desiderio di avere anch’io, appena possibile, un’autonomia economica. Iniziai a lavorare in una agenzia di assicurazioni e nel frattempo mi iscrissi all’università, facoltà di Economia e Commercio. Essere inserita nel mondo del lavoro e insieme crescere come persona ottenendo una laurea era il modo migliore per raggiungere la libertà. Furono quattro anni molto impegnativi e, finita l’università, mi concentrai sul lavoro: nel giro di poco tempo fui selezionata dagli ispettori dell’azienda per iniziare il percorso formativo di agente generale, il massimo. Le nuove sfide e i nuovi obiettivi resero le mie giornate piene e appaganti. Qualche mese dopo la fine di questo percorso gestivo un’agenzia tutta mia. In quel periodo la mia carriera aveva la priorità assoluta e tutto il resto era solo svago senza importanza. La mia vita privata poteva essere riassunta in una serie di relazioni lampo, avventure con persone per le quali non provavo nulla di serio che potesse limitarmi. La situazione mi stava più che bene e sarebbe potuta andare avanti per molto tempo se il destino non avesse avuto piani diversi per me.
A28 anni anni, un pomeriggio, mentre scendevo dalla mia moto avvertii dei dolori talmente forti al basso ventre che fui costretta ad anticipare la mia visita annuale dal ginecologo. Ricordo perfettamente tutto come fosse ora: l’espressione affranta del medico mentre mi annunciava che avevo diverse cisti ovariche da asportare e l’esitazione nella sua voce mentre cercava di tranquillizzarmi dichiarando solennemente che avrebbe praticato una chirurgia conservativa. Quel medico mantenne la sua promessa: dopo l’operazione mi confermò di aver fatto tutto il possibile, ma non era sufficiente a garantirmi la possibilità di avere figli; anzi, la situazione che aveva trovato sembrava dimostrare che sarei stata sterile.
Mentre si spostava da un piede all’altro, stringendo tra le mani i fogli delle mie analisi, sembrava non aver capito al primo colpo la risposta che mi era uscita di getto. Gliela dovetti ripetere. «Ma questa non è una notizia così cattiva!».
Come potevo spiegare a quell’uomo serio e posato che la maternità non era mai rientrata nei miei piani? Avevo ancora troppe cose da sbrigare, troppa vita da vivere. Avrei continuato a cavalcare la mia moto con il vento tra i capelli e il sole che mi bruciava la pelle, libera, serena e senza figli.
A quel punto, consapevole della mia nuova condizione, smisi di prendere la pillola. Lavoravo sempre moltissimo e la sera mi concedevo qualche svago per rilassarmi. Tra i cosiddetti “passatempi” ricorreva con più frequenza un nome, Piero.
Era un uomo tranquillo, sereno, che aveva sempre voglia di scherzare. Il nostro rapporto era frizzante e spensierato e a entrambi sarebbe andato bene mantenerlo tale se non mi fossi ritrovata dopo sei mesi in dolce attesa. Non ci credetti subito anche se c’erano tutti i segnali, ma il test di gravidanza confermò i miei sospetti. Superato il primo momento di turbamento, mi resi conto di essere felice per quella novità. Sentivo che la vita mi offriva un’opportunità unica e mi sorrideva in un modo nuovo, più forte che mai. Avevo sempre considerato limitante la maternità e ne rifiutavo anche solo l’idea: all’improvviso invece si rivelava una condizione unica, meravigliosa e per certi aspetti addirittura rivoluzionaria per me. Portare una vita nel mondo, accompagnarla e poi farla volare: una grande, nuova, meravigliosa avventura.
Mia figlia nacque in una calda mattina di maggio e la chiamammo Carola, cioè “persona libera”. Il padre era felice quanto me, anzi era talmente entusiasta che dopo la nascita della bambina mi chiese di sposarlo.
Convolammo a nozze un anno e mezzo dopo il parto, ma, pur con tutta la buona volontà del mondo, non si rivelò una buona idea. Nel giro di poco tempo non avevamo più nulla da dirci e da spartire ed eravamo diventati due estranei che convivevano sotto lo stesso tetto. Non ci rimase che prenderne atto. Ci lasciammo di comune accordo e forse dopo tanto tempo entrambi riassaporammo finalmente la spensieratezza di una volta.
Carola e io stavamo benissimo. Lei era una bambina adorabile che cresceva a vista d’occhio. Intanto io correvo tutto il giorno tra asilo nido, baby sitter, agenzia e clienti. La sera, l’unica cosa che desideravo dopo aver messo a letto mia figlia era rilassarmi mezz’ora sul divano con un bicchiere di vino per poi andare a dormire e non perdere nemmeno un attimo di sonno prezioso, l’unico mio balsamo ristoratore.
Dopo otto anni intensi potevo dire di aver portato a casa risultati importanti. A 37 anni avevo un’agenzia tutta mia con quattro dipendenti e non intendevo certo fermarmi: in più, mia figlia mi dava tante soddisfazioni. La mia vita sociale era pressoché inesistente, ma non era certo una priorità. Però continuavo ad andare in moto, l’unico momento durante il quale riassaporavo l’antica sensazione di libertà con il vento tra i capelli e il sole che mi bruciava la pelle. La novità era che sul sellino posteriore c’era spesso Carola con il suo caschetto calato bene in testa. Lei e il lavoro assorbivano tutte le mie energie, riempiendo ogni spazio della mia vita. I tempi nei quali rivendicavo un’autonomia assoluta erano lontani ormai.
Ma nulla è per sempre e l’ultima parola spetta sempre al destino.
Il lavoro che scandiva le mie giornate e quelle dei miei collaboratori venne interrotto una mattina da una telefonata molto allettante: il direttore di facoltà di un
prestigioso ateneo della città mi proponeva di entrare nel loro network di aziende che offrivano stage a studenti del master in management delle assicurazioni. Lo considerai un riconoscimento per la mia agenzia, evidentemente considerata una delle più importanti e attive nel panorama locale. In effetti, inizialmente ero piuttosto perplessa, ma subito realizzai che il sito dell’ateneo poteva rappresentare un’ottima vetrina e, in ogni caso, avere una persona in più mi sarebbe stato di grande aiuto.
Dunque, dopo un breve consulto con il mio personale, richiamai e accettai l’offerta. Nel giro di un mese avevo il primo contratto con uno studente sulla scrivania: laurea in Economia, era iscritto al secondo anno del master con voti eccellenti e un’ottima presentazione da parte dei professori. Era decisamente un curriculum interessante, almeno sulla carta.
Il primo giorno di stage, Renzo arrivò in giacca e cravatta. Il vestito gli cadeva a pennello e lui lo indossava con un’eleganza rara per essere un ragazzo così giovane. Era alto, moro, serio, educato e si trovò subito bene con tutti noi.
Molto preparato sul piano teorico, sopperiva alla mancanza di esperienza con impegno e voglia di mettersi in gioco. Rimanevo spesso sorpresa dalla sua maturità: aveva solo 26 anni, eppure esprimeva idee originali su tutto, aveva una visione libera delle cose e una mentalità fuori dagli schemi, doti che gli consentivano di trovare sempre soluzioni brillanti.
Al primo impatto sembrava timido e insicuro, tanto che esitava a ridere per qualche battuta prima di essere certo che lo fosse davvero. Con il tempo era riuscito a rilassarsi e a lasciar emergere un lato solare tenuto ben nascosto con il quale aveva finito per conquistare tutti. Soprattutto me. Anche troppo.
Non mi capacitavo di cosa mi stesse succedendo: malgrado la differenza d’età, mi sentivo attratta da lui come mai mi era successo prima. Ogni volta che parlavo con lui mi emozionavo e dovevo deglutire più volte per sciogliere un nodo alla gola che rischiava di soffocarmi.
Pensai addirittura di essermi rammollita dopo un lungo periodo di astinenza e morigeratezza forzate. Non mi spaventavano tanto gli anni di differenza tra noi, anche se non erano pochi in effetti; a lasciarmi interdetta era che per lui provavo qualcosa di completamente nuovo. Un ragazzino alle prime armi faceva battere forte il cuore a una donna adulta e vaccinata. Fino a quel momento avevo riservato un‘emozione simile solo a mia figlia e mi pareva assurdo. Ancor più assurdo era che tanti piccoli segnali dimostravano che quei sentimenti erano corrisposti: lo scambio di sguardi si prolungava più del dovuto, le mani indugiavano oltre il necessario nello sfiorarsi e sorrisi all’apparenza immotivati sembravano trovare un senso solo per noi. Cercai di nascondere ogni emozione sotto un tappeto d’indifferenza e andai avanti come se niente fosse.
I sei mesi del suo stage passarono in un lampo. Quando arrivò l’ultimo giorno, organizzai il lavoro in modo che sarei stata fuori sede, a Milano. Non volevo passare le ore che rimanevano prima dei saluti sentendo vicina la sua presenza. Sarei ripassata in ufficio nel pomeriggio tardi, giusto prima della chiusura, solo per un addio veloce. Era molto meglio dare un taglio netto. Il caso volle che il volo di ritorno portasse un grosso ritardo e chiamai in sede per avvertire che non sarei più passata. Rispose proprio lui e non esitò un attimo nel dirmi: «Non preoccuparti, ti vengo a prendere io con la macchina, così ci salutiamo… È il minimo».
Mi batteva forte il cuore mentre lo guardavo guidare e mi sembrava di essere una quindicenne mentre ne spiavo il profilo perfetto.
Era una splendida serata estiva, mia figlia era dal padre e io decisi di arrendermi a quello che provavo: lo invitai a bere qualcosa da me. Passammo insieme una notte straordinaria alla quale ne seguirono molte altre. La nostra relazione iniziò così e col tempo mi portò lontano. Malgrado gli anni e i mondi che ci dividevano, quando ero con lui, anche chiusa in una stanza, mi sembrava di risentire il vento tra i capelli e il sole che mi bruciava la pelle. Grazie a Renzo, nella mia vita era tornata la libertà di un tempo.
È stato anche bravo con Carola: le parlava, l’ascoltava, era paziente, e lei forse si è innamorata di lui tanto quanto lo ero io. Dopo il master aveva trovato lavoro
nella sede centrale di un grande istituto assicurativo e mi chiese di andare a vivere tutti insieme. Ero spaventata, avevo paura che la convivenza potesse rovinare tutto: il mio matrimonio dimostrava che poteva succedere e cercai di resistere alle sue insistenze. Ma non per molto. Una sera mi diede l’ultimatum. «Io ti amo e voglio costruire una famiglia con te. Se tu non vuoi, me ne vado». Mi arresi in un attimo e col tempo capii che avevo avuto ragione.
La giornata è finita, fuori c’è ancora luce e si è fatta davvero l’ora di rientrare. In moto ci metterò un attimo ad arrivare a casa. La nostra casa piena d’amore, di confusione e di bambini. Ora, oltre a Carola, a rallegrare la nostra vita ci sono anche Giulio e Amalia, nati a 20 mesi di distanza l’uno dall’altra.
Mi alzo e riguardo la ragnatela. Non dirò a nessuno di tirarla via perché rappresenta tanti ricordi e ogni tanto mi piace rispolverarli. È il mio modo di ringraziare il destino per aver fatto entrare nella mia vita l’amore. Un amore che non mi ha né limitata, né soffocata, ma che invece ha portato con sé il vento caldo della libertà, lo stesso che un tempo mi soffiava fra i capelli e mi scaldava la pelle. ●
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