Storia vera di Giulia raccolta da Francesca Colosi
Avevo incontrato Bella in una circostanza poco felice. La prima volta che la vidi era accasciata sulle zampe, magrissima e chiusa in una gabbia. Mi avevano chiamata dal canile per dirmi che questo collie vecchiotto era stato abbandonato davanti al cancello. Giorgio, uno dei volontari della Lega per la difesa del cane mi disse pure che Bella era stata trovata legata. Era tenuta stretta da una corda, una corda così corta da non consentire alla cagna di sedersi. “Povera cucciola”, pensai. Poi, in un impeto di autodifesa, forse di egoismo, pensai pure: “Perché proprio io? Cioè, perché ero stata io la prima destinataria di quella telefonata? Perché ero stata io la prima a sapere dell’abbandono di Bella?”. «L’abbiamo chiamata così», continuò Giorgio, «perché è un cane elegante ed è molto dolce». “Ovvio”, pensai, “sperano che io l’adotti”. Avevo tre gatti in casa ed era appena morto il mio adorato Pablo, il cagnone che “torturava”, perché geloso, una delle mie micie. Al canile sapevano tutto dei miei animali: ne avevo sempre avuti e li amavo profondamente. Sapevano soprattutto che Pablo se n’era appena andato.
«Questa cagna è davvero meravigliosa. Credimi Giulia», riprese Giorgio. Che Bella fosse meravigliosa esteticamente per me non aveva nessuna importanza. Il mio amore per gli animali è sempre stato gratuito. Non ho mai acquistato un cane o un gatto, li ho sempre presi in strada, in gattili o canili. Ho avuto gatti spelacchiati, con le zampe corte e il testone. Altri con gli occhi coperti dalla cataratta, altri ancora con problemi di ernia.
«Non m’importa che sia una cagna di razza» dissi. «Adesso non posso». Poi pensai: “Son sicura di non volerla?”. Ero in una fase di profonda tristezza e avevo bisogno di tempo. Sentivo di non essere pronta a cedere. Quando perdi un cane che è stato con te per anni, perdi un amore, perdi una “persona”, perdi un pezzo di te. Pablo era stato con me per dodici inverni e undici estati. Veniva con me al mare, a Lipari, e amava nuotarmi accanto. Io e Pablo ci stendevamo al sole, uno accanto all’altra come due innamorati. Poi, sempre in quella Lipari meravigliosa, si cenava al ristorante Kasbah, dove gli animali possono entrare e vengono serviti e riveriti come dei principi. Lui sull’isola era felice, felice come non lo era di certo a casa. A casa c’erano anche le gatte, le micie che in estate se ne restavano per un paio di settimane in città, consolate dalle carezze e naturalmente dal cibo che, in mia assenza, portava loro mia sorella. Insomma, avevo bisogno di elaborare quella morte, avevo bisogno di tempo. Pablo che viaggiava con me in aliscafo, Pablo con me sul lungomare, Pablo al parco, Pablo che con me tornava a casa e cominciava a bisticciare con la gatta Ciccia.
«Prendila Giulia» fece ancora Giorgio al telefono. «Prendila, prima che si lasci morire».
Il mio pensiero a quel punto si rivolse all’ex padrone di Bella: “Come si può abbandonare un cane? Qualcuno lo tiene finché è giovane e bello. Poi lo abbandona perché comincia a indebolirsi, a imbruttirsi. Come si può abbandonare un essere vivente che comincia a perdere vigore e forza, come si fa a trattare un cane così?”. La mia esperienza al canile mi aveva, ormai da tempo, messo di fronte a una cruda verità. Qualcuno purtroppo tratta gli animali come se fossero accessori di moda.
Va di moda il Labrador? Si acquista un Labrador. Il Labrador invecchia? Via il Labrador. Come dev’essere un essere umano per trattare un altro essere, un essere vivente, in modo così crudele e vile? E cosa dire di alcuni cacciatori? Usano i loro cani fino a quando sono vispi e utili, poi, via anche quelli.
«Soffrirai meno per la morte di Pablo» continuò Giorgio. «Ti distrarrai».
«Prendila tu questa cagna» feci seccata. Nessuno mi avrebbe distratta da Pablo. Giorgio disse che aveva già tre cani in casa.
«Domani vieni almeno a vederla» fece ancora lui al telefono. E fu inevitabile.
Fingendo un tono duro dissi: «Non domani, dopodomani».
Ecco, l’indomani mattina ero al canile. A letto non avevo chiuso occhio. Avevo pensato a quella cagna per tutta la notte. L’avevo disegnata nella mia mente con le orecchie schiacciate sulla testa e la coda sotto la pancia. Immobile, senza la forza di abbaiare. Una cosa era certa. Giorgio aveva chiamato la persona giusta, aveva chiamato me. E Giorgio aveva ragione. Mi stavo distraendo da Pablo perché avevo preso a pensare a Bella. Bella e solo Bella.
Era domenica e si cominciava a sentire la primavera. Lei era lì. La prima gabbia. Ad accogliermi il solito frastuono, un’abbaiata dietro l’altra, i guaiti che diventavano un unico latrato. Un latrato che, all’inizio della mia esperienza come volontaria al canile, avevo percepito come un suono duro e stonato. Un rumore assordante, quasi insopportabile che, giorno dopo giorno, diventava stimolo a liberare, anche se solo per una o due ore, un cane dalla sua prigione. La prigione era quella, la maledetta e solita gabbia. Una scatola con grate di ferro: è qui che ogni animale deve starsene rinchiuso perché altrimenti, arrabbiato com’è per la condizione in cui vive, abbandonato e privo d’affetto, attaccherebbe un altro cane.
Bella sarebbe stata la prima a essere attaccata. Bella era mansueta, attaccabile appunto, debolissima, magra. Andai diretta verso di lei, e mi accertai che nessuno dei cani più guerrieri fosse vicino a noi. Lei mi guardò, alzò gli occhi verso di me e mi venne incontro. Un attimo, e compresi che Bella era mia.
Bella era grande, grande di stazza dico, ma piccola dentro, cucciola nel suo animo. Lo vidi subito, era spaventata. Non aveva di certo un fare sicuro, non si comportava come un animale altero, nonostante fosse nobile d’aspetto. Bella era terrorizzata dalla vita e dal mondo.
Si sarebbe fidata e affidata a me? Mi chiesi subito questo, solo questo, dato che avevo già deciso: Bella sarebbe diventata la nuova sorella di gatta Ciccia e delle altre micie. La sua risposta era arrivata, pronta. La cagna dolcissima mi aveva detto sì, che si sarebbe fidata. Bella, infatti, nonostante la sua evidente paura, nonostante la sua timidezza, aveva mandato un segnale chiaro. Lei voleva essere liberata e voleva essere adottata. Ovvio. Bella voleva una famiglia. Era pronta a scommettere.
Adesso Bella è mia, e spesso viene in ufficio con me e si stende, serena, sotto la mia scrivania. I miei colleghi la salutano, poi si dimenticano di lei, perché si nasconde. Bella è rimasta timida, riservata, ma sento che adesso è felice. Bella non morirà sola.
Testo pubblicato su Confidenze 37/2015
Foto: 123RF
Ultimi commenti