È stata una delle storie più apprezzate del numero 27 di Confidenze. Io, plasmata dall’amore di Maria Pia Di Prossimo. Ora potete rileggerla sul blog
Lavoro la creta e con le mie sculture ho un certo successo. ma c’è stato un tempo in cui mortificavo me stessa e il mio talento senza nemmeno rendermene conto.
Ora invece so che il capolavoro della mia vita non è una statua
storia vera di Sara D. raccolta da Maria Pia Di Prossimo
Ricordo ancora, quel maledetto giorno di ottobre, il vento tagliente e la pioggia incessante: non permetteva a nessuno, in quel freddo pomeriggio autunnale, di sostare al Parco Sempione di Milano. Con il bavero alzato e l’ombrello aperto per ripararmi dalla pioggia e dagli schizzi delle auto che passavano, procedevo spedita verso l’ingresso del metrò. Ero talmente esile, allora, che, quando le stecche dell’ombrello si voltarono all’insù per il forte vento, ebbi paura di diventare una nuova Mary Poppins e di volare via, sospinta fra le nuvole. Matteo mi aspettava in Galleria per l’aperitivo e, con quel tempo da lupi, ebbi paura di non riuscire a raggiungerlo in orario. A un tratto, mentre attraversavo la strada, una macchina in corsa, passando sopra una pozzanghera, mi fece praticamente il bagno. Non ricordo più quante imprecazioni uscirono dalla mia bocca, verso quello sprovveduto della strada. Però, ebbi un attimo di panico, quando l’auto si fermò di colpo.
Ebbi paura che qualche energumeno uscisse dall’abitacolo, per riempirmi di botte. Con il fiato sospeso mi fermai impietrita e invece vidi scendere un uomo affascinante con il suo blazer blu e pantaloni grigi che, con mio sommo piacere, si scusò dell’accaduto.
«Non so come farmi perdonare signorina, purtroppo sono in ritardissimo per un appuntamento di lavoro. Le lascio il mio biglietto da visita, mi mandi tranquillamente il conto della lavanderia o mi chiami». Poi, con un saluto veloce, anche per non bagnarsi troppo, risalì in macchina, senza darmi il tempo di rispondere, ripartendo e lasciandomi sbigottita e frastornata. Non ero abituata, con Matteo, a quel tipo di linguaggio, tanto educato e rispettoso. Infatti, appena mi vide arrivare, impaziente e scocciato, non si alzò dalla sedia, non mi venne incontro, per abbracciarmi e baciarmi. Anzi, vedendomi bagnata come un pulcino, addirittura ebbe da ridire sul ritardo e sull’aspetto imbarazzante con cui mi ero presentata.
«Sara, ma ti vedi come sei conciata? Sembri una straccivendola» mi urlò in faccia Matteo.
«Cosa vuoi che ti dica, amore mio, tanto non capiresti, per te conta solo l’esteriorità, ma lasciamo perdere» risposi arrabbiata. Era talmente scorbutico, negli ultimi mesi, che mi chiedevo spesso perché stessimo ancora insieme. Forse abitudine, forse pigrizia, forse lo scarso desiderio di affrontare una nuova storia d’amore e odio, come quella che stavamo vivendo noi due. Ero furiosa con me stessa e le lacrime scesero copiose, all’idea di sopportare, inerte e in silenzio le sue cattiverie.
«Sì, brava, piangi, è l’unica cosa che sai fare ultimamente» aggiunse Matteo con rabbia.
«Non sei mai capace di dire cose carine, mi sono proprio stancata» sbottai furibonda. Quell’uomo non meritava il mio amore, la mia dedizione, i guadagni sul mio lavoro. Purtroppo lui era il mio agente, lo avevo scoperto su internet e ora dipendevo in tutto e per tutto da lui. Ero un’artista e le mie mostre di scultura erano piuttosto richieste. Eppure, mi lasciavo trattare da Matteo come un’incapace.
Ero sempre stata la pupilla di un docente dell’Accademia di Brera, sin dai tempi della scuola. Innamorato del modo in cui quell’alunna riusciva a plasmare la creta e crearne opre originali, aveva caldeggiato la mia candidatura per un importante lavoro da realizzare negli Stati Uniti. Dovevo creare alcune figure femminili, per una maison d’alta moda newyorchese. Ispirandomi ad alcune figure del passato, avevo dato origine a una donna non esile, non anoressica, ma felice delle sue rotondità, come volevano i grandi artisti rinascimentali, come Michelangelo e Leonardo, come persino nel Paleolitico rappresentavano la figura femminile. Forse, le mie opere non sarebbero state apprezzate dagli stilisti, ma dalle donne sicuramente sì.
Le figure di Sara, come venivano chiamate, simboleggiavano spesso la maternità, la vita, la felicità. Matteo, in tutto questo, vedeva solamente un registratore di cassa sempre pieno, che andava a rimpinguare il suo conto in banca, spesso in deficit.
S
vogliatamente lo salutai e, dopo aver appena sorseggiato il mio analcolico, senza assaggiare patatine o snack, gli diedi un bacio frettoloso, dicendo di dover correre a casa a cambiarmi, perché inzuppata d’acqua. Prima di dileguarmi però, mi voltai di scatto verso di lui, dicendo con aria di sfida: «Questa sera non credo che ci vedremo, non ho voglia di uscire, ho troppo lavoro da fare ma, uno dei prossimi giorni, sicuramente sì, perché io e te dobbiamo parlare».
Mi guardò sparire fra la folla, con occhi indifferenti, come se quella ragazza parlasse con qualcun altro e non con lui.
La settimana successiva non avevo ancora sentito né visto Matteo, si era come dileguato nel nulla. Avevo appena ritirato gli abiti dalla lavanderia e a casa, guardandoli, sorrisi al pensiero che quel tizio, incontrato giorni prima, volesse pagarne la pulitura.
Presi il biglietto da visita, messo quella sera, svogliatamente, nello svuotatasche dell’ingresso. Titubante sul da farsi, continuai a leggere e rileggere quel nome: “Davide M., architetto e designer d’interni, specializzato in ristrutturazioni, nel rispetto del verde e della natura”.
Mi feci coraggio e composi quel numero. Rispose una voce calda e suadente, la stessa che ricordavo di quel giorno.
«Pronto, buongiorno, sono la ragazza che lei, settimana scorsa, ha inondato d’acqua, vicino a Parco Sempione».
«Buongiorno a lei, signorina, ha il conto della lavanderia? Mi dica dove posso mandarle l’assegno».
«Mi chiedevo se, invece della lavanderia, fosse disposto a incontrarmi e offrirmi un caffè». Quella proposta lo prese alla sprovvista e, non sapendo cosa rispondere, rimase in silenzio.
Di solito, invitava lui le ragazze a uscire ed era evidente che non gli piaceva essere “rimorchiato”. Ci pensai io a toglierlo dall’imbarazzo, interrompendo quell’attesa silenziosa.
«Mi scuso, forse mi sono espressa male. Ho letto sul biglietto da visita di che cosa si occupa e sono una scultrice, sono interessata a incontrarla per un consulto tecnico. Non è mia consuetudine abbordare uomini».
Il ghiaccio, dall’altra parte del filo, si sciolse e prontamente. Davide, accettò di buon grado l’invito.
Non stavo più nella pelle dalla gioia. Assaporavo l’idea di un nuovo progetto lavorativo, lontano da quell’uomo che mi sfruttava e che mi regalava solo briciole d’amore. Fino ad allora ero stata obbligata ad accettare commissioni di opere che non sempre mi lasciavano libera di esprimermi come volevo. Gli impegni di entrambi, però, avevano fatto slittare l’incontro con Davide al mese successivo e, quella sera, davanti allo specchio, osservavo la mia immagine riflessa.
Tacco 12, tubino nero ad altezza ginocchio, abbellito da un sottile filo di perle, una piccola pochette e un bolero corto in vita, di lana damascata, oro e nero. L’immagine che vedevo nello specchio mi piacque molto, tanto da farmi esclamare: «Niente male, vecchia mia, niente male!».
Quel caschetto di capelli ambrati, metteva in risalto i miei occhi grigi, davvero felini.
L’incontro fu meraviglioso, Davide, elegante e affascinante, come lo ricordavo, rimase estasiato nel vedermi scendere dalla macchina, vedeva in me una creatura incantevole, con due gambe mozzafiato che il giorno dell’incidente non aveva notato.
A
scoltò con interesse quello che gli proponevo. «Vorrei inserire le mie opere, nelle future costruzioni, con statue ispirate all’ambiente e alla località in cui saranno collocate». Durante gli studi, Frank Lloyd Wright era stato il mio architetto preferito e la sua Casa sulla Cascata era stata sempre il mio punto d’ispirazione, mentre il suo Museo Guggenheim, a New York, mi aveva vista come spettatrice parecchie volte. Ci avevo abitato per un anno, nella Grande Mela, per approfondire la lingua, e la Fifth Avenue, dove si trova il museo, la conoscevo bene.
Da quel giorno, gli incontri furono sempre più assidui, gli appuntamenti di lavoro divennero anche i nostri incontri d’amore, sino a quando una passione travolgente decise per noi gli sviluppi futuri.
Matteo, settimane prima, mi aveva minacciata, dandomi della poco di buono, della fallita. Tutto questo durante un incontro burrascoso in cui ci scambiammo solo parole feroci e lui si azzardò anche a mettermi le mani addosso. In lacrime, ero uscita per l’ultima volta da quell’appartamento che avevo tanto amato e in cui avevo condiviso momenti belli e intensi con lui.
Ebbi il coraggio di raccontare tutto a Davide.
«Pensa, tesoro, che non mi ha dato nemmeno il tempo di parlare, sovrastando la mia voce con le sue parole minacciose, anzi, ha alzato le mani».
«E perché non l’hai denunciato, quel verme?» chiese su tutte le furie Davide.
«Non voglio avere più niente a che fare con lui» risposi, accorata. Repentinamente, Davide mi chiese il numero di Matteo e lo chiamò dal cellulare: dopo essersi presentato, lo coprì di insulti e improperi.
«Solamente un bastardo e un vigliacco può colpire una donna indifesa: è meglio che da oggi in poi tu le stia lontano, altrimenti andrò dalla polizia a denunciarti per violenza. Ricordati che, dietro a Sara, ci sarò sempre io a proteggerla. Avevi una creatura splendida da custodire, amare, far crescere professionalmente, ma non ci sei riuscito, mi vergogno di essere un uomo, quando vedo gente come te». Non gli diede il diritto di replica e, infuriato, chiuse la comunicazione.
Quell’anno trascorse sereno per entrambi e Davide fece di tutto per farmi sentire importante e preziosa.
L’esordio di New York fu un trionfo.
Ebbi i consensi della critica e di un pubblico numeroso. Le mie statue, sinuose e burrose, ricordavano parecchio quelle di Botero e, quella luce rosata puntata su di loro, a detta di tutti, metteva in mostra la dolcezza e la maestria dell’esecutrice. Ne ero felice!
Fui grata a Davide di aver portato alla luce, con il suo amore, la mia vera natura.
Anni dopo, seppi che Matteo era finito in bancarotta, sempre alla ricerca spasmodica di belle ragazze, da sfruttare e da portarsi a letto. Davide, invece, dopo avermi chiesto di sposarlo, fece di me un’artista affermata, ma soprattutto la mamma di Edoardo e Sophie, i nostri splendidi bambini. ●
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