Vi riproponiamo nel blog la storia più apprezzata del n. 4
Carlo mi aveva appena lasciato dopo dieci anni di convivenza, mi sentivo persa. Camminavo sulla ciclabile dell’Adda quando la vidi: senza finestre, abbandonata, spoglia, isolata, come me. E un cartello: “Vendesi”. Fu un colpo di fulmine. Con un tocco di magia
STORIA VERA DI SIMONA F. RACCOLTA DA FRANCESCA STUCCHI
La decisione era presa: dopo dieci anni di convivenza il mio compagno, garbatamente, mi lasciava. Avevo accettato la sua scelta con la dignità che mia madre mi aveva insegnato fin da bambina: «Testa alta tesoro, qualunque cosa accada, sei una ragazza forte». Avevo pianto un paio di sere al tramonto, cercando di concentrare il dolore nei pochi attimi in cui il cielo si tingeva di rosso, sempre più scuro finché veniva inghiottito dal nero della notte. Avevo già compiuto 40 anni da qualche mese e, sebbene non avessi raggiunto l’età della saggezza, sicuramente la vita mi aveva già insegnato che soffrire serve a poco. Avevo accatastato cumuli di sogni infranti in giardino e sentivo che era arrivato il momento di dargli fuoco.
Così approfittai della situazione per riordinare casa, gettare vecchie cianfrusaglie e raccogliere l’essenziale, pronta a partire. Me ne sarei andata, che senso avrebbe avuto restare in quel grande appartamento pieno di ricordi e nostalgie, intriso di odore di dopobarba e caffè? Considerate le circostanze, era meglio cambiare aria, cambiare tutto il possibile.
Non temevo il cambiamento, sinceramente l’avevo sempre desiderato, anche se l’affetto, spacciandosi per amore, mi teneva legata a un uomo sicuro di sé, anche simpatico a momenti, che sembrava potesse leggermi nella mente e prospettarmi un roseo futuro. Invece no, giorno dopo giorno non aveva fatto altro che buttare acqua sulla fiamma su cui io soffiavo, sperando di tener acceso il nostro sentimento. Con i suoi silenzi, i sorrisi scontati, le dimenticanze ingiustificate, con quella cortese, amara superiorità di chi paga il conto al ristorante e poi ti richiede i soldi con gli interessi, Carlo aveva portato il nostro rapporto alla rovina. Di famiglia benestante, aveva consolidato il patrimonio con il suo lavoro, era già realizzato prima di diventare un uomo, avaro quanto basta per non darlo a vedere, intelligente e scaltro, si faceva guidare dall’intuito e non sbagliava mai.
L’avevo incontrato in tribunale, difendeva l’imputato in una causa complicata di vendette e gelosie. Avevo cercato di mettermi in contatto telefonicamente con lui, ma ero stata rimbalzata, così ci eravamo incontrati lì, per la prima volta, davanti al giudice. Aveva messo in piedi una difesa inattaccabile. Dopo aver ascoltato la sua arringa, erano venuti dubbi perfino a me sulle responsabilità del suo assistito. Ovviamente non ne avevo fatto parola con il mio cliente, ma se prima di entrare in aula ero certa che quell’uomo fosse colpevole, al termine dell’udienza non lo ero più. Il brillante avvocato aveva incantato anche il giudice, che aveva assolto l’imputato per insufficienza di prove e tutto era finito così, perché il mio cliente non se l’era sentita di impugnare la sentenza. Ricordo quel giorno come uno dei più deludenti della mia carriera, avevo fallito dove mi sentivo più capace e non avevo nemmeno insistito per ribaltare la decisione in appello.
Carlo mi aveva vista scappare via a piedi, scordando di essere arrivata in auto e, vedendomi tornare indietro dopo qualche minuto con le chiavi in mano, aveva intuito quanto fossi sconvolta. «Ho un paio di cose da dirle, posso offrirle un caffè?» mi aveva proposto con un sorriso a cui non si poteva dire di no. Comunque ho accettato, non fosse altro che per la curiosità di sapere quale segreto volesse rivelarmi. Mi fece un sacco di domande che non riguardavano la causa, a cui risposi asciutta, senza dilungarmi. Riaccompagnandomi alla macchina, mi tese la mano e strinse forte la mia, chinandosi e sussurrandomi all’orecchio: «Avevate ragione voi, ma ho solo fatto il mio lavoro». Lo odiai.
Eppure i giri della vita, si sa, sono imprevedibili e impietosi, gli avvocati si incontrano di nuovo per altre cause in altri tribunali, il fascino del primo incontro miete le sue vittime ogni volta e io quell’uomo dalle labbra disegnate e lo sguardo magnetico non l’avevo più dimenticato. Ci siamo messi insieme
per Natale, come nei film, a una grande festa a casa sua a cui mi aveva invitata e io, naturalmente, non avevo di meglio da fare.
Mi aveva subito messa a mio agio, tra parenti ingioiellati e amici di lunga data, ero la frizzante new entry che gli mancava. Dopo una giornata allegra e spensierata, non vedevo altro che i suoi occhi solo per me. La magia di quel giorno però era svanita presto tra le pieghe della routine, i viaggi di lavoro che lo tenevano lontano per giorni e giorni, le telefonate di cortesia, le serate prevedibili. Mi aveva conquistata e si considerava a posto così, nessuna cura perché il nostro rapporto si rafforzasse, ormai ero accanto a lui e lì sarei restata finché avrebbe voluto. Il momento di darci un taglio era poi arrivato un giorno nebbioso di febbraio, quando non puoi nemmeno andar fuori a camminare per schiariti le idee. Mi aveva semplicemente liquidata con un patetico: «Tra noi è finita la magia». C’era forse mai stata? O semplicemente ora aveva un’altra a cui pensare? Una carrellata di scenari possibili si sono fatti avanti nella mia mente. Il suo silenzio lasciava a me decidere a quale credere.
Ho scelto l’opzione della presenza di un’altra donna, non mi ero mai sentita alla sua altezza in fondo, troppo semplice e sensibile forse. Anche se, pensandoci bene, avevo dato più io a lui che lui a me e il passare degli anni aveva reso lui più spento e me più consapevole. Avevo imparato molte cose, le batoste prese me le avevano insegnate senza sconti. La perdita dei miei genitori, troppo tardi per imparare a cavarmela da sola e troppo presto per farmene una ragione, mi aveva fatto riflettere sulla fugacità della vita. Ho cominciato a sentire i rintocchi dell’orologio svegliandomi di soprassalto nel cuore della notte, un potente impulso mi spingeva a correre, a non sprecare il tempo, ma anche a godermi fino in fondo quei momenti felici che mi capitavano per caso, di tanto in tanto.
Ora che Carlo aveva deciso che avrebbe fatto a meno della mia compagnia, mi sembrava chiaro che di tempo ne avevo già perso abbastanza, era ora che trovassi la mia strada e il mio posto nel mondo.
Così ho preparato un paio di valigie, buttandoci dentro alcuni abiti, le mie scarpe di velluto verde e un album di vecchie fotografie delle mie esistenze precedenti. Sotto una doccia fumante ho lasciato scorrere via gli ultimi dieci anni, ho indossato i leggings con l’abito grigio chiaro, un filo di trucco e lo smalto trasparente. Così mi sentivo a mio agio per uscire. Ho guidato verso il fiume, una passeggiata in mezzo alla natura mi avrebbe fatto bene. Ho parcheggiato in riva, con quel freddo non c’era in giro nessuno. Folate di vento mi colpivano all’improvviso alle spalle, nuvole scure si cumulavano in cielo annunciando un temporale. Camminavo a passo veloce sulla ciclabile verso sud. L’Adda scorreva lento e assonnato con le sue acque invernali grigio-verdi, piumosi germani formavano soffici tremanti cuscini addossandosi l’uno all’altro nelle insenature. Notai due candidi cigni nuotare affiancati rapidi controcorrente in cerca di riparo. Un merlo sceso a beccare qualcosa sul sentiero chioccolò prima di spiccare il volo verso il nido.
Sull’altra sponda notai una vecchia casa di sasso, con grandi aperture senza finestre, abbandonata. Sul portone era appeso un grande cartello arrugginito con la scritta Vendesi e un numero di cellulare. “Chi potrebbe comprare una casa così?” pensai distratta. E la risposta arrivò come un lampo, squarciò l’aria e scaricò a terra una tale quantità di energia da farmi sobbalzare. Era solo un fulmine o la risposta alla mia domanda? Il tuono fragoroso mi colpì al cuore, mi fermai spaventata, dovevo tornare indietro o mi sarei trovata nel bel mezzo del temporale.
Corsi alla macchina coprendomi il capo con il foulard, pesanti gocce di pioggia mi piombavano addosso senza pietà. Realizzai che l’auto era il mio unico riparo. Appena m’infilai nell’abitacolo una cascata d’acqua si rovesciò sulla macchina, chiusi gli occhi stringendomi nel cappotto. Non so dire se sognai o immaginai, ma quando la tempesta si calmò, attivai i tergicristalli per vedere fuori e oltre il vetro del parabrezza mi apparve laggiù la vecchia casa, spoglia, isolata, incantevole. Come me.
Dormii in auto quella notte e l’indomani avevo solo una cosa in testa: chiamare quel numero di telefono. Mi rispose un signore cortese di poche parole, fissammo un appuntamento per le 11 nel bar all’inizio della ciclabile. Scrutai la mia espressione nello specchietto, ero stanca e ancora un po’ umida, entrai nel bar, ordinai un tè al limone e andai in bagno a sistemarmi. Mancava solo mezz’ora all’appuntamento. Aspettai scorrendo i post della mattina, tazze di cappuccini e paesaggi innevati, guanciotte di bimbi e belle famiglie a spasso nelle città d’arte, c’è un po’ di tutto sui social, mi sentii una stupida a non aver scattato nemmeno una foto durante il temporale. Intanto erano arrivate le 11 e quando la porta del locale si aprì, decisi di non voltarmi. Un uomo sui 70 con baffi bianchi all’insù si avvicinò al mio tavolo e mi chiese: «Posso?». «Certo» risposi non prima che si fosse già seduto.
«È veramente interessata alla casa?» domandò l’uomo in tono serio, che non si addiceva per nulla alla sua espressione buffa e scanzonata.
«Dev’essere un po’ sistemata» abbozzai. «Completamente ristrutturata» precisò lui.
In effetti della casa pareva rimanessero soltanto le mura di pietra. «Venga a vedere» disse l’anziano signore e si avviò accennando un saluto al barista.
Lo seguii lungo il sentiero sterrato fino al ponte, lo attraversammo tra nuvole di moscerini fluttuanti nell’aria, respirando un intenso profumo di rosmarino. Il portone della casa pareva nuovo rispetto alla struttura, mi spiegò che l’aveva rifatto perché non vi entrassero ladri o vagabondi. L’interno era fatiscente, fasci di luce giallastra filtravano dalle aperture che una volta erano state finestre e formavano coni di luce sul pavimento impolverato, anch’esso in pietra viva. L’interno era vuoto, a eccezione di alcuni vecchi bauli avvolti dalle ragnatele. «È sua!» mi disse il vecchietto balzando alla conclusione che mi fossi già decisa per l’acquisto. Che me l’avesse letto in faccia? Non trattai il prezzo, non ne avevo bisogno, quello che mi serviva era una casa tutta mia. Ci accordammo con una stretta di mano e mi sfiorò il pensiero di aver immaginato tutto quanto: la casa sul fiume, il temporale, il vecchietto con i baffi, i bauli impolverati… Invece era tutto vero, una follia, la prima in vita mia.
«In fondo alla strada trova un posto per dormire, uno con due b, come si dice oggi». Aveva intuito anche quello. All’improvviso mi ricordai che non avevo un posto in cui tornare. Il b&b in fondo alla via era davvero carino, una villetta con un piccolo giardino che in primavera si sarebbe riempito di fiori. La proprietaria, una giovane donna gentile e discreta, mi accolse con garbo e mi mostrò la stanza sui toni del giallo che diventò il mio nido per parecchi mesi.
La ristrutturazione della casa sul fiume non fu un lavoro semplice, ma un amico architetto curò ogni dettaglio e, giorno dopo giorno, prese la forma che avevo desiderato. Le persiane verdi staccavano tra i grigi delle pietre armonizzandola con la natura circostante, al piano terra la zona giorno era calda con mobili di legno e una bella stufa bianca in ceramica decorata, al piano superiore tre camere di diversi colori con ampie tende avorio creavano spazi intimi e accoglienti; un’atmosfera pacata, d’altri tempi, si respirava in ogni locale e uno stuzzicante profumo di erbe aromatiche penetrava dalle finestre. Ne avevo già piantate diverse in giardino, un piccolo orto botanico che curavo con dedizione e che mi dava una gran soddisfazione.
Il vecchio proprietario abitava lì vicino, mi salutava ogni mattina all’alba quando passava per andare a dar da mangiare ai suoi animali, o meglio alla sua famiglia, come diceva lui. Aveva una piccola stalla con qualche mucca, una decina di capre, le galline e tre mansueti asinelli. Tutto il suo mondo era lì e da qualche tempo era rallegrato dalla presenza della nuova vicina di casa.
Un mattino ventoso di fine estate passò più presto del solito e mi chiamò dalla strada. Ero ancora a letto, la sua voce mi raggiunse dalle finestre aperte, mi affacciai ancora assonnata e lui insistette per entrare, dicendo di avere qualcosa da darmi. Scesi le scale sistemando i capelli e lo trovai alla porta trepidante, teneva tra le mani un fazzoletto ripiegato che adagiò nelle mie: «Sono le chiavi, Simona, per aprire i bauli».
I vecchi bauli erano stati portati in soffitta e lì erano rimasti. I raggi del sole che filtravano dai lucernari facevano brulicare la polvere tutt’attorno creando un’aurea quasi magica. Chissà cosa custodivano e perché il vecchio signore aveva aspettato tanto per darmi le chiavi… Era il momento di scoprirlo.
Aprii il fazzoletto e trovai tre antiche chiavi in ottone, di forme e dimensioni diverse. Sentivo una sorta di eccitazione, un misto di brividi, timore e curiosità. Ne infilai una nel baule più piccolo, girai ed era quella giusta. Una nuvola di polvere si sollevò come se avessi liberato uno spirito rinchiuso lì da infiniti anni. All’interno erano conservate centinaia di buste color crema. Ne presi una per leggere il destinatario, scritto ad inchiostro con una curata calligrafia: “Gentilissima Alda S.”. Lanciai un urlo e la gettai nel mucchio. Mia nonna!
Volai giù dalle scale, attraversai il soggiorno e uscii sperando che il mio vicino fosse ancora nei paraggi. Lo trovai seduto all’ombra del salice a fumare la pipa. Batté con la mano sull’erba invitandomi a sedermi accanto a lui. Ero incredula, spaventata. Avrei voluto fargli mille domande e non me ne veniva una. Avrei voluto sapere e non sapere, come quando arrivi alle ultime pagine di un giallo e non sai se te la senti di leggere il finale.
«Abitava qui» ruppe il silenzio Silvano dissolvendo ogni dubbio, come le nuvolette di fumo fuoriuscite dalla pipa. «Com’è possibile?» domandai con un filo di voce.
«Questo non lo so, l’ho scoperto qualche giorno fa, stavo raccontando a un vecchio amico che ti avevo venduto la casa. Ho pensato che fosse un’invenzione della sua mente ormai offuscata dagli anni, ma ubriaco e ostinato, prima di andarsene, mi aveva assicurato: è sua nipote!».
Non potevo crederci. Silvano mi disse che conosceva bene mia nonna e mi avrebbe raccontato quello che ricordava di lei, con calma, c’era tutto il tempo. Dentro di me esplose un turbinio di emozioni, come una vertigine ad alta quota, per fortuna ero seduta sul prato, inebriata dagli aromi di origano e salvia, per fortuna non ero sola di fronte a quella spiazzante scoperta.
Della mia nonna materna sapevo pochissimo, non l’avevo mai conosciuta e mia madre non ne parlava mai. Avevo visto solo un paio di foto, conservate in una scatola di cartone a fiori: in una posava accanto a un grande vaso di ceramica in abito scuro elegante nel giorno del suo matrimonio, con i capelli ondulati raccolti e la collana di perle, aveva uno sguardo serio e sognante; nell’altra correva in un campo di grano tra covoni di fieno, con una gonna lunga gonfiata dal vento. L’avevo sempre immaginata così, una contadina grintosa e felice nella sua campagna. Ma com’era veramente? Un’intensa curiosità accese un fuoco da tempo sopito, ora alimentato da i recenti avvenimenti.
Ringraziai Silvano, tornai in casa e mi lavai il viso con l’acqua fredda, cercando nello specchio qualche recondita somiglianza con la mia nonna. Forse il naso e il mento… notai voltandomi di profilo. Risali in soffitta in punta di piedi, quasi non volessi risvegliare vecchi spiriti addormentati. Il baule aperto scintillava sotto i raggi del sole, rovistai tra le buste che odoravano di carta consumata dal tempo, la calligrafia era la stessa su tutte e non era indicato il mittente. Ne aprii una ed estrassi la lettera: “Carissima Alda, regina del mio cuore”, la scorsi fino alla firma “Tuo Matteo”. Ne aprii un’altra e un’altra ancora, iniziavano e finivano tutte nello stesso modo. Mi sedetti a gambe incrociate e cominciai a leggere.
Erano lettere del nonno, malinconiche e pieni di sentimenti, scritte negli anni della Seconda guerra mondiale durante la prigionia in Russia. Il nonno ricordava alla moglie i bei momenti trascorsi insieme, prima che il loro sogno d’amore, appena sbocciato, fosse strappato dalla guerra. Ricordava la mamma, una bimba esuberante e gioiosa dai riccioli scuri e gli occhioni curiosi, i suoi salti dal muretto con una mano stretta in quella del nonno, le sue guance rosse mentre correva giù dalla collina e le sue manine cicciottelle che accarezzavano la lana morbida dell’agnellino appena nato. Ricordava i più piccoli dettagli di una vita semplice e felice, a cui restava aggrappato per non perdere la lucidità e la speranza nel terribile gelo e nella crudele alienazione della deportazione. E parlava della nonna, con la delicatezza e la passione più autentica. Finalmente attraverso i suoi occhi e le sue parole l’avrei conosciuta.Trascorsi lunghi pomeriggi autunnali in soffitta a leggere e immaginare, coinvolta a tal punto che le storie raccontate prendevano vita. La casa sul fiume era il collegamento con le mie radici, con un passato che tornava a galla e, soltanto adesso che lo stavo recuperando, mi rendevo conto di quanto ne avessi bisogno per ritrovare me stessa.
Trovai molte somiglianze con mia nonna: le piaceva sedere all’ombra del salice, proprio quello che era ancora lì in giardino, a scrivere poesie e a conversare con le vicine. Aiutava chi aveva bisogno con generoso altruismo e senso pratico, infondendo nei cuori dosi di buon umore. Adorava cucinare biscotti di pastafrolla, intonando canti alpini con intensa commozione; era metodica nelle sue abitudini, si svegliava presto la mattina, preparava con cura un’abbondante colazione per lei e la mamma, poi dava da mangiare agli animali, lasciando qua e là carezze ai cani, all’asina e alla micetta.
Anch’io sono così, un cuore impavido e sincero, in pace con me stessa solo in mezzo alla natura, sempre pronta ad aiutare gli altri, anch’io sento battiti d’ali nell’anima che trasformo in poesia, amo indossare lunghe gonne vaporose e portare la treccia morbida di lato proprio come il nonno scrive di lei. Camminando in giardino verso mezzogiorno, quando le cicale friniscono all’impazzata, mi sembra di vederla ancora lì, la mia nonna che alza una preghiera al cielo per il nonno e lascia cadere una lacrima quando ormai sa che non tornerà.
Silvano mi saluta al di là della recinzione, mi ha consegnato il mio passato, lo guardo affondare gli stivali nel fango e fischiettare un motivetto d’altri tempi. Mi unisco a lui, la mia nonna da lassù sorriderà. ●
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