Quando ero bambina mi capitò di frequentare per qualche estate una ragazzina sensibile e taciturna con cui facevo belle passeggiate in montagna con le nostre rispettive mamme.
Arianna era figlia unica (così mi aveva detto) e aspettava la compagnia mia e di mia sorella come manna dal cielo. Seppi poi da mia mamma che alla mia amica era morta anni prima la sorella maggiore, e che sua madre durante quelle escursioni ai rifugi non faceva altro che parlare della figlia scomparsa, citandone doti canore, esibizioni sportive e successi scolastici raggiunti nei suoi brevi 17 anni. Di Arianna invece, mai una parola, mai un merito sottolineato, un interesse dimostrato per quanto faceva. Quasi scontasse la colpa di esistere.
Non ho mai avuto il coraggio di chiedere alla mia compagna di giochi perché non mi avesse parlato della sorella, ho continuato a far finta di niente con quella leggerezza che tanto le mancava, cercando di riempire i pomeriggi assolati di noi due tredicenni con altre confidenze.
Vi racconto questo episodio perché leggendo la storia vera L’Intrusa, raccolta da Elena Vesnaver e pubblicata su Confidenze a pag. 32, ho rivisto nella protagonista Anna, la ragazzina che mi aveva fatto compagnia per un paio di estati in montagna.
Anche Anna soffre del senso di colpa di essere viva, mentre la sorella Daniela, coinvolta in un gravissimo incidente stradale, è rimasta disabile per anni e poi è mancata. Nel racconto Anna spiega come la madre non abbia mai accettato di aver perso la figlia preferita e l’abbia fatta sentire un’intrusa, una presenza marginale, che forse era meglio non ci fosse stata del tutto.
Non so come si può reagire davanti a una tragedia così grande, la morte di un figlio è sempre un fatto inaccettabile, ma credo che una chiave possa essere nella condivisione e mai nella negazione, dell’altro, di un affetto, di un dolore. Voi cosa ne pensate?
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