La storia più votata sulla pagina Facebook questa settimana è “La mia famiglia siete voi”, pubblicata sul n. 32. Ve la riproponiamo sul blog
Daniele e i nostri bimbi PELOSI mi hanno AIUTATA a vincere la BATTAGLIA contro il CANCRO. Con loro ho trovato il CORAGGIO di dare una SVOLTA al destino
Storia vera di Irene Salemi raccolta da Sabrina Bergamini
Verde è il colore della speranza, verde è il colore della mia rinascita. Verde come il prato che si distende davanti ai miei occhi. Da qui ricomincio. Da qui riparte la mia vita: dai colori del cielo e della terra dopo il nero della paura e l’ombra della morte.
Accade sempre alle altre, è questo che pensiamo tutte, ammettiamolo. O, almeno, è quello che pensavo io. Fino al giorno in cui dalla schiera invisibile delle donne sane sono passata all’altra. Sono diventata una tra le altre. Una malata.
Estate 2016. Isola d’Elba. Io e Daniele riposiamo dopo aver fatto l’amore, indugio a lungo tra le sue braccia senza trovare il coraggio di staccarmi e alzarmi. Quando lo faccio, lui mi trattiene per un braccio e mi attira di nuovo a sé. Ci guardiamo negli occhi per un lungo, interminabile, istante. Non abbiamo bisogno di parole. In questo momento, ne sono certa, ci attraversa la mente lo stesso identico pensiero, la stessa identica domanda: che sia la volta buona? Da mesi cerchiamo di avere un figlio, sarebbe bello tornare a casa in tre. Gli bacio la punta del naso prima di scivolare fuori dalle lenzuola e dirigermi verso il bagno. La casa è in penombra, ammantata di silenzio, fuori il sole scivola piano verso un mare calmo e piatto, i costumi appesi ad asciugare sono mossi da una brezza leggera. Mi infilo nella doccia e lascio che l’acqua tiepida scenda lungo il mio corpo abbronzato, sazio, placido. Ed è lì che lo sento. Ci passo sopra una volta, due volte. Spero di sbagliarmi, di non trovarlo. E invece non mi sbaglio, lo sento, lo trovo. Sotto i gesti sempre più nervosi della mia mano che inizia a tremare riconosco un nodulo sul lato esterno del seno destro. Buio.
Daniele mi rassicura, mi dice di non preoccuparmi anzitempo, ma dietro il suo sorriso di sempre trapela un’emozione che gli adombra il volto. La riconosco. È paura.
Decido di non perdere tempo e prenoto subito una visita dalla ginecologa che mi segue da sempre e della quale mi fido ciecamente. I pochi giorni di vacanza che ci restano scivolano via nell’attesa di sapere, cerchiamo di non pensarci… Ma non pensarci è impossibile.
La visita ginecologica conferma la presenza del nodulo e la dottoressa mi consiglia di fare immediatamente un’ecografia che naturalmente prenoto appena possibile.
Scorrono nella mia mente i fotogrammi di quel giorno di metà settembre che mi cambiò la vita: io e Daniele in sala d’aspetto, mano nella mano, poi io sotto il macchinario, spaventata.
Per quanto ci sono rimasta? Mi pare di aver calcolato quarantacinque minuti durante i quali nessuno mi ha rivolto la parola. Mi rivedo con un sorriso incerto sulle labbra mentre chiedo: «Devo preoccuparmi?».
La mia domanda deve attendere una settimana intera prima di ottenere risposta. La settimana più lunga della mia vita. La risposta arriva per mezzo di un medico dal volto serio e con i modi garbati, scrupoloso e attento, ma totalmente privo di tatto.
«Io una cosa così non l’ho mai vista» esordisce prima di allungarmi il referto su cui trovo scritto: “carcinoma invasivo”.
Quelle parole resteranno scalfite nella mia mente per sempre. Le risento ancora oggi, nitide, severe. Una condanna a morte. Mentre lui mi prescrive altri esami, io nemmeno lo ascolto più, ho solo il tempo di realizzare un pensiero prima di precipitare nel baratro della disperazione. Devo preoccuparmi, eccola la risposta che tanto attendevo. Eccome se devo preoccuparmi.
L’ago aspirato e la mammografia, esami che effettuo successivamente, confermano la diagnosi.
Torno dalla mia ginecologa con i referti sotto braccio e lei, solo allora, sbalordita davanti all’esito degli esami, mi confessa che non avrebbe mai immaginato che si trattasse di cancro.
Si toglie gli occhiali, si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, lo sguardo basso, rivolto a quei fogli che non vorrebbe avere davanti. Io la guardo, mi accorgo che ha una sottile ragnatela di rughe accanto agli occhi chiari. Occhi dolci, occhi di madre. Siamo invecchiate insieme. Ricordo la prima volta che sono entrata nel suo studio, quanti anni avrò avuto? 14, 15 anni. Un ciclo irregolare e doloroso, questo il motivo. Mi ha seguito tappa dopo tappa lungo il mio cammino di donna. Fino a qui.
Che sia questa l’ultima tappa, l’ultima fermata? È impossibile evitare di porsi la domanda. Alzo lo sguardo alla parete che mi sta di fronte. Sono appese le foto dei tanti bambini che ha aiutato a venire al mondo: tra quelle, immaginavo di vedere un giorno anche l’immagine di mio figlio. Sognavo un finale diverso, insomma.
«Vedrai che andrà tutto bene» mi dice la dottoressa riportandomi al presente. Allunga una mano verso la mia, la stringe forte. Le confesso di non essermi trovata a mio agio nell’ospedale dove ho effettuato gli esami e lei mi parla di un’altra struttura in cui lavora un’oncologa di chiara fama, allieva di Umberto Veronesi. Chiama lei stessa il reparto e mi fissa un appuntamento per la settimana seguente. L’impatto con la nuova struttura è estremamente positivo, a cominciare dall’infermiera che ci accoglie e si presenta come Angela. Sembra davvero un angelo caduto dal cielo con quel suo sorriso immenso, gli occhi buoni, i modi gentili, la voce soave che trasmette serenità.
L’oncologa è all’altezza delle aspettative: preparata, sicura di sé. Non si perde in futili giri di parole. Esclude di intervenire chirurgicamente in quanto la massa è già molto estesa e l’operazione sarebbe troppo invasiva anche sotto l’aspetto estetico. Quindi inizierò la cura con un ciclo di chemioterapia.
Aggiunge che dovrà interrompermi il ciclo per ben cinque anni poiché l’esame istologico ha evidenziato che il tipo di tumore di cui soffro è estremamente ghiotto di estrogeni. Il mio pensiero corre subito al sogno infranto di avere figli. Penso a Daniele, a quanto desidera diventare padre, mi chiedo se il nostro rapporto sarà più forte della tempesta che si è abbattuta sul nostro cammino.
Il terzo lunedì di ottobre inizio la chemioterapia. Ed è proprio questo a segnare il mio passaggio dalla schiera delle persone sane a quella delle persone malate. Divento una delle altre, una fra le tante. È uno scivolare improvviso e veloce, ancora non mi rendo conto, ancora non mi sembra del tutto reale. E mi pongo quella classica domanda che non ti dovresti fare e che invece ti sale dal profondo del cuore: perché proprio a me?
L’atmosfera in reparto è straordinariamente serena, nonostante tutto. Incontro solo sguardi sorridenti.
Mi sistemano in una poltrona, Daniele si siede accanto a me per tutta la durata dell’infusione. Nei suoi occhi leggo una tristezza sconfinata.
Anche per questo cerco di non crollare, di non lasciarmi andare al moto di rabbia e angoscia che mi invade l’anima.
E poi crollo. Crollo due settimane dopo davanti allo specchio con una ciocca di capelli che mi rimane tra le mani. Da anni ho optato per un taglio corto, comodo e pratico, ma vedersi calva è ben altra cosa. Corro immediatamente dal mio parrucchiere di fiducia. «Rasa a zero» ordino. Quando finisce, piangiamo insieme. Quelle lacrime, le prime che mi rigano il viso da quando è iniziato questo calvario, rompono una diga. Continuo a piangere per tutto il tragitto che mi divide dal negozio a casa. E continuo anche dopo. Unica testimone, Maya, la mia adorata Border collie. Lei, discreta, si adagia accanto a me, mi guarda con le orecchie basse. È un lusso che finora non mi sono concessa e che adesso mi prendo, con prepotenza. Stacco il telefono, non ci sono per nessuno tranne che per il mio dolore. Quelle lacrime sono un balsamo, una carezza. Persino salvifiche, forse. Perché mentre mi lascio andare alla disperazione, lentamente sento nascere dentro di me una forza nuova che non sospettavo neppure di avere. E insieme a quella forza, riscopro quel coraggio a cui ho dovuto fare appello molte volte nella mia vita. Come quando decisi di mettere fine al mio matrimonio. Non mi arresi a un’esistenza piatta e banale, a un rapporto in cui l’amore era stato sostituito dall’affetto, che si trascinava nell’abitudine e che presto o tardi si sarebbe trasformato in un piccolo inferno privato. È stata dura ricominciare da sola. Soprattutto con lo stipendio di una commessa part-time. Ma ci sono riuscita e il destino mi ha premiato facendomi incontrare poco dopo Daniele, un uomo meraviglioso di cui mi sono follemente innamorata.
A questo penso, mentre fuori scende lento il buio della sera e nel mio cuore si accendono la speranza e la voglia di non mollare.
Poco prima di Natale termina il primo ciclo di chemioterapia. Io e Daniele festeggiamo l’avvenimento con una cioccolata calda tra le vie del centro addobbate a festa. A gennaio inizio il secondo ciclo, più tosto del primo. Già dopo le prime sedute avverto forti effetti collaterali, gusto metallico in bocca, lingua intorpidita, gambe che diventano di piombo. I medici decidono di aumentare la dose di cortisone che assumo prima di ogni terapia e di diminuire la velocità di infusione della stessa, ma niente, i sintomi persistono e inducono l’oncologa a sospendere la chemio alla ottava seduta. Mi rimanda alla senologa. E qui sorpresa. Durante la visita, la dottoressa resta di stucco quando si accorge che i noduli alla palpazione sono praticamente impercettibili. A questo punto non resta che programmare l’intervento.
Il 21 marzo mi operano. Dopo quattro giorni di ricovero vengo dimessa. Esco dall’ospedale provata nel fisico, ma raggiante nell’anima: sono felice di aver estirpato il nemico dal mio corpo. Tre settimane più tardi ritiro l’esito dell’esame istologico: negativo. Le lacrime che bagnano il mio viso questa volta sono di pura gioia. Realizzo di aver vinto anche questa battaglia. A distanza di sette mesi esatti posso dire di essere guarita. Certo, il tempo trascorso è poco, ma basta per mettere un punto, per darmi il coraggio di guardare avanti.
Non sarò mai più la donna di prima. Ma questo non è necessariamente un male. La malattia ha fermato la mia corsa. Ho rinunciato al lavoro e ho avuto tempo per restare sola con me stessa, per chiedermi: la mia esistenza mi soddisfa pienamente?
La risposta è arrivata da sola, come quasi sempre accade. Durante la chemioterapia, nei giorni buoni, quando gli effetti collaterali erano meno invadenti, mettevo il collare a Maya e passeggiavamo a lungo. Iniziai a frequentare un centro cinofilo aperto da poco. Mi appassionai a quel mondo. Divenni amica della ragazza che lo aveva aperto e pensai di trasformare il mio amore per i cani in un lavoro. Daniele lo dice sempre: nei momenti di crisi si aprono nuove opportunità. Basta saperle cogliere.
Nel frattempo, un altro elemento si è aggiunto alla famiglia: Barto, un meraviglioso cucciolo di appena sei mesi che ha conquistato i nostri cuori ed è diventato il compagno di giochi per Maya.
Mentre scrivo, li guardo giocare attraverso la finestra. Daniele mi siede accanto, una mano sulla mia spalla. Non so se realizzerò mai il sogno di diventare madre. Non sempre puoi avere ciò che desideri. L’ultima parola spetta sempre a chi sta più in alto di noi. Ma non importa. Sono una donna fortunata, nonostante tutto. La mia famiglia sono loro. La mia cura. E io li amo da impazzire.
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