La mia metà

Cuore
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Ecco la storia più votata da voi lettrici per il n. 29: La mia metà di Barbara Benassi

Al liceo ero un ragazzo chiuso e solitario, ma l’arrivo di Ada in classe mi aiutò a farmi sentire meno disadattato. Diventammo amici e una volta finiti gli studi continuammo a vederci con la stessa assiduità fraterna. Finché qualcosa tra noi cambiò…

storia di David S. raccolta da Barbara Benassi

 

I miei ragazzi mi guardano attenti, in attesa che racconti. Da dove posso cominciare? Dalla noia e dal grigiore che durante quel terzo anno di liceo rischiavano di soffocarmi? Dal fatto che tutto quello che allora mi interessava, la matematica e le sue derivazioni, sembrava non aver alcun valore per i miei compagni?No. Comincerò da quando, una mattina come tante, durante la lezione di fisica entrò in classe “la nuova”.L’ora era appena iniziata, l’insegnante stava parlando di cinematica rotazionale quando, senza alcun preavviso, la bidella aprì la porta e spinse dentro una ragazza con una lunga gonna multicolore sotto la quale uscivano due stivaloni da mandriano e a tracolla un borsone zeppo come quello di un postino.

«Mi chiamo Ada, ho 17 anni» iniziò con un filo di voce quella visione variopinta davanti agli sguardi incuriositi di tutti noi. Disse qualche cosa che non riuscii a seguire, incantato com’ero dai suoi capelli lunghi un po’ arruffati e dal modo in cui muoveva le mani piccole da bambina che facevano tintinnare mille bracciali. Una volta finito il suo discorso, dopo aver alzato timidamente gli occhi sulla classe, per una frazione di secondo inciampò nel mio sguardo. Allora disperatamente le sorrisi e con la forza del pensiero cercai di attirarla a me, come una falena verso la luce. Con mio stupore lei sembrò sentirmi e in un turbinio di sottane si sedette al mio banco.

«David» la salutai, presentandomi con voce malferma, ancora incredulo.

La nostra amicizia iniziò così, tanti anni fa, una grigia mattina di ottobre, in cui tutto per me si tinse dei colori di Ada. Intuitiva, intelligente e con un approccio alla vita che ai miei occhi sembrava irragionevole e troppo istintivo, Ada compensava la razionalità, la logica e il bisogno di sapere tutto prima di muovere un passo che facevano di me un ragazzo controllato e inibito. Le differenze tra noi erano tali da scatenare la voglia di studiarci come due animali esotici e da non farci temere il giudizio dell’altro. Questo ci permetteva di aprire il nostro animo come non avevamo fatto mai con nessuno e rendeva la nostra amicizia una zona franca, un angolo di mondo dove posare il capo.

Io e lei passavamo ore a chiacchierare di tutto e di niente, del tempo, di progetti futuri, di come volevamo cambiare il mondo e di come invece il mondo aveva cambiato noi.

Lei era in fissa con suo padre. Non c’era niente da fare. Una sera che eravamo sdraiati sul letto di sua nonna, mi aveva confidato quanto le mancasse la sua famiglia di prima, prima che suo padre se ne andasse con una nuova moglie a fare un nuovo figlio. E da allora ritornava spesso sull’argomento, come per liberarsi da un peso che teneva nascosto dentro.

«Di lui non mi importa più nulla, comunque. Erano le insistenze di mia madre perché venisse a trovarmi a darmi più fastidio. Ma ora non mi importa più nemmeno di quello» rispondeva spavalda quando le stringevo la mano dispiaciuto.

Per il resto Ada era una ragazza solare ed energica che aveva ereditato da sua nonna il temperamento focoso e lo spirito caritatevole. Da sempre faceva volontariato, sognava di fare l’infermiera e regolarmente donava il sangue. Niente di più lontano da me.

Ero un ragazzo chiuso e solitario, ma Ada non mi faceva sentire il disadattato che ero sempre stato, uno da migliorare, bensì un regalo che la vita inspiegabilmente le aveva fatto. In lei il mio animo trovava asilo e mentre tentavamo di fumare le nostre prime sigarette, riuscivo a rivelarle, tossendo, il mio nuovo amore per la cibernetica e l’informatica e quello antico e profondo per mio fratello Guido, partito per lavorare lontano.

«Mi manca tantissimo, ma sono felice che stia bene adesso. Fin da piccoli lui era il mio gigante forzuto, quello che mi difendeva da tutti. Invece il giorno dell’incidente in moto, mentre lo portavo in ospedale mi sembrava così piccolo e vulnerabile. Non ci ho dormito per un mese, l’immagine di lui a terra in una pozza di sangue mi tormenta ancora la notte, anche se fortunatamente se l’è cavata con un’ingessatura e un bel po’ di punti sulla fronte».

 

Ada ascoltava in silenzio e mi stringeva a sé, buttando in alto il fumo. Mai in quegli anni tentai approcci diversi da abbracci e baci casti, ero troppo grato per il suo calore buono e anche certo di non rispondere ai suoi canoni. Ero alto, robusto, con capelli tagliati corti e sempre vestito in modo molto convenzionale mentre lei prediligeva artistoidi trasandati, apparentemente tisici, dai capelli biondicci e già sulla trentina che la deludevano puntualmente.

«Mi piacciono belli e dannati» piagnucolava sulla mia spalla, anche se in quei tipi io non riuscivo a vedere tutta questa bellezza e dannazione, ma solo sciatteria e artificiosità.

«Meriti il meglio, Ada. Eccomi in ginocchio da te» pontificavo ridendo per strapparle un sorriso.

In effetti ironizzavamo su tutto e per gioco arrivammo a prometterci che se a 30 anni fossimo stati ancora soli ci saremmo sposati e avremmo cercato di prenderci cura l’uno dell’altra.

Dopo la maturità io entrai a Ingegneria mentre Ada a Scienze infermieristiche, come aveva sempre desiderato. Anche se non eravamo più nella stessa classe, le cose non cambiarono di molto.

Lei una volta al mese veniva a trovarmi nell’appartamento dove vivevo, una camera piccolissima, mi cucinava pasta al pomodoro, la mia preferita, e mi tagliava i capelli quasi sempre come un vero barbiere, a parte una volta in cui le scappò la mano e mi rasò come un monaco buddista.

Una volta finiti gli studi, dopo che trovai lavoro in una grande società e Ada entrò come infermiera presso un’associazione di donatori di sangue, continuammo a vederci con la stessa assiduità fraterna. Non eravamo cambiati di una virgola, io sempre quadrato e studioso mentre lei, esplosiva, generosa e contagiosa, danzava sulla vita con i suoi mille bracciali.

Con la sua foga era riuscita a coinvolgermi nelle sue scorribande di volontariato, ma quando pretendeva che donassi il sangue, le davo filo da torcere. Trovavo sempre il modo di svicolare, impallidivo e immancabilmente cambiavo discorso. Solo una volta mi lasciai convincere e fu anche l’ultima. Alla sola vista del mio sangue mi sentii mancare, un magma denso mi annebbiò la vista e infine precipitai nel nulla.

«Mi dispiace davvero, per me è una cosa talmente naturale che non pensavo potesse crearti dei problemi così importanti».

«È dall’incidente di mio fratello, da quel giorno mi è rimasta addosso questa fobia».

Archiviammo così la faccenda della donazione e continuammo a essere ciò che eravamo sempre stati, una coppia di amici inseparabili che bastava a se stessa. Fino al giorno in cui Ada mi telefonò con un tono insolito nella voce.

«Ho conosciuto una persona».

«Una persona? Chi, dove?».

«Walter, un professore dell’Accademia d’Arte. È venuto all’associazione, è un donatore oltre che un uomo affascinante e fuori dagli schemi».

Sul momento feci buon viso a cattivo gioco, ma questa notizia mi si piantò come un vetro nel petto e col tempo sprigionò un dolore sordo che cercai di attutire guardandomi intorno e scovando Gisella, una mia collega, che aveva molti aspetti in comune con me. Visto che le donne francamente non le avevo mai capite, se giocavo su un terreno conosciuto potevo avere più possibilità di non sbagliare e in effetti dopo il primo mese ero pronto ad annunciare a Ada che anch’io avevo una frequentazione.

«Chi è?» mi domandò con impeto.

«Non la conosci, dipartimento di Ingegneria meccanica. Mi piace molto».

«La voglio incontrare allora» ordinò senza darmi la possibilità di ribattere. Organizzammo una cena per le presentazioni, io con Gisella e lei con il suo professore. Malgrado la buona volontà però la serata non fu delle migliori, l’aria si tagliava con il coltello e per questo nessuno riuscì a essere spontaneo e a godersi il buon cibo. Così, snervati ed esausti ci sbrigammo a finire in fretta e furia quell’evento da dimenticare e ce ne andammo a casa.

 

 

 

Da allora durante le nostre chiacchierate evitammo sempre di parlare dei nostri compagni, ma una sera Ada mi chiamò singhiozzante e affranta.

«Mi ha ingannata, ha un’altra ragazza, li ho visti, si baciavano! Io però gli ho spaccato il vetro della macchina» confessò.

«Arrivo» urlai nella cornetta.

Quella notte bevemmo troppo, soprattutto io che non reggevo nemmeno l’aceto nell’insalata, mentre Ada pianse, cantò e urlò moltissimo.

«Nessun uomo mi vuole! Come posso pretenderlo se nemmeno mio padre mi ha voluta? Ma che cos’ho che non va?» continuava.

«Tu non hai niente. Smettila».

«Sì sono brutta, bruttissima e insignificante».

Ricordo che misi su della musica, il ritmo sembrava attenuare il suo dolore, così ci mettemmo a ballare come due invasati fino a quando non cademmo a terra esausti. In quel momento tutto si fermò. Lei era lì di fronte a me, con quegli occhi neri e puliti che chiedeva di essere salvata, tanto che d’istinto la attirai a me e la baciai. Fu un bacio che durò il tempo di un respiro, tiepido e delicato, ma che squarciò il velo dei miei sentimenti e mi lasciò un calore nelle ossa che non avrei più potuto dimenticare. Quando riaprimmo gli occhi rimanemmo un attimo confusi a guardarci per capire cosa fare, ma tale era la portata di quel contatto che ci limitammo a sorridere per poi addormentarci abbracciati sul tappeto.

La mattina ci svegliammo entrambi inebetiti e storditi, ma certi di aver passato un limite.

Da quella sera fingere che non fosse successo nulla fu molto difficile, se non impossibile, ma riprendemmo la nostra vita di sempre.

«Lascialo, per l’amor del cielo. Il professore ti ha presa in giro fino a ieri» mi spingevo a dirle senza insistere per non sembrare troppo invadente.

Ada era evasiva, non mi confermava nulla, diceva sì sì tranquillo, so badare a me stessa…Anche se sapevo che odiava gli abbandoni e che in fondo sarebbero bastate alcune promesse futili per dissuaderla a dargli il benservito.

Infatti una sera, dopo che mi aveva chiesto delle mie vacanze in Spagna con Gisella, con una naturalezza esasperante se ne uscì dicendo che avrebbe trascorso il fine settimana nella casa al mare del professore, dato che lui aveva giurato di amare solo lei e di voler porre fine a un rapporto morto da tempo.

«Stai attenta perché se non l’ha ancora lasciata ho seri dubbi che lo faccia» dissi, consapevole di parlare al vento.

«David, non ti preoccupare, tu piuttosto pensa alla tua ingegnera».

Sul momento mi sembrò di non aver capito, ma il tono di Ada era inequivocabilmente stizzito e di sfida. Allora presi fiato e cominciai a inveire. Iniziai da cose tipo «quell’uomo se ne approfitta delle tua ingenuità», passai poi a «meglio se non ci sentiamo per un po’ se devi fare così» e conclusi con «sì la mia ingegnera, almeno lei, è una persona equilibrata e stabile».

Da allora ci fu una sorta di orribile silenzio radio tra noi durante il quale, oltre a pentirmi per il mio sproloquio, cercai di trovare una soluzione a quell’equazione complessa che era diventato il nostro rapporto, troppo pieno di variabili. Il professore, Gisella, Ada e quel bacio che aveva lasciato un segno profondo nelle mie nostalgie. Alla fine non c’erano molti calcoli da fare, il risultato era chiaro e ineludibile, come d’altronde non era da meno la paura di perdere la mia amica per sempre. Così, paralizzato in un ristagno emotivo che arrivò ad anestetizzarmi, riuscii a sopportare la lontananza di Ada senza affogare nella disperazione.

Almeno fino alla telefonata di sua nonna che ricevetti una domenica di primavera. «È disperata David, devi fare qualcosa. Non è più lei. Piange mangiata dalla malinconia. Tu la conosci, sai come prenderla».

Sua nonna era l’unica che sembrava aver capito molto di noi, molto più di quanto noi stessi avremmo mai ammesso e dopo aver riagganciato con lei mi strappai di dosso ogni timore e mi preparai a raggiungere Ada al lavoro.

 

Il centro donazioni era deserto e appena entrai mi venne incontro un’infermiera che non era Ada e alla quale diedi il mio nome. Lei lo spuntò da una lunga lista e, prima di sparire dietro un separé, mi fece accomodare su una poltrona.

«David…ciao» mi salutò Ada entrando nel salottino con un sorriso impacciato. «Ho letto il tuo nome tra i donatori, sei davvero tu… se volevi notizie potevi chiamare. L’ho lasciato, non lo voglio vedere mai più, tranquillo».

«No, voglio donare, ho deciso. L’hai lasciato?».

«Si farà la sua famiglia, come tutti: mio padre, il professore e anche tu».

«No, io no, tesoro. Dai, avanti fammi il prelievo!».

«Come no?» domandò mentre infilava l’ago con mano ferma.

«L’ingegnera se n’è andata perché ha capito che io volevo solo una matta come te, perché è di te che sono innamorato e lei non avrebbe mai potuto prendere il tuo posto» risposi con gli occhi chiusi, tentando di scacciare le immagini di mio fratello coperto di sangue, dei rivoli rossi che scivolavano sul selciato e del panico che odorava di ferro e mi scioglieva la mente.

Ada rimase in silenzio, sentivo solo che armeggiava con le provette. «Ora devo farti vedere una cosa, David» annunciò solo dopo aver estratto l’ago dal mio braccio. In un attimo sparì e poi tornò reggendo un quadro tra le mani.

«Un quadro del tuo professore?» riuscii a domandare, ancora con la testa in un vortice.

«Sì, un mio ritratto, nella mia completezza» rispose Ada, girando la tela che ritraeva me e lei sorridenti e sciolti in un abbraccio di colori a olio.

«Fin da quella famosa cena aveva visto attraverso l’occhio dell’artista che legge l’invisibile, che eri tu la mia metà. Così mi ha detto quando mi ha lasciato il dipinto e aveva ragione. Tu sei il mio eroe. Grazie per la donazione, amore mio».

Ada si avvicinò e prima di togliermi il laccio emostatico e mettermi una caramella in bocca, mi baciò sulle labbra, strappandomi dagli spettri del passato.

Da allora siamo rimasti insieme fino a oggi. I miei ragazzi applaudono e indicano il quadro appeso alla parete del salone. Non si stancano mai di ascoltare questa storia. Il racconto di un amore che ha mantenuto viva dentro di sé l’amicizia, che ha saputo superare paure, differenze, giudizi e che ha trasformato Ada e me nella loro mamma e nel loro papà.

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articolo pubblicato su Confidenze n. 29 2023

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