Ti capita mai di sentirti esclusa? Alla domanda (e titolo di un articolo su Confidenze in edicola adesso) mi piacerebbe rispondere che non so neanche cosa significhi. Invece, non solo mi è successo, ma mi ha anche fatto rimanere di m…a. Perché è inutile raccontarsela: vedere gli altri tanto affiatati quanto dimentichi di te è bruttissimo.
Secondo la life coach intervistata nel pezzo, di solito capita alle persone introverse e con vissuti di non accettazione in ambito famigliare. Mentre a mio parere, notoriamente socievole e con trascorsi in cui mi sono sentita assolutamente amata, è una spada di Damocle che incombe su chiunque. Nella vita privata e in quella professionale.
Sul lavoro penso che la situazione non sia particolarmente dolorosa, visto che i colleghi non te li scegli. Quindi, scoprire che non hanno voglia di coinvolgerti è antipatico, ma c’è di peggio. Certo, educazione e una minima di delicatezza potrebbero spingerli a uno sforzetto per farti sentire parte del gruppo. Ma se prevale la loro voglia di emarginarti, pazienza. La tua vita in ufficio sarà meno cordiale, però puoi sopravvivere lo stesso.
Un disastro clamoroso, invece, è quando non vieni considerata dagli amici. Cosa che può purtroppo verificarsi, soprattutto nelle compagnie di lunga data. L’altalenanza degli umori dettata da frequentazioni assidue, infatti, avvicina e allontana le persone come se si stesse giocando con uno yoyo.
A essere sincera io non ho mai avuto una vera e propria combriccola, di quelle che da sempre organizzano cene, gite e vacanze di gruppo e che hanno cresciuto i figli insieme. Al contrario, ho un simpatico (e fidatissimo) clan di amiche “indipendenti” (alcune dai tempi della scuola), che sono i miei punti di riferimento. Dopodiché, ci sono nuclei di gente assolutamente adorabile con cui ci vediamo più o meno spesso, a seconda dei periodi e degli eventi. Cioè, senza mai perderci, ma neppure soffocarci.
Sono infatti convinta che trasformare i rapporti di amicizia in legami quasi parentali sia un modo drammaticamente infallibile per creare le tipiche tensioni delle convivenze e la famosa smania di parlare male degli assenti.
Non solo: penso che frequentazioni troppo strette portino anche a una sorta di claustrofobia sociale, che rende difficile l’organizzazione della mondanità.
Faccio un esempio: un invito a cena in un clan chiuso significa mettere intorno alla tavola tutti quelli che lo compongono, altrimenti qualcuno si offende. Oppure, dare il via a un giro di telefonate (scorrettissime) per fare in modo che l’escluso di turno non venga a sapere di esserlo.
In teoria, per risolvere problematiche di questo genere ci sarebbe la bella soluzione di una grande festa, dove buttare dentro tutti con un doppio effetto: rendi ogni amico felice perché è stato invitato. E il party bellissimo, visto che più c’è gente e più ci si diverte.
Peccato che nella pratica non sempre le cose funzioni così. Tant’è che una delle volte in cui mi sono sentita più esclusa, è stato proprio in concomitanza di una festa. Ed ecco a voi i (patetici) fatti: qualche anno fa, durante la settimana bianca, sentivo che in tante parlavano con insistenza di mises eleganti da sfoggiare in un’occasione che mi sfuggiva. E qualche sera dopo, al consueto appuntamento serale con il cinema, ci siamo ritrovate solo in due, perché le altre erano partite alla volta di Milano per il compleanno di una “nostra amica”.
Così, avvilite e umiliate, noi Cenerentole ci siamo viste il film, ancora ignare del fatto che al danno si sarebbe aggiunta la beffa. Sì, perché il giorno successivo, pur sfatte dal viaggio montagna-Milano-montagna e dalle danze sfrenate, di nuovo sulle piste le garrule invitate erano ansiose di rivivere a parole la splendida festa.
E noi, come sfigatissime Cerenetole, abbiamo ascoltato tutti i dettagli con un’unica consolazione: a rimbalzare eravamo state in due. E per fortuna, perché una da sola non ce l’avrebbe mai fatta a reggere l’oltraggio.
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