Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 44 di Confidenze
Sono di origini africane e affetta da albinismo. Fin da piccola ho sofferto per gli sguardi cattivi degli altri. È stato un percorso lungo e doloroso, ma oggi sono orgogliosa del mio aspetto e voglio essere un esempio per tutti i cosiddetti diversi
STORIA VERA DI OXANA LIKPA RACCOLTA DA MARCO BERGAMASCHI
Ho capito molto presto di essere una persona diversa. Era sufficiente uscire di casa e la gente mi guardava. Alcune volte i loro sguardi erano pieni di curiosità, altre strabordavano di incredulità. Abitavo con i miei genitori, originari della Costa D’Avorio, in un paese in provincia di Lecco: i miei tratti somatici erano africani proprio come i loro, ma la mia pelle era bianca, i capelli color dell’oro e l’iride verde. Se nascere affetti da albinismo significa avere quasi sempre gli occhi puntati addosso, nascere africani e affetti da albinismo significa non poter andare in giro senza sentirsi costantemente fissati. Ecco, io questa realtà l’ho imparata da subito.
All’asilo i bimbi mi chiamavano “la bambina color latte”, oppure mi dicevano che il mio colore era quello di un foglio di carta.
Alle scuole elementari ho avuto piena consapevolezza della mia condizione: il primo giorno sono salita sul pulmino che mi avrebbe accompagnata a scuola e i bimbi che erano già a bordo sono scoppiati a ridere. Mi sono seduta dietro all’autista, dando loro le spalle per non essere vista, e ho pianto in silenzio con l’unico desiderio di diventare invisibile.
Non ho un bel ricordo di quegli anni: mi sedevo al banco e cercavo di muovermi il meno possibile per non farmi notare. A un certo punto i professori, invece di chiedersi il motivo di quell’atteggiamento, hanno cominciato a etichettarmi come bambina problematica. Così ogni settimana uscivo dall’aula per incontrare una psicologa che mi faceva le domande più strambe. Io non rispondevo mai, mi vergognavo di dire che venivo derisa per il mio aspetto. Alle scuole medie la situazione è peggiorata: oltre alle solite battute dei compagni di classe, venivo separata da loro per ricevere ulteriori lezioni. Facevo di tutto per litigare con l’insegnante di sostegno.
Avevo la sensazione di essere considerata una persona diversamente abile e mi arrabbiavo. Pensavo che il colore della mia pelle, la difficoltà a vedere con chiarezza la lavagna e l’imbarazzo costante per gli sguardi dei compagni non fossero sufficienti per essere bollata come ragazzina disabile. Ma non avevo il coraggio di gridarlo al mondo.
Non ho mai avuto la forza di parlarne con i miei genitori; loro erano impegnati a far quadrare il bilancio e non pensavano che potessi avere bisogno di aiuto. Non c’erano, ma non per cattiveria o disinteresse, semplicemente perché erano occupati e perché io non trovavo il coraggio di dire loro che cosa mi succedeva.
Finite le medie, i professori hanno consigliato alla mia famiglia di iscrivermi a un istituto alberghiero. In un tema avevo raccontato che mi piaceva cucinare e apparecchiare la tavola. Era una passione, ma se si parlava di lavoro, io sognavo un lavoro d’ufficio. Mi ricordo che a tutti i miei compagni era stato chiesto che cosa volessero fare da grandi; a me nessuno l’ha domandato. Ho tentato di oppormi, poi, per non far preoccupare nessuno, ho acconsentito con la morte nel cuore. Il primo giorno ho scoperto che ero stata inserita in una classe formata da ragazzi diversamente abili, parallela al classico percorso triennale. Ancora una volta ero additata come disabile. Ho frequentato i successivi tre anni come se fossi in apnea, concentrata a non sentire il mio dolore e promettendo a me stessa che, una volta terminato il percorso scolastico, avrei frequentato un’altra scuola per poter lavorare in ufficio.
E così ho fatto. Mi sono iscritta a un corso serale per conseguire il diploma in Amministrazione, Finanza e Marketing. Ma non avevo fatto i conti con le mie fragilità.
Per la prima volta mi sono ritrovata in un contesto dove, a parte il solito stupore iniziale per il mio aspetto, sono stata trattata come persona normale. Così ho avuto il terrore di non farcela, di fallire e dopo un paio di mesi ho abbandonato. L’anno successivo ci ho riprovato perché le mie incertezze non dovevano avere la meglio. Ma di nuovo la paura del fallimento e di essere inferiore agli altri si è insinuata dentro di me e per la seconda volta ho lasciato la scuola.
È stata una sconfitta enorme. Sentivo di non valere niente e di non essere in grado di affrontare la vita. Nel frattempo il mio corpo si era trasformato in quello di una giovane donna alta che non passava inosservata. Per tutti ero un’attrazione. Sapevo di essere diversa, ma la gente mi faceva sentire ancora più diversa. Le delusioni del passato mi avevano cucito addosso un vestito di fragilità e vulnerabilità che pesava come un macigno.
Confusa e tormentata da mille pensieri, ho accettato l’invito di alcuni parenti che mi chiedevano di raggiungerli in Svezia dove vivevano da qualche anno. Sono partita con la consapevolezza di scappare da me stessa, ma con la speranza di ritrovarmi. Ho vissuto sei mesi cullata dagli alberi e dal vento, anche quando le vecchie cicatrici si riaprivano e facevano male.
Lì però ho capito che una difficoltà è tale solo quando le permettiamo di bloccarci e che può essere comodo utilizzarla come alibi per non rischiare e continuare a piangersi addosso. Ho compreso che l’albinismo non è una malattia di cui vergognarsi, ma una caratteristica genetica e niente di più: essere diversi e non omologati rappresenta una ricchezza, anche se per troppo tempo avevo permesso agli altri di convincermi del contrario. Potevo avere un aspetto inconsueto e problemi di vista, ma non dovevo più permettere a nessuno di interferire con la mia felicità. Sono rientrata in Italia con nuove consapevolezze e la vita ha risposto al mio cambiamento. Una mattina, una signora mi ha fermata per strada e mi ha detto: «Sono una fotografa, mi piacerebbe scattarti qualche ritratto».
Ho accettato. L’ho fatto per me e per tutti quelli che hanno vissuto e vivono ai margini perché diversi e che convivono con insicurezza, bassa autostima e difficoltà a esprimere le proprie emozioni. Dopo le prime foto è arrivata la proposta di un altro fotografo e poi di un terzo. Il mio aspetto “esotico” incuriosiva, ma io sapevo che attraverso la mia immagine potevo diventare un piccolo esempio di forza e di coraggio per i diversi che faticavano a essere felici. Così ho dato inizio al mio percorso di rivalsa personale e non posso che essere felice. Ho accettato di diventare la testimonial di Focus, un’associazione che si occupa di disabilità in Africa e ho aperto una pagina Instagram dove ogni giorno ricevo decine di messaggi: a tutti rispondo di non mollare e soprattutto di cominciare a volersi bene perché se non si parte da quello, la strada sarà sempre in salita.
Per anni ho pensato di essere nata sotto una cattiva stella, ma mi sbagliavo. Dovevo solo imparare a guardare il cielo in maniera diversa.
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