La Scordanza (Rizzoli) è il titolo del romanzo di Dora Albanese, dal nome del ruscello che le donne e altre anime in pena attraversano dopo la morte, per dimenticare ogni dolore.
Un piccolo Lete domestico che scorre nell’immaginario di Muggera, un piccolo paese lucano. Siamo negli anni ’80, ma la vita di Caterina non è molto diversa da quella delle sue bisnonne. La sua strada è segnata, è umiliante, senza gioia. Fa l’operaia, tira su due figli, uno, Eustachio, grandicello e l’altro attaccato al seno. È bella, e questo basta perché il marito Antonio la picchi tutti i giorni, per abitudine e brutalità e forse per amore, un amore che sa esprimersi solo distruggendola.
Caterina è obbediente, Caterina è insofferente, Caterina odia tutto della sua vita, eppure ama i figli, ma vorrebbe essere libera, magari morendo.
Quando sentono avvicinarsi la fine, le donne del paese vanno da una sarta che cuce una gonna con uno spacco che consentirà loro di attraversare agilmente il ruscello della Scordanza. E Caterina pensa sempre a quello: la libertà dalla vita senza luce alla quale è condannata. Se avesse studiato, sarebbe diventata forse un poeta pessimista, di quelli che si suicidano. Ma è una donna senza strumenti, e va incontro ciecamente alla sua “catastrofe interiore”. Resta affascinata da un uomo più disperato di suo marito, forse anche più brutale, uno sperduto senza patria, colmo di rancore, che la disprezza perché tradisce il marito con lui. Caterina è talmente dalla parte della propria disfatta da coinvolgere il bambino più grande, Eustachio, nelle visite clandestine al suo cupo amante. Finché sparisce di casa per andare a stare nella spelonca dell’uomo, lasciando al figlio il peso di un segreto, (che il piccolo ha l’eroismo di non rivelare).
Tutto nella narrazione suggerisce la tragedia- gira tanto di quell’odio, e girano pistole, lacci, pugnali, ti aspetti il morto da un momento all’altro, e anche per questo il libro è straordinariamente bello: le soluzioni sono altre. È già una tale tragedia la vita di Caterina, e quella del figlio, del marito, di sua madre Eufemia (meraviglioso personaggio letterario), che non c’è bisogno del sangue.
Al festival di Cannes, invece di ripetere l’ennesima lamentela delle dive contro Weinstein, sarebbe stato meglio leggere una pagina del libro perfetto di Dora Albanese che parla del dolore delle donne, della loro vita che nei secoli è stupro continuo della personalità, rischio costante d’essere uccise impunemente, soppressione dei talenti, obbligo d’ignoranza, sfruttamento senza vergogna, silenzio.
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