Una volta, da giovane, sfiorai l’anoressia. Non diventò una malattia perché non ne parlai mai con nessuno. Se no, addio libero esperimento. Non avevo bisogno di aiuto, ma solo di fare come volevo, senza ostacoli. Senza spiegazioni.
L’anoressia è una delle grandi utopie umane, come il volo. La pretesa di ignorare il corpo, di superarlo. Diventare anima. In quel mio tentativo capìi che nell’anoressia non c’è solo il corteggiare la morte, ma anche la sfida, la testardaggine e un eroismo occulto.
Prima dell’equivoca abbondanza consumista, i giovani ribelli scrivevano versi, cospiravano, scappavano di casa. Ma oggi che tutto accade in rete, morta la passione, l’anoressico si configura come un eroe della passività. I più diabolicamente orgogliosi non si ribellano in corteo ma in astinenza, nel gesto anarchico per eccellenza: il rifiuto.
Niente entra nel mio corpo. Non voglio essere al mondo. Mi ci hanno messo, ma io non voglio. Non mangio, dunque non sono. E non siete neppure voi, perché vi odio, dal primo all’ultimo.
Anoressico come eremita. L’anoressia è un chiamarsi fuori totale, come il romitaggio. Solo che l’eremita è indipendente, mentre l’anoressico si consegna alla più indiscreta delle investigazioni, quella sullo stomaco.
Anoressia come ricatto. L’anoressico pratica il ricatto più sottile, quello dell’assenza. Diventa il centro del mondo. Tiene in sospeso parenti, amici, dottori. Sentimento di onnipotenza. L’anoressia è il suicidio più offensivo per chi ci vuole bene. Nessun caso è uguale a un altro, ma sempre giova, per uscirne, il grande rimedio naturale: un interesse (arte? amore?) che riporti all’anima chi all’anima tende.
Anoressia come droga. L’anoressico autorizza i familiari a controllarlo. Come il drogato esprime, in contrasto con l’istinto di fuga, un disperato bisogno di tutela, E come il drogato va dritto alla morte.
Anoressia come passione. L’anoressico è dalla parte della sua malattia. La ama. Vizio travolgente, sfregio sprezzante. L’estasi del vomito! Si sputa sul piatto del mondo.
«Io mia figlia l’ho guarita a mazzate», mi disse un’amica. Non che avesse mai alzato le mani su di lei: ma faceva finta che il suo rifiuto del cibo non fosse il centro straziante della sua vita. Un braccio di ferro muto che durò un anno. E poco a poco la ragazza tornò a mangiare, e riprese colore, e appetito, e accettò di vivere.
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