“Le favole si raccontano solo di notte” di Margherita Lai, pubblicata sul n. 8 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Lo diceva sempre madre Rehalia a Imam, la mia bambina, prima che si addormentasse. Anche la sua vita sembra frutto della fantasia, invece è lo specchio di una società arcaica che mi auguro sia finita con lei
Storia vera di Kaltoum E. raccolta da Margherita Lai
Il giorno del matrimonio era stata festa grande, ad Ait Rehal, nella ex provincia del Guelmin Es Smara, in Marocco. Elkbira, “colei che è grande” aveva allora, secondo i calcoli del padre, all’incirca sedici anni. Il rito si era svolto secondo la tradizione, con il bagno rituale all’Hammam il giorno della vigilia, coccolata e festeggiata dalle amiche e dalle parenti di sesso femminile e resa splendida nel corpo dai tatuaggi di henné e i massaggi con oli profumati. A casa, canti allegri e brocche di latte fresco e datteri succulenti, avevano suggellato la magnifica giornata. All’appuntamento con lo sposo, Elkbira si presentò con un abito color panna, ornato in vita da una trina di pizzo e un ricamo d’oro e dopo quello, ne indossò altri sei. Si festeggiò a lungo a casa prima della sposa, e poi dello sposo e dopo sette giorni, Elkbira, indossata una fascia intorno alle spalle, la riempì con mandorle, arachidi e fichi secchi, che donò ai bambini del villaggio.
Era un rito propiziatorio di fecondità quello, ma né l’adesione alla tradizione, né i numerosi tatuaggi, tra cui uno tra le sopracciglia, uno sul mento e numerosi sulle mani e le caviglie, le ottennero la grazia di una maternità.
Il marito, pronunciò per tre volte, in tre mesi, le parole «Io ti ripudio», e al termine le consegnò una piccola somma a titolo di liquidazione e la salutò per sempre. Nel frattempo, i suoi genitori erano entrambi deceduti e nella loro casa ci abitava l’unica sorella, e tra le due non correva buon sangue. Sapeva di avere poco tempo e si rivolse in fretta a un mediatore per trovare un altro marito; l’alternativa, sarebbe stata andare come serva nella casa di qualche benestante, vivendo di umiliazioni e sacrificio, per poi terminare la sua vita senza soldi e senza un tetto.
«Elkbira» le disse il mediatore, «mi chiedi l’impossibile.Ti sei fatta vecchia e il tuo ventre non può produrre frutti, chi mai ti prenderebbe? Non hai quella bellezza appariscente che farebbe innamorare anche i sassi». Alla fine, un vedovo con dieci figli, la sposò. Lui non amava lei e lei non amava lui, ma entrambi ottennero ciò che volevano: lui qualcuno che badasse alla sua famiglia e lei, la possibilità di essere madre e di vivere al sicuro.
Era il 1970 e lei aveva venticinque anni quando arrivò nella sua nuova casa, a El Borouj, nella provincia di Settat, tra Casablanca e Marrakech. Una dimora enorme, fatta a ferro di cavallo intorno a un cortile bruciato dal sole d’estate e allagato dalle piogge d’inverno.
Vi trovò i figli più grandi del marito, che vivevano lì con le loro mogli, alcuni adolescenti e un bambino, Mustafà, di dieci anni. Fu l’unico, insieme al primogenito Abdullah e a sua moglie Rachida, ad accoglierla e ad amarla. Gli unici che da subito e per sempre la chiamarono “madre”. Tutti gli altri, e con loro le rispettive famiglie, decisero di esserle ostili, poiché, non essendo una consanguinea, non rappresentava per loro nessuno.
Io, Kaltoum (l’Alto), la conobbi che avevo diciassette anni, quando andai in sposa a Mustafà e mi trasferii insieme a lui nella grande casa con le stanze una dentro l’altra. Noi avevamo precorso i tempi e, in totale disaccordo con le usanze, ci eravamo piaciuti e dopo una breve frequentazione, sposati.
Vengo anch’io da El Borouj, la mia famiglia, però, viveva allora a Souk Sebt Ouled Nemma, una piccola città non molto distante, dove ci eravamo trasferiti alla ricerca di condizioni di vita migliori. Ero la penultima dei figli dei miei genitori, ma prima di me erano morti sei fratellini, appena nati o in tenerissima età e anch’io non sembravo godere di buona salute, motivo per cui, mio padre attese dei mesi prima di registrarmi all’anagrafe. Sopravvissi e questo fece sì che in casa fossi da tutti considerata come un piccolo miracolo. Il mio adorato padre mi soprannominò “Stella d’Oriente”, perché come Sirio, la stella più luminosa visibile dalla terra, con la mia luce ero venuta a illuminare la sua casa, dopo il lungo buio che mi aveva preceduta.
Tutta la mia famiglia mi ha amata moltissimo e, per evitare che mi stancassi, venivo sempre sollevata dall’adempiere ai lavori di casa.
Così, quando arrivai nella dimora dei miei suoceri ero totalmente digiuna della gestione domestica.
Le mie cognate, non mi accolsero bene, anzi. Appresi subito, con brutalità, che in casa vigeva un sistema di regole molto rigido e le donne, un giorno ciascuna a turno, dovevano pulire la casa e il cortile, preparare per tutti i tre pasti quotidiani, mungere le mucche, fare il pane e cuocerlo.
Io non avevo mai fatto nessuna di quelle cose e il mio primo turno, casualmente, fu proprio il giorno seguente; la sveglia era puntata alle quattro.
Dopo una notte insonne, mi recai in cucina disperata, pensando seriamente di far ritorno a casa dei miei. Ma seduta, con il tè alla menta caldo pronto sul tavolo, trovai Elkbira.
«Io ti aiuto, se vuoi» mi disse, e mi insegnò a svolgere le faccende di casa in modo da non irritare nessuna delle mie cognate, a preparare i pasti accontentando anche i più esigenti, a fare il pane e a condirlo con l’olio. Tutto questo lo fece sempre con discrezione e dolcezza, tanto che passarono solo pochi giorni perché anch’io iniziassi a chiamarla “madre”.
Intanto, mio cognato Abdullah era emigrato in Italia per provare a offrire ai figli un futuro migliore di quello che si prospettava lì, e mio marito lo seguì per un periodo, in modo da tastare il terreno. Vissi giorni tremendi, attaccata quotidianamente dalle cognate e dai cognati, ai quali non rispondevo mai perché educata a non alzare la testa di fronte alla famiglia di mio marito.
Mia suocera, priva della protezione dei figli che più l’amavano, era vittima della violenza verbale, e purtroppo anche fisica, del marito che non perdeva occasione di denigrarla.
In quel periodo lui conobbe un’altra donna, la sposò e la portò a casa senza neanche avvisare, per sfregio, causando a Elkbira un dolore infinito. Ora, per fortuna, dopo la riforma del diritto di famiglia del 2004, la donna può porre il veto alla poligamia, evitando di trovarsi con sorprese come quella.
I compiti di madre Rehalia -così veniva chiamata Elkbira da suo marito che aveva l’abitudine di nominare le sue mogli in base al luogo di provenienza- erano macinare il sale, raccogliere la paglia e gli escrementi di mucca essiccati per accendere il fuoco e mungere le mucche.
Una mattina all’alba, vidi lui che davanti al forno di pietre e fango, per una banale divergenza su cosa offrire a degli ospiti importanti che sarebbero arrivati nel pomeriggio, le imbrattò i capelli con lo sterco e poi glieli tirò forte fino a farla cadere, tempestandola di calci e insulti.
Gli ospiti che ci raggiunsero in giornata furono comunque accolti da una padrona di casa composta e sorridente, con indosso il suo unico vestito buono, in seta purissima, con la parte superiore di un verde brillante e la parte inferiore bianca, ricamata con lo stesso tono di verde del busto. Furono serviti pani caldi, burro fresco preparato da lei, mandorle, noci e datteri, oltre a un corroborante e delizioso tè alla menta.
Quando Mustafà tornò fu al settimo cielo per la notizia che presto saremmo diventati genitori e, saputo del trattamento che mi riservavano cognati e cognate, si preoccupò di mettere le cose in chiaro con tutti, usando toni decisi che non ammettevano repliche, dicendo che chi si fosse permesso di mancarmi di rispetto, avrebbe dovuto fare poi i conti con lui.
Anch’io imparai da allora ad alzare la testa e a rispondere a tono, in caso di necessità.
Il tre settembre del 1995 venne alla luce Iman, una bimba dalla carnagione diafana e i capelli chiari, che fu da subito la gioia di tutti noi. Madre Rehalia ebbe, finalmente, quella nipote che aveva desiderato con tutto il cuore e mi aiutò ad averne cura come meglio non sarebbe stato possibile. Era lei che badava alla piccola durante il mio turno di pulizie, cullandola, facendole il bagnetto e cambiandola.
Nella sua stanza, la più piccola e brutta di tutta la casa, dove a malapena trovavano posto un minuscolo e malridotto armadio e un telaio, improvvisò una sorta di marsupio e con quello portava la piccola fuori, mostrando orgogliosa quella bimba bionda che tutti fantasticavano essere venuta da chissà dove.
Quando Iman stava male, lei mi aiutava a curarla e calmarla, dormendo nello stesso letto con me nei periodi in cui mio marito era in Italia. Le fece anche un tappeto per la preghiera, che la piccola usava per riposare. Fare tappetti era la passione di madre Rehalia e, non avendo soldi per comprare stoffa e filo, raccoglieva indumenti frusti e logori scartati da altri, li lavava con acqua calda e liscivia, ne disfaceva la trama e nel suo telaio quelle fibre riprendevano vita, diventando tappeti comodi e caldi, pronti al rapporto intimo con Dio durante le preghiere.
Mi piaceva farle compagnia mentre lavorava al telaio e ammirare, seduta sul letto, la piccola aiuola che aveva ricavato sotto la sua finestra, fatta di canne di bambù, menta, basilico e pochi fiori. Dall’inizio della primavera al termine dell’estate, quel minuscolo giardino esplodeva di colori e profumi, deliziando chiunque lo vedesse.
Iman, crescendo, chiedeva sempre alla nonna di raccontarle la favola delle due uccelline, Mia e Tua, e veniva accontentata sempre, ma solo alla sera, perché raccontare le favole di giorno, si diceva, fa venir su i bimbi senza i capelli.
Era la storia di due uccelline sorelle, che vivevano insieme e un giorno Mia disse a Tua: «Mia cara, settembre è arrivato e con lui la vendemmia, oggi mi recherò al mercato degli uomini e, senza che loro se ne accorgano, prenderò un po’ d’uva, che mi piace tanto».
«Piace tanto anche a me» rispose Tua, «sii gentile, conservamene qualche acino».
Mia acconsentì e, tornata con l’uva, la appese a un chiodo, solo che, sopraffatta dall’ingordigia, finì per mangiarla tutta.
«Allora, dove sono i miei acini?» chiese Tua, tornando da un volo sulle orchidee carminie in compagnia di alcune amiche.
«Sorella cara, al mercato l’avevano finita» le mentì Mia, «riproverò nei prossimi giorni».
Sfortunatamente per lei, un acino era caduto per terra e fu intercettato dall’uccellina rimasta a zampe vuote che, per la rabbia, strappò a Mia le sue due piume variopinte, delle quali era estremamente orgogliosa e gelosa. «Se le rivuoi, dovrai portarmi cento datteri, cento acini d’uva e cento banane».
«Ma come posso fare tutte queste cose da sola? È impossibile» si lamentò Mia.
«Chiedi aiuto agli uomini» chiosò Tua. E così, Mia andò di casa in casa e di persona in persona, ma tutti coloro che acconsentivano ad aiutarla, chiedevano un favore in cambio fino a far impazzire la povera Mia che non ricordava più per chi doveva fare cosa, e soprattutto non vedeva mai la fine del compito.
«E come finisce?» chiedeva assonnata Iman alla nonna.
«Finisce che non bisogna mentire mai, soprattutto alle persone che ci vogliono bene e si fidano di noi, perché le bugie possono diventare una prigione dalla quale è impossibile uscire» rispondeva sorridente madre Rehalia.
Nell’agosto del 1999, Mustafà decise che era giunto per noi il momento di raggiungere Abdullah e Rachida in Italia, nella provincia veneziana, e dovemmo lasciare madre Rehalia che tornavamo però a trovare una volta all’anno.
Nel 2000, nacque la mia secondogenita, Khadija e due anni dopo, la piccola Samiha. Mustafà lavorava come muratore e io, ogni tanto, facevo le pulizie, tutto sembrava andar bene. Nel 2004, le bambine si ammalarono di morbillo. Mentre Iman e Samiha lo superarono senza problemi, Khadija sembrava peggiorare, tanto che a un certo punto il medico ne consigliò il ricovero. L’otto settembre, quella che sembrava solo una banale patologia esantematica infantile, e che invece era diventata una superinfezione batterica, si portò via mia figlia. Non ero preparata, nonostante la mia storia familiare. I bambini in Europa non muoiono, avevo sempre pensato.
Dopo qualche minuto di silenzio, reagii graffiandomi il viso a sangue, scesi in strada e cercai di buttarmi sotto una macchina. Raggiungere la mia bambina era l’unico pensiero che trovava spazio nella mia testa. Ricordo Iman e Samiha spaventate nel vedere la mamma disperata e il papà in lacrime. Ricordo anni di vuoto, in cui dovevo essere costretta ad alzarmi dal letto per badare alle mie figlie. Ricordo Iman che mi chiese:«Mamma, perché non sorridi più?».
«Perché non ho più un motivo per farlo» risposi gelida, «quando ne avrò di nuovo uno, sorriderò ancora».
Nel 2006 rimasi inaspettatamente incinta e Iman mi accompagnò felice a fare la prima ecografia.
Quando mi dissero il sesso del bambino, scoppiai in un pianto dirotto, di dolore: era il maschio che per tanti anni avevo cercato, ma io rivolevo la mia piccola, volevo vederla tornare.
Il 25 dicembre 2006 è nato Otman, riportando gioia e amore laddove le tenebre del lutto avevano spento la voglia di vivere.
Quell’estate madre Rehalia non vedeva l’ora di conoscere il suo nipotino maschio e, benché fosse già ammalata, rese la nostra permanenza magnifica. L’ultimo ricordo che ho di lei, sono le sue mani rugose e stanche che accarezzano il viso del mio bambino, che tatuano con l’henné cerchi concentrici sulle mani di Iman, che scompigliano i capelli di Samiha mentre, seduta sul gradino d’ingresso, cerca di vestire una bambola rotta. Mustafà sapeva che non l’avrebbe più rivista e lo sorpresi con il viso nel suo grembo a rassicurarla che no, quello non sarebbe stato affatto l’ultimo anno che ci saremmo visti.
Come suo desiderio, ora riposa “alle porte del deserto”, nel suo villaggio natio al confine con il Sahara occidentale. A giugno, Iman mi renderà nonna; la famiglia di madre Rehalia avrà un nuovo erede, il suo sangue e il nostro si sono mischiati per sempre, attraverso l’amore che ci ha donato.
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