Una delle storie apprezzate questa settimana sulla pagina Facebook è Le ragioni del mio silenzio di Guglielmo Pizzinelli, pubblicata sul n. 18 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Sono sposata. Il mio è un matrimonio mediamente felice. Da poco sono diventata mamma, e per questo sarei al settimo cielo. Se non ci fosse un ma. Ho taciuto sulle circostanze della nascita di mia figlia. E sto tremando dentro
Storia vera di Valentina R. raccolta da Guglielmo Pizzinelli
Lavoro come direttrice di fotografia per cinema e pubblicità e incontrai Roberto sul set di uno spot che stavamo girando per un’azienda di automobili. Lui era il nuovo collega di una cara amica che lavorava in una rivista femminile.
«Te lo mandiamo per un servizio dedicato voi, trattalo con i guanti Valentina» preannunciò Silvana.
Spalle larghe e fisico possente, sebbene non altissimo, Roberto mi strinse la mano con forza, sorridendo. Seguì il nostro lavoro per tutta la mattina e poi si unì a noi per il pranzo. A tavola, sedette proprio accanto a me e fece del suo meglio per socializzare, affabile e spiritoso. Mi piacevano i suoi modi, la voce e soprattutto gli occhi. Durante una pausa caffè, l’assistente di produzione insinuò che secondo lui ci stava provando con me. Mi parve follia, così presto, anche solo il sospetto, ma risposi che avevo visto la fede al dito di lui.
Però si capiva che ci eravamo trovati interessanti a vicenda, in un modo che non capita spesso. Ma sposata io, sposato lui, non ci aveva sfiorato nemmeno l’idea di scambiarci un contatto.
Una decina di giorni più tardi, però, a sorpresa ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto e quando risposi udii la voce calda e rassicurante di Roberto, uno dei suoi tratti che mi aveva colpito di più.
«Volevo farti sapere, visto come sei stata gentile e paziente, che il pezzo sugli spot esce domani».
Risposi che avrei senz’altro comprato il numero ma lui, con voce anche più suadente, mi disse che sarebbe stato felice di portarmelo, se avessi accettato di raggiungerlo per un aperitivo dalle parti di Torre Argentina.
Mi dissi che in fondo era solo un drink, che la sua conversazione era piacevole e così mi segnai l’indirizzo di un noto lounge-bar molto trendy.
«Ben arrivata: sei bellissima» disse quando lo raggiunsi. C’era una coppia di suoi colleghi e lui si alzò dal tavolino e mi strinse la mano, dandomi un bacio sulla guancia. Un gesto che mi colse di sorpresa. I suoi colleghi mi guardarono come a dire: “e questa chi è?”
Ci lasciarono, diretti a cena altrove. Restammo soli a chiacchierare e scoprii che la moglie di lui era assai più giovane dei suoi 38 anni, e che quindi io ne avevo due in più di lui. Sebbene vivessero a Roma, la base di lavoro di lei era ancora a Milano, e tornava spesso soltanto nel weekend. Andava avanti così da tre anni e l’inarrestabile carriera della moglie non prevedeva un trasferimento a Roma, a breve. Gli domandai perché non si trasferiva lui a Milano, ma rispose che per ora il suo lavoro era qui. Vago.
«Ma comunque a me la cosa non pesa» precisò. E provò a teorizzare che, anzi, forse era proprio quella la ricetta che poteva assicurare lunga vita a un matrimonio, chissà. Ebbi la sensazione che fosse passato al tono del flirt, ora.
«Non so, io per vivere così forse preferirei essere single» replicai.
Lui tamburellò con le dita. «È un matrimonio felice il tuo? Noioso?».
«Di cinque anni, ma con cinque di convivenza prima. Noioso nella norma, direi. È che stiamo provando ad avere un figlio da troppo tempo, e questo è un peso, tra noi». Mi s’incrinò forse un po’ la voce mentre gli spiegavo che io avevo difficoltà ma che i medici non escludevano potesse accadere, insistendo ancora. «Il parametro stress fa i danni maggiori, parrebbe».
Lui annuì e chiesi, d’istinto, se non provasse tentazioni di svago passando tanto tempo da solo a Roma. Mi accorsi solo dopo che la domanda poteva essere fraintesa.
«A volte» replicò candidamente. «Tutti avremmo voglia di divertirci, No? Anche di fare dell’ottimo sesso. Un po’ meno delle complicazioni postume poi: i sentimenti, le gelosie, i sotterfugi…».
Risi. Roberto mi piaceva. C’era qualcosa di strano, selvatico, ma allo stesso tempo genuino, in lui. Era simpatico senza fare lo splendido o il piacione. Anzi.
Poi, all’improvviso disse: «Senti, io sono sempre un po’ di corsa, ma magari un giorno di questi, potremmo pranzare assieme. Perché non mi lasci il tuo numero?». Accettai, senza pensarci su. Era stata una conversazione interessante. E qualche giorno dopo si ripeté appunto a pranzo. Mi riaccompagnò poi allo scooter, parcheggiato lì vicino.
Mentre parlavamo, un paio di volte prese la mia mano, per gioco, sorridendomi. Mi osservò divertito mentre cercavo di infilare il casco: «Aspetta, fatti aiutare» disse, mentre le sue dita si affannavano per allacciarmelo. Ci fu un attimo magico in cui le nostre mani si sfiorarono e i nostri occhi si trovarono, nel silenzio reciproco. Più tardi, mentre attraversavo Roma diretta agli studi, mi resi conto di tornare con la mente ancora a quel contatto. La sua voce, il suo tocco, l’eccitazione della novità quando si è intrigati da un uomo. Da un altro uomo.
Quella sera ero sola a casa e trascorsi molto tempo a messaggiarmi con lui, mentre alcune riprese aspettavano di essere riesaminate da me, sul pc. Sapevo che forse era meglio lasciar perdere quel flirt, per ora innocente. Ma a fine chat, Roberto rinnovò l’invito a pranzo per due giorni dopo. Così diventò un’abitudine segreta. Due, poi tre, volte la settimana. I nostri contatti si interrompevano il venerdì sera, quando sua moglie tornava a Roma, oppure quando mio marito Francesco era in casa. Nessuno dei due, però, sembrava voler fare la prima mossa nella direzione di qualcosa di più intimo. Non essendo una ragazzina, sapevo che se fossimo andati oltre, se fossimo andati a letto, ci avremmo preso gusto. Lo avremmo rifatto e, prima che potessimo impedirlo, uno dei due si sarebbe forse innamorato… O forse stavo fantasticando troppo ? O forse ancora poteva succedere anche senza fare l’amore?
Nel frattempo, tra me e Francesco le tensioni salivano e il nervosismo per il problema del figlio che non voleva arrivare ci rendeva più distaccati. Improvvisamente sembrava che per Francesco quella di riuscire ad avere un bambino fosse un’urgenza. Iniziò a dichiararsi favorevole a fare dei test di approfondimento che prima aveva sempre rifiutato, forse per non dover scoprire di esser lui quello dei due che aveva problemi di infertilità. Conoscevo un’amica che poteva aiutarci.
Roberto, dal canto suo, iniziò a farmi pressioni, delicatamente, lamentando che questa nostra frequentazione soffriva di un’impronta adolescenziale nei modi e nelle uscite.
Ma io tentennavo, perché un conto era rubare qualche incontro, qualche bacio; un altro era condividere una relazione in piena regola con un’altra persona, anche se lui mi stava affascinando sempre di più. Poi, inaspettatamente, Roberto forzò i tempi: prenotò una giornata in un albergo extralusso fuori città e poco prima di cena, lasciammo la stanza con il letto stravolto dalla nostra passione. Era stato bellissimo, non ricordavo da quanto tempo non stavo così bene con mio marito. Rientrando a casa pensavo solo a quanto mi era piaciuto fare l’amore con lui: avevo davanti agli occhi il suo sorriso, l’immagine di Roberto sopra di me, la sua voce, le sue parole.
Ci cercammo in modo ossessivo, da un incontro all’altro: le settimane trascorsero in fretta sull’onda della passione esplosa tra noi. E Roberto iniziò a parlare di “progetti”.
Sembrava condividerli con me quasi in una dimensione di sogno. Io invece ero molto cauta, con i piedi per terra. Scettica. Sposata, soprattutto.
Più ci frequentavamo, più volevo fermarmi e smettere credendo di essere ancora in tempo, ma i discorsi e le fantasie su tutto ciò che ci sarebbe piaciuto condividere e fare insieme ci rapivano sempre di più. Tutto molto bello, dolce, affascinante. Un unico ostacolo, però: il mio matrimonio.
Finché una sera, dopo cena, in bagno feci qualcosa di nascosto da tutti: feci pipì su una stecchetta di plastica che avevo comprato dopo un ritardo assolutamente sorprendente nel ciclo. E quell’aggeggetto bianco rivelò la verità: ero incinta. Il bagno iniziò a girare vorticosamente intorno a me e le gambe cedettero. Ma attesi e non dissi nulla a Francesco. La mattina dopo stavo ripetendo il test, per sicurezza, quando il cellulare squillò ed era Alberta, un’amica dottoressa che aveva eseguito gli esami su Francesco. «Insomma, non sei tu: è lui che proprio non può» concluse, chiarendo dopo tutte le mie domande, mentre il panico dentro di me montava. Ma il test confermò ancora che ero incinta. E se quel bambino non poteva essere di Francesco…
Così, d’impulso le chiesi di non dire nulla a Francesco, ché l’avrei fatto io, con calma. E di mandare i risultati via mail solo a me. Ci congedammo, con lei preoccupatissima per le mie reazioni. Chiamai in studio per dire che non sarei andata, salii in auto e presi la Nomentana guidando poi nella campagna senza meta per diverse ore, in preda al tormento. Cosa potevo fare? Volevo assolutamente un figlio, ma non ero pronta a rinunciare a Francesco. Non così, non ora. E neppure a Roberto, in verità, ma per quello mi sentivo un’adolescente cretina e immatura. Perché era sposato anche lui, non me lo scordavo.
Decisi così di lasciarmi un po’ di tempo. Qualche giorno, poi qualche settimana. Feci in modo che gli incontri con Roberto si diradassero. Dirgli la verità era impossibile, per me. Avrei voluto e dovuto, ma proprio non riuscivo. Avevo il panico. Roberto sembrò scivolare in una tristezza incerta, altalenante con una certa aggressività. Prese a farmi pressioni perché lasciassi Francesco, finché io non reagii male, una sera, quindi non ci sentimmo per giorni. E abbandonai l’idea di dirgli la verità. Anzi, un giorno lo invitai a pranzo, al solito posto.
«Perché ho la sensazione che non lascerai mai tuo marito?» esordì.
«Ma che domanda è? Perché, tu lasceresti lei per me?» risposi.
Roberto non rispose subito. Poi buttò lì un “forse potrei, sì” e quindi si offese per la mia risposta. A tono basso, ma duro, mi accusò di una mancanza di vera volontà di cambiare la mia vita. Mi irritai.
Roberto fece la sua tirata esprimendo frustrazione, fino a implorarmi poi a fine pranzo di comprendere quanto lui mi desiderasse e mi amasse. Era la prima volta che menzionava la parola amore. Io, tuttavia, non lo feci. Mi chiese perché e io risposi che era perché non sapevo davvero se lo amassi o no. Mentivo, lo amavo. Ma non glielo confessai. Ebbe una fitta di rabbia e delusione e pagò il conto in fretta, salutandomi offesissimo e congedandosi appena fuori dal locale.
Presi un taxi per tornare in ufficio, e lì la nostra relazione si interruppe. Erano passati 23 giorni da quando avevo scoperto di essere incinta. Di lì a poco, avrei dovuto iniziare a fare altri esami. Non potevo fare altro: svelai la “buona novella” a Francesco, che scoppiò di gioia e mi portò al mare in Abruzzo per un weekend lungo.
Non riuscivo a perdonarmi di aver deluso e lasciato Roberto, ma lui era stato assurdo e immaturo, con la sua reazione e la sua sparizione, seguite solo da una lunga mail di rimpianti e rammarico, che si chiudeva con un: “Fai bene a restare con lui”. Mail cui io non risposi, colpevole.
Poi, un luminoso giorno di autunno assai caldo, a meno di un mese dal parto, decisi di godermi quattro passi in centro, per un gelato. Svoltai un angolo e lui era lì davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento. Indossava un vestito grigio, capelli foltissimi, lunghi. Era molto bello.
Mi avvicinai, si voltò e mi vide: il pancione gigantesco, il seno ormai gonfio. Restammo a fissarci non so per quanto. «Come stai? Sei bellissima. E ce l’avete fatta, vedo…» disse infine, senza staccare gli occhi dai miei. Parlammo. Dissi che mia figlia sarebbe nata tra poco, ma ovviamente non rivelai che era sua. E la cosa che mi sconvolse fu la naturalezza con cui lo feci: era necessario a proteggere tutti. Me, Francesco, lui, la bimba. Mi sentivo disumana. Roberto mi abbracciò e affondò il viso nella mia spalla. Lo accarezzai, ma poi lo staccai da me, con uno sforzo sovrumano.
«Valentina, ti ho pensato ogni giorno, non ho mai smesso di desiderarti». Fu un pugno allo stomaco e reagii con acidità, per difendermi.
«Sì, però non mi hai più cercata. Niente di niente». Poi cedetti e sentii le mie lacrime sul volto. «Mi spiace, Roberto. Anche io ti ho pensato, spesso. Ma è andata così» dissi, abbracciandolo. Lui annuì, ma a fatica. E mi baciò. Reagii staccandomi. «Ti prego… Non facciamoci anche più male» dissi. Si ricompose e mi chiese di scusarlo. Ma leggevo il dolore sul suo volto.
«Sta andando tutto bene, è sano, sarà tutto ok?» chiese facendo un cenno verso il mio pancione.
«Sì» dissi. «Sarà una bambina stupenda». “Come te”, pensai: “Come noi due”. Poi mi baciò fuggevolmente sulle labbra, si voltò senza dir nulla e mi lasciò lì nella via.
Le settimane dopo quell’incontro furono un susseguirsi di esami, visite, ansia e panico. Alla fine partorii e tutto filò per il meglio. Ero felice, avevo la bambina che volevo.
Roberto mi mandò messaggini un paio di volte, chiedendomi se potevamo vederci. Io risposi sempre gentile, ma distaccata. Rifiutai.
Finché un giorno mi scrisse che aveva ricevuto una proposta di lavoro a Milano e che Alice, la sua compagna, gli aveva chiesto di avere un figlio insieme. Risposi che ne ero lieta, se la cosa poteva farlo felice. Farli felici, entrambi.
Lui rispose: “Sarei stato più felice di avere te e di farlo con te, lo sai.” E quelle parole mi spezzarono dentro.
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