La storia più apprezzata dalle lettrici questa settimana è “Legge del contrappasso” di Annalucia Lomunno, pubblicata sul n. 7 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Alessandro M. raccolta da Annalucia Lomunno
Amore-Botola-Amore. Bicchieri-Catrame-Bellezza. ABA. BCB. La mia storia d’amore assomigliava fin troppo e in modo indecente a una maldestra rima incatenata. Ero caduto in una trappola passionale. Bevevo più del dovuto, mi degradavo, speravo di sotterrarmi, di rinascere chissà dove lontano da lei. E invece tutto questo inestricabile intrigo era l’unico fine della mia esistenza. Ho conosciuto Caterina a Venezia, nel grande hotel in cui lavoravo. Ero cameriere di sala con aspirazioni da maître, lei era una giovane stagista alla reception. Bellissima, speciale, occhi che brillavano come gioielli, una cortigiana nata. In pochi mesi era diventata la mia ragazza e anche l’amante del nuovo, fascinoso e sposatissimo dirigente. La sua fiera indifferenza mi feriva, ma ne avevo bisogno come di una droga. Non ero mai stato con una così, e speravo che lei ponesse fine a questo doppio gioco e scegliesse definitivamente me. Ma non succedeva, e io continuavo a credere in questo legame come se fosse il mio centro pulsante, come se lei sola potesse dare spessore alle mie giornate: era un pensiero che non mi concedeva tregua. Ma Caterina era selvatica e libera, e soprattutto coltivava precise aspirazioni. La mia devozione forse la infastidiva, la spaventava, e quando io provavo a strapparla dalle grinfie di quell’altro, ad allontanarla da quell’ambizione che la divorava, lei non mi ascoltava più. Noi due esistevamo soltanto a letto: il mio corpo sul suo, nel suo, la mia assoluta, dichiarata dipendenza. E quella catena che mi stringeva sin dal primo momento in cui l’avevo vista. Ero finito in una botola, ne ero consapevole, e non riuscivo a venirne fuori. Quest’amore mi soffocava ma allo stesso tempo non potevo farne a meno: forse c’era di mezzo il destino, forse, più semplicemente, la desideravo in modo forsennato e incosciente.
Lei aveva un cuore di catrame e lo sapeva: forse era proprio questo a eccitare entrambi, a consentirci di fare l’amore nonostante il mio sordo rancore e il suo tonante disprezzo. Sentimenti contrastanti come onde troppo vicine l’una all’altra che mi rendevano un disperato, un derelitto. Una notte, proprio quando il suo volto pareva immune da veleni ed eventuali trionfi di crudeltà, le dissi che volevo dare le dimissioni: volevo aprire un bar tutto mio. Le spiegai che mi stavo informando per costruire e capire quanto potessi rinascere e crescere. Le dissi anche che volevo cambiare città, vita, dare un senso e una ragione alla nostra storia. Sì, come uno scemo mi sentivo autorizzato a elencare sogni e obiettivi di un uomo innamorato; una roba normale insomma, invidiabile. Ma lei era pronta a controbattere con qualcosa di assolutamente inappellabile ed eclatante. Il suo amante le aveva offerto di dirigere un piccolo albergo a Nantes e lei era pronta a partire con o senza di me. C’era da aggiungere poco altro, anzi nulla. E io in due giorni ho fatto i bagagli in fretta, e l’ho seguita, come se mi avesse appena appuntato una medaglia d’oro sul petto. «Vedrai ti piacerà» mi ripeteva. «Diventerai il mio braccio destro» aggiungeva pure, cercando di disinnescare i moti di violenza inesplosa, remota e inviolabile. Ma quel tragitto, in realtà, era lastricato di molte mine. Catrame-Deriva-Colpa. E poi Dolore-Espiazione-Distruzione. CDC. DED. Già, il destino era sempre più preciso nelle sue svolte perché in Francia la mia esistenza sarebbe completamente cambiata e Caterina non avrebbe potuto più ferirmi. Quella inaspettata, immeritata e fulminate promozione, in realtà era una sorta di buona uscita, di indennità di fine rapporto. Volgare a dirsi, ma illuminante nelle sue prospettive. La mia ragazza non si aspettava di trovare un ambiente molto ostile. Nessuno dei dipendenti rispettava la sua autorità. La ignoravano, la disprezzavano, ridicolizzavano il suo francese non perfetto. Io ero quasi felice che succedesse e intanto acquisivo potere. Lei mi chiedeva aiuto, mi supplicava, e il suo ex amante pretendeva risultati. Se quella stagione fosse andata male, per lei non ci sarebbero state possibilità di riscatto. La botola era tutta sua, con il dolore e la vergogna che ogni deriva comporta.
Caterina scivolava, cadeva a picco: il suo sguardo penetrante si spegneva e l’unica speranza a cui si aggrappava era l’amore che provavo per lei. Ma di colpo io smettevo di drogarmi: non sentivo più quel bisogno istintivo e deplorevole di stare con lei come se non vi fosse altra donna al mondo. Cominciavo a riassaporare una libertà che avevo perso da tempo e non volevo più tornare indietro, mai più. «Dovremmo andare a Parigi» mi ripeteva cupa. «Vorrei rivedere la Tour Eiffel» aggiungeva, come se fosse moribonda. La ignoravo e mi veniva facile umiliarla, e tradirla. A Nantes avevo conosciuto un’altra, una splendida libraia che si era fermata in albergo per due giorni. Avevamo cominciato a sentirci, a vederci di nascosto: ci piaceva, mi piaceva. Lei mi spediva email appassionate, io mi innamoravo senza accorgermene. Quando potevo la raggiungevo e mi pareva quella perfetta felicità che da sempre avevo inseguito. Intanto perseveravo a lucidare e rendere scintillante quell’albergo in rovina. Non andava bene niente e Caterina stentava a riprendere il controllo su se stessa. Di fronte alla sua inadeguatezza crollava, si degradava, rinunciava al ruolo. Dormiva per intere giornate cedendomi il trono in un soffio. Le mancava l’ex amante, soffriva per quell’abbandono. Era la sua fine e si aspettava che la aiutassi, che le impedissi di autodistruggersi. Ma non potevo, non volevo. Lei era a un passo dalla legittimazione di una totale débacle, non le restava che questa debolezza volontaria in cui annegare. E io, spettatore consapevole, non ho impedito che la sua deriva brillasse in maniera così sanguinaria. Prima di lasciarla definitivamente, siamo rimasti insieme sdraiati sul pavimento come due vittime. Non avevamo nulla da dirci e io non provavo più niente per lei: la sua distruzione mi pareva addirittura un risarcimento elegante per tutto quello che avevo patito. La catena ruvida e inesplicabile che mi aveva intrappolato si era finalmente spezzata. Lei era infelice. Un epilogo che si era scritto da sé.
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