L’eredità

Cuore
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“L’eredità” di Annalucia Lomunno, pubblicata sul n. 6 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

M’illudevo che con la morte di papà tra me e mia sorella Francesca potesse finalmente nascere una complicità capace di smuovere antiche ombre tra noi. Come mi sbagliavo! Per fortuna qualcuno mi ha teso, inaspettata, una mano

Storia vera di Raffaella L. raccolta da Annalucia Lomunno

 

Era lì, irrequieta, al mio fianco, bellissima. Con quattro fili di perline attaccati in vita che dondolavano. E quei suoi sottolineatissimi occhi-dinamite con quella luce astratta e violenta dentro, che pareva inesauribile. La mia gemella Francesca – non era mai stata per me un dono dal cielo – non riusciva a stare ferma un attimo nemmeno in uno studio notarile. “Era questo quel tin tin tin snervante” ho pensato, erano i suoi fianchi che si muovevano con tutte quelle collanine bianche appese, era la sua anima che non trovava pace tra le poltrone eleganti di quella stanza. I mobili degli altri, gli oggetti degli altri, i gusti degli altri non le erano mai piaciuti. Eravamo diverse, e lei era quella che somigliava di più a mio padre, fisicamente, emotivamente. Avevano lo stesso modo di mettere a fuoco l’universo, per poi disdegnarlo un attimo dopo; la stessa bocca, la postura, il modo di muoversi e vivere e infischiarsene. Noi due non ci assomigliavamo, non c’era mai stato quell’affetto istintivo e scontato anche, che ti fa sentire a casa, che ti fa sentire al sicuro. Lei mi era completamente estranea sin da quando ero bambina e sin da quando la competizione tra noi si era accesa, potentissima. Alla fine di ogni litigata, Francesca se ne veniva fuori con una citazione dal film Casablanca, sempre la stessa. «Con tanti ritrovi nel mondo, dovevi venire proprio nel mio?». La frase strappata maldestramente a Humphrey Bogart suonava più o meno così, ed era una dichiarazione di guerra abbastanza evidente e pure prevedibile. Quando il notaio quel giorno, diede il là al nostro testamento, lei sapeva già che a me sarebbe spettata la casa delle vacanze, e io speravo che questa donazione potesse aprire nuovi varchi per la nostra sorellanza. Avevo già in mente di programmare estati e inverni con lei, inviti a cena, rimpatriate con vecchie amiche comuni. Quella casa aveva riempito e vivacizzato la nostra infanzia, e allora le celeberrime litigate assomigliavano alle battaglie finte dei cartoni animati, non lasciavano impronte e ferite. Di colpo mi tornavano in mente i fuochi d’artificio a ferragosto, le spalle bruciate dal sole, la raccolta di conchiglie, i pranzi all’aperto, il profumo inconfondibile dei pini, l’euforia, ma soprattutto l’attesa. L’attesa di un lungo inverno in cui entrambe segnavamo i giorni che ci separavano dal mare e dalla fine della scuola. Sì, mi riscoprivo di colpo buonista e nostalgica, e rimuovevo all’istante quell’estraneità innaturale che era nostra e purtroppo stratificata. M’illudevo che dopo la morte di nostro padre lei potesse cambiare, che potesse scoprire insieme a me, un tipo di familiarità completamente nuova, una complicità che smuovesse le antiche ombre. Ma non appena tentai un approccio più morbido lei sollevò una mano come per farmi tacere. «La casa del mare sarà tua. Sei contenta? Per fortuna io non ho ricordi degni di nota su quelle spiagge. Però se penso al tuo primo tentativo di topless, e a quel tuo orrido ex che ti saltò addosso, mi sbellico ancora. Io l’avrei accecato con uno spray antizanzare».

Wow, in una sola frase aveva riassunto e distrutto le tappe della mia esistenza, Con quest’aria da laissez-faire e con un finto sorriso addolorato, aveva dato l’ennesima prova di una cattiveria del tutto inspiegabile. La mia terribile adolescenza, l’incontro con quel ragazzo che sarebbe diventato mio marito e da cui mi sarei faticosamente separata, la superiorità delle sue scelte – lei non si era mai sposata ma collezionava fidanzati superbamente inaccessibili per me – la sua umiliante compassione, quel mio cuore troppo vistoso e lamentoso che non aveva mai conferito stile alla mia vita sentimentale. Un bel pacchetto mal confezionato da cui lei prendeva le debite distanze, e pure in fretta, coreografando ancora una volta le sue dannate perline in modo sempre più ritmico e irritante.

 

Sarei voluta scappare, ma intanto dovevo ascoltare fino in fondo, subendo anche il resoconto del suo trionfale bottino. Era altrettanto prevedibile che lei avrebbe ereditato la masseria, perché lei era quella forte, quella in grado di vivere in campagna da sola, di fare il prezzo del grano e delle mandorle, di guidare un trattore corredato di seminatrice. Di essere spietata, moderna, realistica, ineccepibile. E pronta a trasformare un antico casolare decadente in una contemporanea alcova per i suoi amanti. Era facile immaginare le sue prospettive, e in quello studio, sul serio, le mancava giusto lo champagne da stappare. Ma io dovevo ricacciare indietro il dolore, e lo facevo aggrappandomi alle mani nervose di Elsa. Eh sì, in quel giorno così definitivo e incisivo per me e per la storia della nostra famiglia, c’era anche un’altra persona destinata ad attingere da quel testamento. Era la figlia naturale di mio padre: riconosciuta, ma mai pienamente accettata. La mamma di Elsa era stata la sua amante storica, ma benché tutti sapessero silenziosamente da secoli, a casa mia si continuava a vivere come se nulla fosse mai successo. E io rivedevo la mia sorellastra dopo non so più quanti anni, con un’espressione disarmante e indifesa sulla faccia, che mi faceva quasi tenerezza. Io ero una quarantenne e i suoi vent’anni mi affascinavano e mi inquietavano. Ma intanto, mi era sembrato del tutto normale afferrarle la mano come se potessi salvarmi, quando la voce del notaio si era quasi affievolita, come rintanata in quella cantina che le rimaneva come unico ricordo di un genitore assente e ingiustificabile. Una cantina sì, ma immensa. Più di duecento metri quadrati incastonati nel centro di Matera e nella sua recentissima movida. Forse la figlia preferita era lei, e me ne accorgevo soltanto adesso. Perché Elsa, volendo, avrebbe potuto trasformare quel luogo abbandonato in un ristorante di successo. Non era Francesca l’imprenditrice di famiglia, no. Quella ragazza che da sempre avevamo tentato di ignorare, aveva al suo attivo, poco più che ventenne, corsi di cucina ad altissimo livello. Forse non era un caso che mio padre le avesse affidato il futuro più promettente. E quando, inaspettatamente, mi chiese di diventare sua socia in affari, sentii per la prima volta in assoluto di avere una sorella su cui contare. Una sorella che non mi avrebbe mai deluso.

 

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