Vi riproponiamo sul blog L’eredità di Mariella Loi, pubblicata sul n. 39 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana
Mio padre era stato ripudiato dai genitori perché aveva sposato una donna troppo umile per i loro gusti. Quando venne il momento di recuperare i nostri beni, scoprii che c’era un prezzo da pagare. Ma a quel punto fui io a dettare le condizioni
Storia vera di Maria S. raccolta da Mariella Loi
Della mia infanzia non ho molti ricordi. Le poche immagini che vengono alla memoria mi vedono bambina in una grande casa dalle stanze immense dove c’erano solo adulti. Io e mio fratello siamo stati cresciuti dagli zii, figure austere, fuori dal tempo, ai quali siamo stati affidati fin da piccolissimi. Mia madre e mio padre non li vedevo spesso: Natale, Pasqua e pochi giorni d’estate. Noi stavamo in un paese arroccato sulla montagna, loro abitavano in città e, quando non lavoravano, dovevano studiare per laurearsi.
Così aveva deciso la famiglia di mio padre che il loro matrimonio non lo aveva gradito affatto per varie ragioni, non ultima quella che mia madre non aveva una dote.
I miei nonni paterni erano degli importanti proprietari terrieri e negli anni avevano accumulato beni e ricchezze che avevano suscitato non poche invidie in quell’angolo aspro di Calabria.
I figli avevano studiato tutti, quasi mai seguendo le proprie inclinazioni: le loro individualità erano state sacrificate per onorare un malinteso senso della famiglia.
Negli anni nessuno di loro si era sposato, farlo avrebbe comportato dividere i beni, parcellizzando la proprietà. Invece avevano scelto di lavorare tutti per l’azienda di famiglia, continuando a vivere insieme in quella grande casa.
Mio padre era il più piccolo dei fratelli, e l’unica ragione per la quale gli era stato consentito di accedere agli studi universitari era perché un medico in famiglia avrebbe contribuito ad accrescerne il prestigio.
I rapporti con i suoi fratelli erano stati buoni fino a quando all’università aveva conosciuto mia madre e, in barba all’opposizione familiare, aveva deciso di sposarla.
La sua decisione di metter su famiglia era stata vissuta dal clan familiare al pari di un tradimento. Forse avrebbero potuto accettare più facilmente il matrimonio con una paesana benestante, ma la famiglia di mia madre era piuttosto umile e questa era una colpa che non si poteva perdonare. Ne era seguita l’interruzione dei rapporti che era proseguita per qualche anno, fino a quando la nascita mia e di mio fratello aveva aperto il varco a un processo di riappacificazione familiare.
All’epoca i miei nonni erano ancora vivi e, anche se non avevano gradito la scelta del loro figlio, io e mio fratello eravamo i loro unici nipoti. Peraltro mio padre, seguendo la tradizione di famiglia, ci aveva impartito i loro nomi e questo era un segno tangibile di rispetto.
Solo quando la frattura fu sanata, mia madre fu introdotta in casa dei suoceri, ma l’ammissione in famiglia non fu esente da conseguenze. Da lei che, senza alcun titolo economico, era entrata a far parte di un clan molto noto, si pretendeva il massimo.
Come prima cosa, lei e mio padre dovevano laurearsi a pieni voti: lo avrebbero fatto lavorando. E se questo comportava non avere tempo per occuparsi dei figli, nessun problema: io e mio fratello saremmo potuti andare a vivere da loro.
Non so come i miei genitori abbiano potuto aderire a una richiesta così scellerata, posso solo azzardare che il bisogno di mio padre di riavvicinarsi alla famiglia abbia avuto il suo peso. In quanto a mia madre, forse la voglia di dimostrare che lei era più capace dei suoi cognati potrebbe aver fatto il resto.
Con il trasferimento a casa dei nonni, la mia educazione era stata affidata alla maggiore delle mie zie, una zitella arcigna che, pur essendo maestra, non aveva mai insegnato.
In qualche modo io per lei ero un esperimento pedagogico di cui farsi vanto: a cinque anni sapevo scrivere e leggere perfettamente e ricordo che per tutti gli anni delle scuole elementari ho dovuto leggere un libro a settimana che lei sceglieva per me. A mio fratello era andata peggio perché come garante della sua educazione era stato scelto uno zio che con i mezzi di coercizione non andava troppo per il sottile, ritenendo che questi fossero fondamentali per forgiare il carattere.
Pur studiando e lavorando, mio padre doveva occuparsi anche degli affari di famiglia, ma il suo impegno, in qualche modo, non bastava mai e all’ennesimo conflitto, estremamente provato da anni di sudditanza, aveva mandato tutti al diavolo.
Io all’epoca avevo 10 anni e avevo appena ultimato la scuola elementare.
Nessuno mi disse cosa era accaduto, ma che fosse qualcosa di grave lo si intuiva dai toni accesi che arrivavano dalla sala dove i miei zii si erano riuniti, come succedeva ogni volta in cui c’era qualcosa di importante da discutere.
Quella sera stessa, mia zia radunò quante più cose possibili in una valigia e il giorno dopo io e mio fratello fummo accompagnati alla corriera dove venimmo presi in carico dall’autista. All’arrivo in città alcune ore dopo, c’era mio padre ad aspettarci.
Ancora non lo sapevo, ma non avrei fatto ritorno nella casa dei miei zii per molto tempo.
Tutto ciò che mi apparteneva, foto, giocattoli, ricordi della prima infanzia, rimase lì e, nonostante le richieste che si susseguirono negli anni, niente mi fu mai restituito.
Fu uno strappo violento e improvviso, così come forse lo era stato quello di mio padre, solo che io, essendo piccolissima, non ne avevo memoria.
Mi aveva fortemente disorientata andare a vivere con mio fratello insieme ai nostri genitori in una casa in cui non ero mai stata prima. Ero passata da un habitat dove ogni secondo della mia esistenza era scandito da regole e tempi rigidi a uno spazio e a un tempo estremamente flessibili, dove quasi tutto mi era consentito.
Si trattava per certi versi di una piacevole scoperta, ma io non mi ci ritrovavo.
Gli echi del conflitto tra mio padre e i suoi fratelli ci accompagnarono per qualche anno a causa di alcune azioni legali che i miei zii intrapresero nel tempo. Mio padre, conoscendo quanto grande fosse la loro avidità, li mise a tacere con l’unico strumento che poteva acquietarli: un atto formale di rinuncia a qualunque pretesa ereditaria. Aveva colto nel segno perché a partire da quel momento lo lasciarono in pace e da allora per molti anni non ricevemmo più notizie da parte loro.
Nel frattempo i miei genitori si erano laureati: mia madre cominciò a lavorare come ricercatrice all’università e mio padre a esercitare la professione di medico di famiglia. Entrambi avevano raggiunto il loro scopo ed erano molto felici di questo.
La mia adolescenza e la prima giovinezza sono state serene. Non ricordo negli anni di aver mai sentito papà lamentarsi della lontananza dalla sua famiglia, o rimpiangere gli agi ai quali con il suo allontanamento aveva rinunciato.
Era un uomo pacato al quale la scelta fatta aveva regalato un impagabile senso di libertà del quale andava fiero come fosse un tesoro.
Se ne andò molto presto per un male incurabile che ne stroncò le energie nel corso di un’estate.
Io all’epoca avevo 22 anni e la sua scomparsa mi lasciò completamente sgomenta.
Mia mamma, che aveva sempre avuto un carattere forte, uscì da quella perdita fortemente prostrata. Come era stata orgogliosa e tenace prima, cominciò a sentirsi debole e insicura dopo.
Dopo la morte di mio padre, ero carica di astio nei confronti dei suoi fratelli che non avevano voluto partecipare neanche al funerale e pensavo che la mamma condividesse il mio disappunto: invece, quando gliene parlai, alle mie obiezioni rispose che dovevo lasciar perdere il passato e pensare solo a difendere i miei interessi.
Lì per lì credetti che si fosse ammattita, invece lei con grande freddezza mi invitò a considerare l’ipotesi di riprendere i contatti con la famiglia di mio padre.
Io ovviamente non lo feci e per quelle parole mi risentii molto con lei.
Passarono alcuni anni e nel frattempo mi laureai in Agraria: dopo qualche tempo lasciai la Calabria andando a lavorare in un’azienda emiliana. Mi fidanzai con un collega, ma nonostante mi fossi trasferita lontano dalla mia terra, una parte di me rimaneva indissolubilmente legata a quel paesino arroccato sui monti dal quale ero stata cacciata da bambina.
Anche mio fratello, che nel frattempo si era sposato e aveva avuto due figli, dopo qualche anno si era trasferito in Toscana. Non vivevamo vicini, ma il rapporto era rimasto comunque molto stretto.
Quando il giorno del mio trentesimo compleanno il mio fidanzato mi aveva chiesto di sposarlo, non avevo preso la sua proposta con troppo entusiasmo. Da tempo mi portavo dentro una certa inquietudine che neanche io sapevo ben definire, anche se mi era chiaro che il mio smarrimento era legato a un percorso emotivo interrotto.
I nodi vennero a galla qualche anno dopo il mio matrimonio quando, in occasione di un Natale che passammo a casa di mia madre, mio fratello mi disse che doveva parlarmi.
Non senza imbarazzo mi comunicò che da qualche tempo aveva ripreso i contatti con gli zii i quali, dopo essersi chiariti con lui, volevano incontrare anche me. Aggiunse anche che ero libera di fare come credevo, ma lui avrebbe preferito che la scelta di riavvicinarci fosse unanime e per questo mi pregava di accettare il loro invito. Per non lasciare alcun dubbio circa la vera natura del suo interesse, mi disse che a muoverlo non erano ragioni di affetto, ma la volontà di rientrare in possesso di quanto ci spettava di diritto.
Allibita, provai a rinfrescargli la memoria sul comportamento che quella famiglia aveva avuto nei confronti non solo di nostro padre, ma anche di noi bambini, quando, senza troppi complimenti, ci avevano piazzati su un pullman.
Lui mi rispose che non era quello il punto.
«La nostra eredità, Maria, è quella l’unica cosa che voglio. Tu parli così perché ancora non hai dei figli, ma si tratta di un sacco di soldi che, anche se non possono cambiare il passato, potrebbero migliorare il nostro futuro».
Mi voltai verso mia madre invocando con lo sguardo il suo aiuto, ma lei, senza neanche lasciarmi il tempo di aprire bocca, mi disse: «Tuo fratello ha ragione. Vostro padre aveva i suoi buoni motivi per non volerli più rivedere, ma adesso per voi è arrivato il momento di riprendervi quello che è vostro».
Quella notte non riuscii a chiudere occhio.
Mentirei se dicessi che il richiamo di tanta ricchezza mi lasciava indifferente, ma il timore di offendere con i miei comportamenti la memoria di papà era più forte di qualunque altra considerazione. Quando lo feci presente a mio fratello, mi rispose con parole che mai avrei creduto potessero uscire dalla sua bocca.
«Nostro padre era un debole, altrimenti non avrebbe permesso che altri potessero appropriarsi di quello che è nostro. La cosa più importante per me in questo frangente non è rispettare la sua memoria, ma essere all’altezza del nome che porto».
Dopo lunghe discussioni, finii per cedere alla possibilità di un incontro che fu fissato per un giorno solenne, durante il quale era tradizione recarsi a un santuario per ringraziare il nostro Santo protettore.
Andarci tutti insieme per la prima volta dopo tanti anni aveva un significato simbolico altissimo, di grande visibilità per tutto il paese.
Difficile spiegare a parole le sensazioni che provai nel rimettere piede nella casa dove ero stata bambina e dove tutto era rimasto immutato, non fosse che due dei miei zii, molto avanti negli anni, erano morti da tempo.
Mio fratello e io fummo fatti accomodare in uno studio dai soffitti altissimi con le travi a vista, arredato con mobili antichi intarsiati che non ricordavo. Nessuna parola di quelle pronunciate durante l’incontro lasciava trapelare un moto d’affetto, piuttosto la volontà di sistemare un affare lasciato indietro da tempo.
A prendere la parola fu lo zio Carmelo che, in qualità di esponente più anziano, faceva le veci del capofamiglia. Parlò degli anni che passano e della necessità che sentiva sempre più urgente di lasciare in ordine i suoi affari prima che la sorte malevola potesse prenderlo alla sprovvista. Il suo fu un discorso fatto di metafore il cui succo era che, se io e mio fratello avessimo accettato il ruolo di capofamiglia che gli spettava e l’autorità che ne derivava, nel tempo saremmo diventati eredi di un patrimonio importante.
Mio fratello, in quanto erede maschio, si sarebbe occupato della gestione di tutte le attività sulle quali solo lui avrebbe avuto potere decisionale, mentre a me sarebbe stata destinata una parte dei proventi.
Non dimenticherò mai lo sguardo di fuoco che mi rivolse mio fratello quando nostro zio mi rivolse la domanda, chiedendomi se intendevo rientrare a far parte della famiglia. Mi sentii sopraffare e, mentre una parte di me avrebbe voluto alzarsi e gridare che non volevo, la parte più debole, quella che non aveva accettato l’ostracismo subìto quando avevo 10 anni, rispose di sì a patto di essere trattata alla pari di mio fratello.
Rimasero tutti di sasso ma la mia sfrontatezza riscosse una nota di apprezzamento. L’unico a non gradire la mia iniziativa fu proprio mio fratello: in quel frangente capì che non avrebbe potuto trattarmi come una pedina.
Il testamento che ci rendeva eredi fu redatto l’anno successivo dallo stesso notaio presso il quale mio padre, molti anni prima, aveva rinunciato a ogni pretesa.
Dopo qualche tempo, sia io, sia mio fratello, siamo ritornati a vivere nella nostra terra, non in una casa tutta nostra come avremmo voluto, ma nella casa di famiglia dove avevamo vissuto da bambini.
Non è stato facile all’inizio, soprattutto per mio marito e mia cognata che, pur lavorando nell’azienda dei miei zii, non sono mai stati investiti di alcun potere decisionale.
Rientrare nei ranghi della famiglia ha significato barattare una parte della nostra libertà a favore del senso di appartenenza.
Basti pensare che quando sono nati i miei figli, ho dovuto dare loro il nome dei miei zii Carmelo e Anna e non quello dei loro nonni, come mi sarebbe piaciuto.
Eppure, oggi che sono passati molti anni e i miei capelli sono diventati bianchi da un pezzo, ho la certezza che la scelta fatta quel giorno sia stata la più giusta.
L’unica che mi ha consentito di sentirmi davvero a casa per tutta la vita. ●
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