Lo splendido autunno di nonna Anita

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 44 di Confidenze

 

Notai una donna che passava tra i bagnanti con un bambino che teneva legato a sé con un grande foulard. La fermai, ma lei non voleva elemosine. Era solo l’inizio di un rapporto che presto avrebbe cambiato diverse vite

STORIA VERA DI ANITA C. RACCOLTA DA CATERINA CATERINI

Mi piace andare sulla spiaggia la mattina presto, quando fa ancora fresco e c’è poca gente. Abito al mare, in un paese quasi disabitato fuori stagione che si riempie di villeggianti d’estate. Di solito cammino lungo il bagnasciuga anche d’inverno quando c’è il sole, poi mi siedo fra le dune, al riparo dal vento e mi metto a leggere.

Ho 75 anni, sono vedova da tanto tempo e vivo da sola.

Mia figlia Elisa abita a Londra con suo marito e i loro due gemelli quindicenni.

I ragazzi hanno passato tutte le vacanze della loro infanzia da me al mare, ma adesso sono grandi e hanno i loro impegni e questa è stata la prima estate che ho trascorso interamente da sola.
Mi consolavo pensando che in autunno sarebbero venuti tutti per festeggiare il mio compleanno.
Eravamo in alta stagione e, quella mattina, mi stavo asciugando al sole dopo aver fatto il bagno.
C’erano tanti turisti stranieri e villeggianti del nord, a volte trovavo qualche amica o conoscente del paese e facevo due chiacchiere, ma quella mattina sentivo par- lare solo accenti milanesi o lingue straniere. Una giovane donna di colore con una cesta sul capo mi si avvicinò per vendermi qualcosa. Dissi: «No grazie».

Poi mi accorsi che aveva un bimbo caricato sulla schiena che teneva legato a sé con un foulard. Dormiva con la testolina coperta da un cappellino. Presi il portafoglio, volevo darle dei soldi per il piccino, ma lei rifiutò, voleva che le comprassi qualcosa. Disse che non poteva prendere i soldi se non acquistavo niente.

Mi mostrò delle collane e dei bracciali e scelsi un braccialetto di perline rosse.
Il bimbo si stava svegliando.
«Fermati un po’» dissi alla donna. «Fa troppo caldo. Mettilo all’ombra qui con me».

Lei sciolse i nodi del foulard e il piccolo scivolò giù. Lo presi in braccio e lo appoggiai delicatamente sull’asciugamano, lui aprì gli occhi e li richiuse subito riaddormentandosi. Sotto il cappellino vidi la sua testolina di ricci neri, avrà avuto tre anni.
Che tenerezza!
«Come si chiama?».
«Sharif».
«È bellissimo».
La donna sorrise mostrando denti bianchissimi e mi accorsi che era molto giovane, una ragazza.
Si chiamava Awa e veniva dal Senegal. Mi disse che era venuta in Italia quattro anni prima con il marito e che, poco dopo la nascita di Sharif, lui l’aveva lasciata. Lei e il piccolo erano stati ospitati da un’amica per un po’e adesso dividevano un appartamento con altre donne senegalesi, ma doveva portarsi dietro Sharif mentre lavorava perché non sapeva a chi lasciarlo.
Il piccolo si era svegliato e chiesi se potevo dargli un po’ d’uva. La mangiò avidamente e finì che gli detti anche la mia schiacciata.

Era un piacere vederlo mangiare.
Purtroppo Awa doveva riprendere il suo giro e io le promisi che mi avrebbero trovata anche il giorno dopo.

«Gli piace il succo di frutta?» domandai. Awa annuì e sorrise: «Grazie».
«A domani» dissi.
Il giorno dopo li aspettai.

Nella borsa frigo avevo messo dei succhi di frutta e altre cose buone per Sharif.
In lontananza scorsi la ragazza che si muoveva con il suo pesante fardello, mi accorsi che mi cercava con lo sguardo, poi mi sorrise mentre la salutavo con la mano.

Il nostro appuntamento sulla spiaggia diventò una consuetudine e io li aspettavo ogni mattina. Sharif giocava all’ombra con il secchiello e le palette che erano state dei miei nipoti e che portavo per lui, mentre la sua mamma si riposava chiacchierando con me. Parlava benissimo l’italiano e mi ascoltava con attenzione, come se cercasse di assimilare ogni nuovo termine della nostra lingua che ancora non conosceva. Era una ragazza molto sveglia.

Awa mi raccontò che le donne con i bambini venivano ingaggiate proprio perché se li portavano dietro e questo faceva impietosire la gente spingendola a comprare.
«Io non vorrei farlo invece, preferirei vendere meno piuttosto che trascinarmelo dietro. È piccolo e gli fa male stare tutto il giorno sotto il sole, se gli succedesse qualcosa non so cosa farei: lui è tutta la mia vita. È solo che non so dove lasciarlo. Ma in Italia almeno posso lavorare, l’anno scorso ho raccolto i pomodori perché una mia amica poteva tenermi Sharif e quest’anno ho trovato questo lavoro. A proposito è tardi, dobbiamo ripartire».

Mentre chiacchieravamo Sharif si era addormentato sul mio lettino e il pensiero di doverlo svegliare mi spezzava il cuore: «Se ti va puoi lasciarlo qui con me e tornare a riprenderlo quando hai finito».
Lei mi guardò con un’ombra di dubbio negli occhi.

«Puoi fidarti di me, sono una nonna e mi prenderò cura di lui. Ma se non vuoi lasciarlo ti capirò e ci vedremo come al solito domattina».

Sharif dormiva beato. Awa gli si avvicinò e gli sussurrò qualcosa all’orecchio e lui annuì con la testolina, poi lo baciò. Si alzò decisa e si caricò la cesta sulla testa: «Mi fido di te, nonna Anita. Grazie».
La stagione stava per finire e a breve Awa avrebbe dovuto cercarsi qualche altra cosa da fare.
Sharif stava con me in spiaggia tutti i giorni. Aveva fatto amicizia con dei bimbi tedeschi vicini di ombrellone e giocava con loro. Ognuno parlava nella propria lingua, ma si intendevano che era una meraviglia e con me iniziava già a parlare un po’ l’italiano che gli stavo insegnando, con l’aiuto di alcuni libri di fiabe illustrate che gli leggevo: era un bambino molto intelligente, come la sua mamma. Tutti i giorni portavo il pranzo per me e per Sharif nella borsa frigo e mangiavamo sotto l’ombrellone. Dopo pranzo andavamo al bar da Antonio a prendere un caffè per me e un gelato per Sharif.

«Ecco il nuovo nipotino di Anita» diceva il barista che immancabilmente gli regalava un lecca lecca o una caramella che il piccolo si infilava nella tasca del costumino.

Awa, quando veniva a prenderlo la sera, mi guardava con occhi riconoscenti. Forse non aveva capito che era anche lei a farmi un piacere, perché per me era una gioia occuparmi di quel bambino.

Una sera, forse ero più stanca del solito dopo la giornata di mare, scivolai in bagno facendo una brutta caduta. Mi accorsi subito che mi ero rotta qualcosa perché non riuscivo a rimettermi in piedi e il dolore alla gamba era fortissimo.

Il mio primo pensiero fu per Sharif: ”Il bambino! Non potrò più occuparmi di lui” mi dissi.
Gridai per chiamare Marcella, la mia vicina di casa che abita nell’appartamento confinante con il mio che, per fortuna, mi sentì e venne in mio soccorso.

Marcella chiamò l’ambulanza, mi portarono al Pronto Soccorso dove mi fecero una radiografia e, dopo un’attesa che mi parve interminabile, mi ingessarono. Decisero di trattenermi in ospedale in osservazione ma mi dissero che, il giorno dopo, mi avrebbero probabilmente dimessa.

Pensai a mia figlia Elisa, che aveva trovato un nuovo lavoro da pochi giorni e che, per questo, non poteva chiedere le ferie per venire in Italia e decisi di non dirle niente per il momento. Pensai ad Awa e a Sharif che, l’indomani, non mi avrebbero trovata sulla spiaggia. Che stupida ero stata a non chiederle il numero di cellulare! E adesso, come facevo ad avvisarla?

Il mio cellulare iniziò a squillare: era Elisa che si era preoccupata dopo avermi chiamata più volte al telefono di casa senza ottenere risposta.

Decisi di dirle la verità, ma cercai di minimizzare sulle mie condizioni per evitare che decidesse di partire, ma fu inutile.
«Non me ne frega niente se non mi danno le ferie, io prendo il primo aereo e vengo» disse.

«Tesoro, ma sei ancora in prova. Non fare pazzie!».
Riuscii a convincerla e tirai un sospiro di sollievo. Adesso potevo riposarmi, ero sfinita.
La mattina dopo avrei chiamato Marcello del bar della spiaggia per chiedergli di avvertire Awa.
Mi dimisero il giorno dopo e l’ambulanza mi riportò a casa dove mi aspettava Marcella.
Mi ero sistemata a letto da poco quando sentii suonare il campanello. Awa e Sharif si affacciarono alla porta della mia camera. Quando il piccolo mi vide corse da me e mi si attaccò al collo. Anche Awa venne ad abbracciarmi, aveva le lacrime agli occhi. «Niente paura, sto bene. Mi rimetterò presto» li rassicurai.. Sharif, seduto sul mio letto, volle fare un disegno sul mio gesso. Awa uscì dalla stanza e, poco dopo, la sentii armeggiare in cucina. Si mise a sistemare la casa e mi preparò la cena, poi venne da me per lavarmi e pettinarmi.
Tornarono tutti i giorni dopo il lavoro e, mentre io giocavo con Sharif, Awa faceva i lavori domestici e cucinava in modo da farmi trovare il pranzo pronto per il giorno dopo.

La mia casa non era mai stata così ordinata e pulita e mi sentivo accudita e protetta.
Venne settembre e la stagione si concluse. Adesso Awa poteva occuparsi di me tutto il giorno, così una sera le dissi quello che avevo in mente da un po’ e che mi dettava il mio cuore: «Restate».
«A cena?» disse Awa.
«No, restate per sempre.
Io ho bisogno di voi e in casa c’è spazio abbastanza per tutti. Quando starò meglio cercheremo qualche altro lavoro per te perché la mia pensione non è molto alta. Però, ho delle amiche che cercano una domestica fidata e tu sei così brava con la casa, vedrai troveremo qualcosa. Potrete prendere la residenza così Sharif potrà andare all’asilo. Ci penso da qualche giorno e ne ho parlato con mia figlia che è d’accordo. Che ne pensi?». Awa non riusciva a parlare perché le veniva da piangere. Fece di sì con la testa e mi abbracciò. Quest’anno sembra che l’estate non voglia finire, è un autunno splendido.
Oggi ho tutta la mia famiglia riunita, Elisa con i gemelli sono qui per festeggiare il mio compleanno.
Sharif fissa i miei nipoti con i suoi occhioni neri curiosi, perché non ha mai visto due gemelli omozigoti.
Io e Awa abbiamo preparato un ottimo pranzo e adesso ce lo godiamo tutti insieme.
I ragazzi hanno regalato a Sharif un pallone da calcio e lui non vede l’ora di provarlo.
«Possiamo portare Sharif ai giardini per insegnargli a giocare?» chiede mio nipote Marco ad Awa.
Lei annuisce e il piccolo si lascia prendere per mano dai ragazzi. «Mi raccomando, state attenti, è piccino!» gli grida mia figlia mentre se ne vanno.
Sorrido mentre penso che avere attorno a me una famiglia così allargata è il più bel regalo di compleanno che potessi ricevere.

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