Quel giorno, alla stazione, aspettavo il treno che la riportava a casa dopo tanto tempo. La sua carriera era stata più importante di tutto, anche di sua figlia. Io.
Ero cresciuta guardandola da lontano, sui giornali. Sarei riuscita a perdonarla?
Erano quasi le 15 e il sole autunnale illuminava di un piacevole tepore la stazione di San Benedetto. Lungo i due binari erano poche le persone in attesa. Non molte di più quelle in arrivo: qui in provincia la gente solitamente parte per lungo tempo e torna per brevi periodi. Per le feste di Natale, per le ferie estive.
I giovani non si accontentano di ciò che questa regione offre, e ben presto fuggono verso più allettanti orizzonti.
Alzai il viso controluce e strinsi gli occhi per leggere il monitor degli arrivi: il treno da Milano era in ritardo di venti minuti. Involontariamente feci un sospiro di sollievo. Avevo qualche prezioso momento insperato per prepararmi a quell’incontro e pensare più freddamente. In fondo, però, di tempo ne avevo avuto a sufficienza. Così tanti anni.
Nervosa, mi alzai dalla panchina e mi avviai verso la fine della piattaforma. Un brizzolato cinquantenne mi sbirciò di sottecchi lo spacco della gonna, in cerca di un fugace batticuore. Come fossi trasparente, mi chiesi se indovinasse perché ero lì e così tesa.
Era a causa di Sveva, mia madre. Ma in pochi la chiamavano così, con il suo nome di battesimo. Per tutto il mondo era una delle prime donne della politica, conosciuta con il suo cognome. Una donna bella, riservata. Terribilmente ambiziosa. Tanto da aver commesso, ai miei occhi, il peggior crimine di cui una madre possa macchiarsi: dimenticarsi della propria figlia per perseguire una carriera di successi.
A trentasette anni suonati potevo anche archiviare la sindrome dell’abbandono, ma comunque non riuscivo a perdonarla. Avevo una vita, una famiglia, un lavoro stabile: non è poco, lo so. Ma avevo anche visto Sveva per l’ultima volta diciott’anni prima, quando ci fu quello che papà definì il nostro ”scontro epocale”. Me n’ero andata di casa già da tre, e fu quella la prima volta (anche l’unica, a dire il vero) in cui trovai il coraggio di dire a mia madre cosa pensassi di lei e del suo ruolo nella mia vita.
La “senatrice” stava tornando. In treno. Chissà, forse anche lei aveva bisogno di prepararsi. E chissà se si sentiva finalmente in colpa per un’infanzia, la mia, mai goduta insieme. Per aver fatto sì che fosse mia zia (in realtà una sua sorellastra) a fare le veci della madre, mentre lei cavalcava gli anni di piombo e si ritagliava un ruolo di prim’ordine all’interno del partito.
Gli ideali, le lotte, le assemblee, le occupazioni, gli scioperi. Tutto mentre io, d’estate, correvo e giocavo sulle spiagge marchigiane e sui prati di montagna confondendo una ziastra con una madre.
Se avessi dovuto mettere in fila i fine settimana trascorsi con lei durante la mia adolescenza, non avrebbero coperto lo spazio di sei mesi. Sveva era la donna che vedevo più spesso sui giornali, citata in articoli e interviste, piuttosto che dal vero.
Guardai ancora il monitor. I numeri azzurrini mi annunciarono che il ritardo era aumentato: trenta minuti. Osservai i binari deserti e mi chiesi se non preferissi alzarmi e andarmene, così d’impulso. Come d’impulso un giorno di giugno, a diciannove anni, ero saltata sull’automobile di mio zio e avevo guidato sino a Roma, per suonare a casa sua. Era sera inoltrata e Sveva mi aveva aperto la porta in vestaglia. «E tu che ci fai qui?».
Ero entrata prima ancora che lei si togliesse dalla soglia. «Non so, una cosa tipo: sono venuta a trovare mia madre, che ho visto l’ultima volta alla cena di Natale».
Aveva chiuso la porta e fatto due passi nell’ampio ingresso, squadrandomi. «Perché non mi hai avvisata? Ti sembra una buona idea piombare qui nel bel mezzo della sera, senza avvertire?».
Ero riuscita a rimanere in silenzio solo per pochi secondi, poi il tentativo di rimanere calma era fallito miseramente ed era iniziata una litigata feroce. Io scandalizzata perché lei non dimostrava un minimo di contentezza ed empatia nel vedermi, dopo tutti i chilometri che avevo fatto; lei che cercava di minimizzare, mi trattava come se fossi un’invasata e mi rinfacciava di non aver rispetto per i suoi impegni quotidiani, gli incarichi di partito, quelli istituzionali. Il confronto era stato aspro. Una volta sistemata nella camera degli ospiti, avevo faticato a prendere sonno. La mattina dopo, la stella della politica aveva la sveglia alle sette e io mi ero dovuta alzare malgrado il sonno, sperando almeno in una colazione pacifica con quella che era pur sempre mia madre.
Ma non avevamo nemmeno fatto in tempo a versare il caffè che ci raggiunse un suo collega deputato, dichiarando quanto piacere gli facesse conoscere finalmente “la figlia della donna che amava”. Mia madre lo aveva gelato con un’occhiata e io avevo avvertito una stretta allo stomaco.
«Mamma, ti rendi conto che io neppure so che tu hai un compagno? Ma che ti ho fatto perché tu mi abbia emarginata così dalla tua vita?». Lei aveva replicato che non aveva idea di cosa parlassi. Che non aveva mai smesso di tenersi in contatto con me e che in ogni caso ero ormai una donna, ma mi stavo comportando come una bambina gelosa.
Incapace di discutere oltre, nel giro di mezz’ora ero ripartita. L’aria torrida dell’entroterra reatino entrava dai finestrini aperti e asciugava le mie lacrime. Stavo tornando a casa da sola, sentendomi tradita dalla mia stessa madre. Al punto che, in preda a una crisi, gridai al vento: «Ma perché mi hai messa al mondo, allora? Perché?».
Rinunciai definitivamente ad avere un vero rapporto con mia madre, pensando che tanto non ne avevamo mai avuto uno.
Ma dopo tanti anni, quel giorno ero lì a fissare i binari riflettere il sole mentre aspettavo lei che tornava alla casa paterna e da me. E, come in quel lontano viaggio in auto verso Roma, mi chiedevo se tutto questo avesse un senso. Sentivo l’inquietudine sulla pelle, nello stomaco contratto, nel respiro pesante. Era bastata una sua telefonata dopo tanto tempo e mi ero aggrappata al cellulare, come fosse la maniglia di una porta aperta su un mondo a me precluso. Come un’assetata in cerca delle poche gocce d’affetto sul fondo della borraccia.
Avrei dovuto essere arrabbiata, scostante, fredda? Dieci minuti all’arrivo. D’impulso, chiamai Paola, la mia migliore amica, e le chiesi se non avessi dovuto andarmene. «È una stronza, ma è tua madre. Non ce le scegliamo noi, purtroppo. Questa potrebbe essere la volta in cui ricucite. Che senso ha mantenere il rancore?» mi disse. Così restai. E quando il treno arrivò, lei scese, bella, elegante, altera. Alzò una mano e mi sorrise. Mi avviai verso di lei, aspettandomi forse l’impossibile. Ma dissi: «Mamma…». ●
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