“A mia madre” di Daniela Granieri, pubblicata sul n. 44 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate dalla Community di lettrici su Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
Te ne sei andata in punta dei piedi senza disturbare nessuno. Piangiamo tutti adesso, ma io voglio ricordarti mentre ricami il centesimo cuscino, mentre ridi alle battute di tuo genero. Voglio ricordarti mentre vivevi
Storia vera di Daniela Granieri
L’ho fatto di nuovo. Ho apparecchiato per cinque. Cinque piatti, cinque bicchieri. Cinque di tutto perché è così da anni. Non ho ancora realizzato che te ne sei andata, ma tutti mi dicono che ci vorrà del tempo per capire. E tempo per piangere. Questa storia del tempo non l’ho mai capita tanto bene. Pensiamo che il nostro sia infinito, che la parola fine sia sempre lontana, che capiti sempre agli altri e non a noi. Poi, d’improvviso, capisci che non è così, e serve a poco che tu l’abbia sempre saputo. Sapere non è vivere, e la coscienza del dolore non è il dolore che provi quando qualcuno, così di punto in bianco, ti lascia e se ne va. Sì lo so, avevi una certa età, tutti i tuoi acciacchi, mille patologie e sei andata a morire per un assurdo tumore aggressivo che in una settimana ti ha spento come una candela, lasciandomi incredula e stupita. Pare che questa sia la vita, che questa sia la morte.
Ho rivoluzionato la tua camera. Non sopportavo di vedere il letto con le sbarre, quello con la maniglia per alzarlo e abbassarlo (che hai usato tanto poco), la sedia a rotelle, la bombola dell’ossigeno, le medicine ammucchiate sul comò, i pannoloni testimoni di una triste decadenza fisica. So che mi capisci, questa tua strana figlia è sempre stata, come dire, un po’ sopra le righe. E tu mi amavi per come sono, con il mio carattere burbero da generale e con un cuore immenso.
Ho spostato anche i mobili di sala, mi perdonerai se ho messo il tuo amato tavolo nel garage, ma mi ricordava ogni istante di te: le tue parole crociate, il ricamo, il portacenere sempre stracolmo di cicche.
In realtà non ho bisogno di oggetti per vederti, sei in ogni istante dentro il mio cuore e la mia mente e mi rifiuto di piangere, tu mi avresti detto che non è da me. Già. Io sono quella forte, quella che si è sempre fatta carico di tutto, quella che ti ha reso il tempo che tu le avevi dato, e non è stato abbastanza sai? Non mi pesava mica mamma prepararti la cena, costringerti a bere e a mangiare, prenderti un po’ in giro e arruffarti i capelli, limitare le mie uscite in funzione alle tue esigenze. Tu mi ha dato tutto di te in questi lunghi 57 di vita, e io spero che tu abbia saputo che ti amavo quanto tu amavi me. I ragazzi stanno bene mamma, fanno finta di niente ma manchi tanto anche a loro. Adesso chi chiederà a Massi com’ è andata a scuola? Chi lo spronerà a studiare? E gli esami di Eleonora? La tua immensa soddisfazione per ogni 30 portato a casa. Il prossimo sarà a dedicato a te e sono certa che da qualche parte tu lo saprai. Magari sarai lì con lei mentre dà l’esame e le suggerirai le risposte giuste.
Ieri sono andata a ordinare una pianta di orchidee per la dottoressa dell’ospedale, e ho preso anche dei biscotti e del caffè per le infermiere. Li ho portati stamani e avevano tutte gli occhi lucidi. Si ricorderanno di te nel tempo, non ho dubbi. Una signora così gentile, così educata. Una che sta per morire e si informa di come sta la famiglia, se alla figlia è andata bene una visita di controllo.
Loro non possono sapere che tu eri fatta proprio così.
Erano di turno proprio le due infermiere che ti hanno accompagnato nell’ultimo viaggio, con una dedizione e una tenerezza indescrivibile. Quella mora con gli occhiali ti ha tenuto la mano e consolata finché la seconda dose di morfina non ha fatto effetto e hai cominciato a lasciare questo mondo.
Ci avevi tutti lì, i tuoi tre figli che hai continuano a elogiare fino all’ultimo. Come faccio a saperlo? Me lo ha detto la signora che doveva fare la notte e mi ha dovuto chiamare per dirmi che eri alla fine. «Ho tre figli bravissimi, ma come la Dani non c’è nessuno» hai detto. Ecco, anche adesso che lo scrivo mi scende una lacrima, e ti prego, non te la prendere se riesci a vedermi. È una lacrima dolce, come quel sentimento che ci ha unite per tutta la vita.
So che il tempo offuscherà i ricordi, ma questa manciata di giorni non la dimenticherò mai.
Ti senti poco bene da un po’, ma come al tuo solito non ti lamenti e minimizzi, finché una sera non riesci ad alzarti dalla sedia. Ma hai l’artrosi, l’artrite, l’anca e il femore che ti toccano. Non è così strano. Strani sono i piedi gonfi e il tuo fiato che si rompe anche per sederti sul letto. Chiamo la guardia medica, una timida dottoressa neo laureata che ti visita con una cura enorme. Sembra un nuovo scompenso cardiaco, non mi spavento più di tanto che ne ho visti di peggiori. Arriva l’ambulanza, la dottoressa di guardia è una vecchia amica e decide per portarti al pronto soccorso. Non sembra niente di particolarmente grave, l’elettrocardiagramma è a posto e non ci sono segni di infarto in corso. Ti lasciamo in ospedale alle quattro di mattina, proviamo a dormire. È sabato, ti fanno un po’ di fisiologica, un po’ di diuretico e sembri stare benino. L’unica cosa che ci dice il primario è che c’è una macchiolina sospetta ai polmoni. Lunedì ti fanno altri esami. Martedì veniamo convocati. Appena la dottoressa ha detto «cercavo proprio voi», mi si è gelato il sangue. Entriamo e lei ci invita a sederci che hanno delle notizie non belle.
Hai un tumore. Ai polmoni, al fegato, al mediastino, con metastasi alle ossa. Io e mia sorella ci guardiamo istupidite. Non realizzo sul momento, ho solo un nodo alla gola e faccio fatica a parlare. Chiedo la cosa più stupida o più ovvia. Quanto tempo. Nessuno può saperlo, nemmeno la gentile oncologa che ci spiega che non si può operare, fare chemio, radio e immunoterapia.
In poche parole non si può fare nulla se non aspettare. E fingere.
Ti raccontiamo che hai una polmonite, così giustifichiamo l’ossigeno e la debolezza, e tu ci credi forse un paio di giorni, ma non sei cretina e capisci che invece di migliorare, peggiori ogni attimo. Ogni tanto ti lamenti del mal di schiena, ma è colpa di questi letti dell’ospedale, appena torni a casa starai certo meglio.
Mangi poco, bevi poco. La maggior parte del tempo sonnecchi. Ti rimandano a casa dieci giorni dopo. La dottoressa che ti dimette è dispiaciuta: non può tenerti ancora li, ma si raccomanda di cercarla in qualsiasi momento in caso di bisogno.
La tua camera sembra una stanza d’ospedale, il letto regolabile, la bombola, la donna che viene a darmi una mano per lavarti, la sedia a rotelle.
Mi chiedo se sarò capace di accudirti a dovere.
Mangi sempre meno e dormi sempre di più. Non penso più in termini di mesi, penso che forse resisterai qualche settimana.
C’è un gran via vai di gente che viene a trovarti, mi stupisco di quanti ti ricordano e ti vogliono bene. Per me era scontato.
Martedì sembra una buona giornata, hai mangiato qualcosa e guardato un po’ di televisione. Alla signora che ti segue racconti di quando sei scappata di casa per sposarti e di come i tuoi si fossero arrabbiati. Sei su di morale, tanto che mi illudo per qualche ora che sia stato tutto uno stupido sbaglio.
Ma non è così. Mercoledì butta male. Passi una brutta giornata e la notte mio marito la passa sulla poltrona accanto a te che non stai per niente bene.
Ti vedo davvero prostrata, in qualche modo lontana. Fai fatica anche a respirare e io chiamo la dottoressa tanto gentile. Le spiego la situazione, mi fa chiamare l’ambulanza e ti riporta in reparto. Viene a vederti poco dopo, esce e scuote la testa. La situazione è disperata, La mia mente si tara su una questione di giorni. Invece sono state ore. Una manciata di tristi, orribili ore che non dimenticherò mai.
Te ne sei andata in punta di piedi, senza disturbare nessuno. Ma te ne sei andata comunque.
Piangiamo tutti adesso. Un pianto forte e disperato, forse anche liberatorio. Piangiamo per noi, piangiamo perché la vita ci ha inflitto un nuovo dolore, e solo abbracciandoci sembra più lieve. Tu sembri guardarci nella tua immobilità, e mi piace pensare che lo hai fatto davvero.
Il giorno dopo è tutto assurdo.
Chi ha subito un lutto dovrebbe aver più tempo per occuparsi della parte burocratica che è pazzesca. Passo la mattinata a girare tra un ufficio e l’altro a riempire moduli e scegliere il rito funebre. Da una parte mi fa bene essere costretta a non pensare. Dall’altra parte vorrei essere in cima a un monte e non dover vedere nessuno.
Ho un disperato bisogno di stare con me stessa, di capire, di accettare, di elaborare. Ma non mi viene permesso. C’è sempre qualcuno accanto a me, o ogni volta che mi rinnovano le condoglianze mi rinnovano il dolore che fa già abbastanza male.
Abbracci che mi fanno bene, quelli degli amici più cari, abbracci di circostanza che potevano essere risparmiati. Decine di mani che stringono la mia, labbra che baciano le mie guance, e io vorrei solo essere altrove.
Invece rimango li, a sedere sul muretto fuori dalla stanza mortuaria che non sopporto di guardarti una volta di più
Voglio ricordarti con i tuoi pantaloni blu mentre ricami il centesimo cuscino, mentre ridi alle battute di tuo genero, mentre brontoli Massi che non ha fatto i conti. O mentre accarezzi il gatto o i cani che non riuscivamo a fare uscire dalla tua camera.
Voglio ricordarti mentre vivevi.
E non bastano i figli, i fratelli, l’uomo che amo a riempire il vuoto che ho dentro. È un buco nero che ogni tanto mi inghiotte. Poi mi rialzo, mi lavo la faccia e mi dico che devo guardare avanti ed essere felice per quanto ho avuto.
Tra qualche tempo, magari, ci riuscirò. Ma non ancora.
Ciao Mamma.
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