“Miraggio d’agosto” di Valeria Sirabella, pubblicata sul n. 34 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Roma è deserta, per strada siamo rimasti solo io e lo sconosciuto del bar che mi ha appena invitato a cena. So che è una follia accettare, ma penso già alle sue mani su di me. Perché ho la certezza che accadrà
Storia vera di Alice F. raccolta da Valeria Sirabella
A Roma, d’agosto, a volte è difficile persino respirare. Il sole brucia dall’alto, ma è dal basso che arriva il caldo peggiore: l’asfalto è come uno specchio che rimanda in alto il calore moltiplicato per cento. In pausa pranzo evito di uscire, me ne resto chiusa nell’ufficetto semibuio che detesto, ma che almeno è dotato di aria condizionata, a mangiare l’insalata che mi sono portata da casa. Ho la testa vuota, il cervello spento. Riuscire a concentrarmi è difficile. La metà delle scrivanie sono vuote, molti miei colleghi sono andati ad aggiungersi ai milioni di turisti che già affollano le spiagge. Le mie amiche sono a Ibiza, il mio ex a Formentera. Con lui c’è Martina, una tipa con gli occhi da cerbiatta e il sedere rotondo che gli ha fatto perdere la testa non più di due settimane fa, mentre io sono rimasta qui a Roma a lavorare, sperando almeno di conquistare un po’ di benevolenza da parte dei miei capi, visto che il mio contratto è a termine e che a settembre la mia sorte lavorativa qui dentro potrebbe anche chiudersi. D’accordo, probabilmente passare l’estate in ufficio non cambierà la mia futura carriera, e se ho scelto di restare è anche per potermi compiangere un po’. È che il senso di solitudine e precarietà mi devasta: la mia vita non ha un punto fermo che sia uno. Non il lavoro, non l’amore.
Finalmente si fanno le sei del pomeriggio tra pensieri vaghi e uno stato di sonnolenza quasi surreale. Spengo il computer e penso al mio monolocale al piano seminterrato che mi aspetta; saluto i colleghi ed esco nella desolazione. Avanzo tra le saracinesche chiuse, circondata da chilometri di asfalto vuoto, popolato soltanto dal canto di poche cicale arroccate su qualche albero qua e là. Cammino tra le vetrine chiuse e mi sento più sola che mai.
D’un tratto mi accorgo che anche gli estranei che ogni giorno mi passano accanto nelle strade, per il solo fatto di esserci, in qualche modo sono capaci almeno di alleviarla, quella solitudine dell’anima. A un certo punto mi ritrovo davanti a Cesare, il mio bar di fiducia, l’unica oasi di fresco e in un certo senso di amicizia che mi rimane.
Ogni mattina Cesare mi accoglie con un sorriso, un caffè e un «Buongiorno signorì», che sono come un’ondata di brezza marina nella mia giornata. Anche se fuori orario, decido di far visita all’unico amico che mi resta e di concedermi un aperitivo, sperando che mi stordisca un po’.
«Signorì, che ci fa qui a quest’ora?» chiede Cesare con il suo solito fare amichevole.
«Una botta di vita Cesare, me lo fai uno spritz?».
«E come no, ecco a lei signorì». Nel piccolo bar ci siamo io e un vecchietto che mangia noccioline. Qualcuno ha iniziato ad alzare le sedie per lavare a terra, mentre dal soffitto un ventilatore rompe il silenzio col suo monotono ronzio. Me la prendo comoda, sto sorseggiando con calma il mio aperitivo quando entra un altro cliente. È un uomo che conosco di vista, uno dei tanti professionisti in giacca e cravatta che incontro la mattina quando mi fermo qui a fare colazione, un avvocato o forse un manager. È un bell’uomo, con uno sguardo penetrante che sembra bucare tutto ciò che punta. Non credo si sia mai accorto di me nella confusione delle otto del mattino. Stavolta invece mi fissa per qualche secondo e per un attimo mi sento mancare il fiato, ho la sensazione che in tutta la città siamo rimasti soltanto io e lui. È alto e abbronzato, i capelli neri e lucidi gli ricadono sulla fronte e ai lati del viso. Chiede anche lui uno spritz.
«Che ci fa ancora in città, ingegnè?» domanda Cesare.
«Che ci vuoi fare, Cesare, moglie e figli sono al mare e io invece bloccato qui a lavorare».
Per un attimo ho l’assurda sensazione che quelle informazioni così dettagliate siano in realtà destinate a me. Sarà l’effetto del caldo misto all’alcol, visto che sono quasi astemia, ma inizio a fare strani pensieri. Ha labbra ben disegnate e una mascella virile, le sue mani intorno al bicchiere sono affusolate e forti. Improvvisamente desidero soltanto averlo addosso. Cesare l’ha chiamato ingegnere, infatti ha l’aria rispettabile del professionista di successo: il suo fare sicuro mi attrae incredibilmente. Immagino la sua casa perfetta e luminosa, con i pavimenti in parquet lucidato e le foto dei bambini ovunque, riesco a visualizzare anche la moglie, una bella bionda sui 40 coi capelli in ordine e gli abiti sofisticati. Il mio bicchiere è ormai vuoto. Mi alzo per pagare e andarmene, quando lui mi precede pagando i due spritz. Lo ringrazio senza troppi complimenti, poi usciamo dal bar insieme. L’ondata di caldo esterno mi rimbalza addosso con violenza.
Lui si accende una sigaretta e io mi fermo ad aspettare lì con lui, mentre fuma, inspiegabilmente senza imbarazzo. Mi sento strana, quasi euforica. Mentre spegne la sigaretta mi dice che cenerà in una piccola osteria nella strada accanto e mi propone di fargli compagnia. In fondo, aggiunge, in città siamo rimasti in pochi, quindi perché non alleviare la solitudine gli uni con gli altri? Vorrei dirgli di no, sarebbe una pazzia, invece accetto.
Poco dopo siamo seduti al minuscolo tavolino dell’osteria sotto un gigantesco platano. L’aria inizia a essere più fresca, un bel venticello ci accarezza, e io corro in avanti coi pensieri. Penso a quando quella bocca, quelle mani saranno su di me, perché ne ho la certezza: accadrà.
Lui si toglie la giacca e si scioglie il nodo della cravatta con un gesto che trovo seducente. Ordiniamo vino rosso e pasta all’amatriciana e parliamo del più e del meno, la conversazione è piacevole anche se lui mantiene sempre un velo di formalità. Ho la sensazione che fatichi a scollarsi di dosso il suo ruolo anche se ha finito di lavorare. Tuttavia, di tanto in tanto, intuisco i suoi occhi adagiarsi su di me, la sua mente pensare forse le stesse cose che penso io.
La cosa mi piace e mi accende di desiderio. Paga lui, quindi ci alziamo e io gli indico la direzione verso cui sto per incamminarmi per tornare a casa. Lui si accende un’altra sigaretta e mi dice che mi accompagna, tanto non ha fretta di tornare a casa. Sono inebriata e un po’ spaventata dalla stranezza di questo incontro, ma ho una terribile voglia di andare avanti, fino ad abbattere completamente i muri di distanza e formalità che ancora ci dividono. Davanti al mio portone gli dico che se vuole, per ricambiare la cena, posso offrirgli un pezzo di crostata. Risponde che la crostata non la vuole, però se lo desidero mi fa compagnia mentre la mangio io.
In pochi istanti siamo in casa. Lo guardo, e ho un ultimo lampo di raziocinio: che ci fa un professionista quarantenne, sposato, con addosso un raffinato abito di sartoria, nel buio monolocale disordinato di una venticinquenne precaria e incasinata? Lui non sembra porsi tante domande. Incolla i suoi occhi ai miei e dopo pochi secondi mi è letteralmente addosso. Mi afferra la coda di cavallo con forza e dolcezza insieme, fissa le mie labbra per qualche secondo e poi mi bacia. È un bacio caldo e umido, che mi entra in gola e nelle vene con liquida dolcezza. Poi mi fissa a lungo negli occhi, serio. In un istante riesco ad andare al di là della maschera della persona per bene e del professionista in carriera e vedere nitidamente l’uomo annientato dal desiderio per me. Gli sbottono la camicia mentre lui mi sfila la maglietta. Ci stringiamo, sentire la sua pelle a contatto con la mia mi provoca un forte giramento di testa, le gambe quasi non mi reggono così mi aggrappo a lui. Sento i suoi muscoli tendersi mentre mi sospinge fino al divano. Si sdraia su di me, le sue mani mi corrono addosso, il caldo umido della stanza fa aderire i nostri corpi perfettamente. Non avevo mai fatto l’amore con uno sconosciuto, ed è come se lui, sconosciuto, non lo sia mai stato. C’è una familiarità improvvisa nel suo corpo, nell’odore, nella consistenza della pelle, che abbatte ogni inibizione. Mi lascio andare completamente, sono nelle sue mani. Non penso, non penso a niente, per un’ora esiste solo ciò che sento.
È tarda notte. Dai vetri aperti arrivano rumori di piatti e televisioni accese nelle case di fronte. Lui giace su una sedia nella stanza buia, le gambe allungate sulla scrivania. Fuma. Il suo profilo si staglia sul rettangolo della finestra acceso dalla fioca luce della luna. Per quanto io odi il fumo, lo lascio fare: questa notte non conta più chi sono, cosa voglio, da dove vengo. Non conta quale sarà il mio futuro e non m’ importa nemmeno chi sia lui, chi lo aspetti a casa e quanto lontane e incompatibili siano le nostre vite.
L’indomani mattina, dopo aver fatto colazione si riveste. Ha dormito qui senza che ce lo dicessimo, è stato naturale a una certa ora addormentarci insieme. Lui mi saluta con un bacio e ho la netta sensazione che sia l’ultima volta che lo vedrò. Tutto il giorno, in ufficio, non ci sto con la testa. Cerco di ricostruire gli odori, i sapori, i brividi, ma è un gioco al massacro: ciò che resta è solo ricordo.
Invece mi sbagliavo.
Verso le sette di sera, appena esco dalla doccia, il campanello suona ed è lui. Non dice nulla, ci guardiamo e nei nostri sguardi c’è un senso di resa, come se quel nostro incontro, quella passione tra noi sia qualcosa di assurdo, di sbagliato, ma inevitabile. Cinque secondi dopo il mio accappatoio è un mucchietto di spugna sul pavimento. Lui abbassa gli occhi lentamente su di me, mentre un brivido risale rapido lungo il mio corpo esposto al suo sguardo. La sua mano quasi trema mentre si avvicina alla mia pancia, l’accarezza, poi sale fino ai seni, infine mi cinge la vita e mi stringe a lui. Facciamo l’amore come la sera prima, ma questa volta la dolcezza è più struggente, la passione più consapevole.
Per cinque giorni e cinque notti praticamente vive da me. Sabato mattina, sistemandosi la cravatta, mi comunica di avere ancora del lavoro da sbrigare e che poi, a ora di pranzo, raggiungerà la famiglia al mare. Ci resterà fino alla fine delle vacanze. «Lo so» ribatto fiera per chiarire che non mi ero fatta illusioni. Lui si mostra distaccato, ma nei suoi occhi percepisco un lieve tremore. Mi bacia come le altre mattina, ma più a lungo, più lentamente, poi se ne va. Mi attardo in casa per un po’, la sento piena dell’eco dei suoi passi e sto per cedere alla malinconia.
Poi esco. Vago per un po’ senza una meta precisa, mi aggiro per le strade deserte sotto il sole a picco mentre l’afa mi arroventa i pensieri. Non riesco nemmeno a decifrare bene come mi sento e cosa provo. La vista mi si appanna appena, ogni cosa è confusa. I ricordi si fanno più rarefatti, fin quasi a sparire.
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