Nate a Bologna

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 47 

 

Eclettiche, musiciste per passione, io e Arianna eravamo una cosa sola, ma poi lei si è trasferita a Roma per seguire un ragazzo mettendo una pietra sopra la nostra amicizia. L’avevo persa, cercavo di non pensarci più. Ma non ho resistito…

STORIA VERA DI AMANDA T. RACCOLTA DA FRANCESCA STUCCHI

 

Mi è sempre parso chiaro perché Arianna e io siamo nate a Bologna: artiste eclettiche, sofisticate vagabonde, allegre musiciste, ovviamente amiche. La cosa che ci ha unite di più è stata la musica, trovarci ogni sera a scrivere e suonare è stata per anni la nostra valvola di sfogo e la carica per nuovi slanci e armonie. Comporre canzoni per noi era il massimo e farlo insieme, io accovacciata sul pouf del salotto e lei seduta per terra a gambe incrociate con la sua chitarra, è sempre stato qualcosa di potente, quasi magico.Testi e musiche guizzavano come pesci dall’acqua quando gli getti il cibo, c’era da divertirsi a casa sua, ogni volta un’esplosione di sana creatività.

Non gliel’ho mai detto, ma la mia vita è sempre girata attorno a lei, alle sue lunghe gonne vaporose, a quello sguardo magnetico che catturava chiunque, alla disinvolta leggerezza con cui decideva tutto anche per me: dal liceo che avremmo frequentato al nome bizzarro della nostra band, dalla tonalità delle pareti del soggiorno alla destinazione del prossimo viaggio. È stata lei a fugare i miei dubbi e tutte le malinconie, a colorare a tinte accese le giornate uggiose in piazza Maggiore, sempre lei a tirarmi su dopo l’ennesima delusione con la sua semplice considerazione: che la vita è un soffio e non ti aspetta.
A mettere fine a tutto questo fu ancora lei. Un fresco pomeriggio di fine estate, a cavalcioni di un muretto con una gamba a penzoloni nel vuoto, infilando la matita tra i cappelli raccolti in un morbido chignon, in tono calmo e ponderato, mi informò che si sarebbe trasferita a Roma. Non potevo crederci. Noi due, compagne inseparabili di gioventù, dovevamo dividerci. Fu una doccia fredda, una notizia terribile, una lancia nella schiena. Il ragazzo con gli occhi chiari più del cielo che l’aveva stregata in una sera stellata, la portava via così, all’improvviso.

Aveva già programmato tutto: ci restavano cinque giorni, mi disse, per fare le valigie, compare un paio di stivali – cosa a suo dire indispensabile in vista di un tale cambiamento – affittare casa sua, fissare ricordi e, in ultimo, dirlo ai suoi.

Cinque giorni per noi, per sigillare i contorni di un’amicizia, cinque notti a casa sua a guardare vecchi film, a ridere di stupidate, a ricordare l’adrenalina per quel tuffo dagli scogli a Otranto, l’emozione del primo bacio la stessa sera a Riccione e l’euforia del risveglio sotto la neve il giorno del mio compleanno.

Furono giorni pazzeschi di lacrime e patatine, di silenzi e risate. Scrivemmo perfino il testo di una nuova canzone. La musica era già nelle mie orecchie e nelle corde della sua chitarra, una perfetta sintonia che si realizzava incredibilmente ancora una volta, per l’ultima volta.

«Una canzone senza precedenti» la definì Arianna prima di crollare sul divano, rannicchiata su un fianco. Rimasi a guardarla, seduta sul tappeto con le ginocchia sotto il mento, tenuta sveglia dai troppi caffè o forse dal terrore di perderla. Sempre bella lei, con i suoi setosi capelli biondi a onde morbide. Non credo che il suo fascino derivasse dalla bellezza in sé, piuttosto dalla spontanea sicurezza con cui faceva ogni cosa e da quel sorriso sincero che, nei momenti più complicati, le illuminava il viso spiazzando tutti, compresa me. Con il tocco lieve delle dita e l’impalpabile gentilezza d’animo sapeva comporre incredibili melodie e conquistare il cuore di tanti. Chissà se era per questo che la chiamavano ”fata”. Rinvenni al pensiero della sua imminente partenza e un moto di rabbia mi attanagliò la gola, tirai troppo forte l’elastico del braccialetto che mi aveva regalato e uno sciame di perline si sparpagliò tintinnando per tutto il soggiorno. Arianna però non si svegliò. Colsi allora l’occasione per andarmene, prima che facesse giorno, sgattaiolando via da un addio che non avrei potuto sopportare, io che non sono nemmeno capace di dire “a domani”.

Corsi fuori nei vicoli scuri, attraversai Porta Govese fino alla finestrella di via Piella, uno scorcio triste e crudele che mi spinse a giurare a me stessa che avrei immediatamente voltato pagina, o ci sarei morta in quel dolore. Asciugai le lacrime con il dorso della mano e mi avviai inerme verso casa.

Il monolocale in cui abitavo era piuttosto anonimo, l’avevo preso in affitto e non lo sentivo casa mia, ma non era abbastanza vuoto; qua e là ricordi di viaggi, spartiti e fogli scarabocchiati con schizzi e frasi, foto di noi il giorno della maturità, al nostro primo concerto in piazza, al matrimonio dei nostri amici. Ho fatto sparire tutto in uno scatolone e l’ho abbandonato vicino al cassonetto dell’immondizia fuori dal portone di casa, senza avere il coraggio di gettarlo dentro.

La nostra band si scioglieva così in una notte tremante d’agosto in cui sentivo lo stesso gelo dentro di quella volta in Svizzera a meno dieci. La nostra amicizia si sgretolava come terra arida, sapevo che la distanza non avvicina e io non sono una che sogna, vivo di cuore e di pancia nella mia città, nel casino del centro, con le mani sporche di gesso colorato dopo una mattina chinata a dipingere un volto sull’asfalto.

Arianna se ne andava, seguendo il filo di un ragazzo sconosciuto, mandando all’aria i nostri progetti, ingarbugliando destini, ri- mescolando le carte appena giocate.

Avrei dovuto odiarla, almeno un po’. Insieme a musiche ed entusiasmi si portava via la bicicletta che usavamo in comune per le nostre fughe fuori città; a Roma le sarebbe servita, era stata la sua unica richiesta e non me l’ero sentita di dirle di no. In fondo sono una ragazza atletica con gambe e fiato, sarei capace di fare il giro di tutta la città senza fermarmi se fosse necessario.

Il 5 settembre, con una valigia di nuovi sogni, la mia più cara amica lasciò Bologna senza salutare, in fondo c’eravamo già dette tutto. E quel giorno io misi un punto alla storia della nostra amicizia, anzi, lo mise lei e a me andò bene così.

Era l’estate del 2017, Arianna e io da allora non ci siamo più viste né sentite. Ho continuato la mia vita in apparente tranquillità, mi sono iscritta all’Accademia delle belle arti come desideravo, dipingo per lo più quadri astratti e qualcuno mi ha fatto nota- re che ricordano un po ’le sue gonne gonfie e variopinte. Qualche volta mi tornano in mente le nostre canzoni, ma evito di cantarle per non soffrire ancora di più. Passando davanti a casa sua mi capita di immaginare come sarebbero state diverse le nostre giornate se fosse rimasta qui.

La verità è che non l’ho mai dimenticata.
La scorsa primavera, in una mattina uggiosa di nuvole basse e voli di rondini incrociati, sono partita per Roma con in tasca il bigliettino che mi aveva lasciato con il suo indirizzo. Il treno filava veloce stridendo sui binari, le case, gli alberi, gli squarci d’azzurro tra le nubi parlavano di vita, prima e dopo il buio frastornante delle gallerie. Un dubbio mi rimbombava in testa: stavo facendo bene a cercarla? Riaprire una porta chiusa da anni avrebbe potuto rivelarsi un’amara delusione e poi, per quanto ne sapevo, avrebbe potuto anche non abitare più lì e avrei fatto un viaggio inutile…

A questi pensieri se ne alternavano altri più fiduciosi: immaginavo di ritrovarla, un po’ cambiata certo, ma sempre lei, con il suo smagliante sorriso. Fantasticavo di dirle: “Hai visto? Sono venuta a Roma a cercarti, quanto avresti aspettato ancora per riabbracciarmi?”. Persa nei miei pensieri, arrivai quasi senza accorgermene alla stazione Termini. Mostrai l’indirizzo al tassista che mi condusse sicuro a destinazione. Il palazzo dove (forse) abitava Arianna era di diversi piani e mi ci volle un po’a scorrere i cognomi sul citofono. A metà della quarta fila ecco finalmente il suo: un tuffo al cuore! “Per fortuna” pensai, “abita ancora qui”. Mi feci coraggio e suonai trattenendo il respiro. Nessuno rispose. Mi sedetti per terra come una gatta che ha a lungo girovagato e ormai sfinita si sdraia all’ombra a leccarsi le ferite, fregandomene degli sguardi dei passanti. Era quasi mezzogiorno, il sole mi scaldava i piedi, stavo rovistando nel cuore in cerca di un’emozione che potesse andar bene per un momento così, quando una bici mi sfrecciò davanti e si fermò di colpo pochi metri più avanti. Era lei.

Leggera nel suo abito di cotone lilla, appoggiò la bici al muro gridando il mio nome: «Amanda!». Poi tirò giù dal seggiolino posteriore una bimba tutta boccoli biondi con un enorme ciuccio che le copriva gran parte del viso. «Amandina» disse scostandole una ciocca di capelli, «guarda, è arrivata la mia migliore amica!».
La piccola lasciò cadere il ciuccio scoprendo quel meraviglioso sorriso che, benché non l’avessi mai visto, conoscevo bene.

Ci abbracciammo a lungo come non avevo osato immaginare. «Vieni su» mi disse senza esitare. Salimmo le scale fino al quarto piano, lei col fiatone andava spedita con la bimba in braccio ripetendo come un’invocazione:

«Quanto sono felice che tu sia qui!».Travolta da un vortice di emozioni, non sapevo cosa dire, ma ero felice, più felice che mai. Chiacchierammo tutto il pomeriggio, non sono pochi quattro anni da recuperare. Le domandai perché non mi avesse più cercata e lei, sincera come sempre, mi spiegò che aveva preferito dare un taglio netto alla nostra amicizia, troppo forte per essere vissuta a metà lungo i fili di telefonate serali, filtrata dai racconti di esperienze e giornate che non avremmo potuto condividere. La nostra non era un’amicizia come tante altre, era radicata nelle profondità dei nostri cuori e Arianna era convinta che così l’avrebbe salvata.

Un alito di vento caldo entrò dalla finestra, gonfiando la tenda dorata e soffiò via tutte le malinconie, guardai Arianna in cucina mentre preparava pane e marmellata e spremeva le arance canticchiando le nostre canzoni, in quell’attimo ogni distanza venne azzerata. «Sai Amanda» mi disse all’improvviso «la vita è strana, le strade si dividono, i destini si compiono, ma le vere amiche non si deludono mai».

E ora so che è davvero così.

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