È un bellissimo incrocio di Border Collie, eppure nessuno lo vuole. Nemmeno io posso prenderlo. Ma poi, nel suo sguardo, leggo la mia stessa solitudine. E sento che posso fare qualcosa. Per me e per lui
storia vera di Mirea F. raccolta da Alessandra Mazzara
Apro gli occhi infastidita da un fascio di luce che penetra dalle persiane. Mi metto a sedere lentamente, prendo il blister e caccio in bocca la prima pillola della giornata, aiutandomi con un sorso d’acqua. Poggio i pugni sul materasso, mi do una piccola spinta, finalmente mi alzo e mi avvio verso il bagno. Giobbe, il mio siamese dagli occhi blu, mi viene incontro strusciandosi contro la mia gamba. Prendo dall’armadietto un’altra pillola e butto giù anche quella. Quante pillole! Il prezzo da pagare quando le 79 candeline sono già state spente. Sospiro, infastidita dall’idea di un’altra giornata davanti a me. Lunghe e insipide ore, vissute nell’attesa che finiscano. Alzo il viso e il riflesso che mi rimanda lo specchio mi fa subito volgere lo sguardo dall’altra parte. È passato un anno, ma il dolore di quello che è stato lo porto ancora stampato sul viso.
In cucina trovo Tobia seduto al solito posto, nascosto dalle grandi pagine del quotidiano.
«Buongiorno, caro» gli dico avvicinandomi ai fornelli. Sordo com’è, di certo non mi ha sentita. Riempio la moka e la poggio sul fuoco. Dalla finestra giunge il chiarore di un mattino avvolto dalla neve. La guardo cadere lenta.
Il sibilo stridulo della moka mi richiama a sé. Verso il caffè in una tazzina e mi metto a sedere di fronte a Tobia. Il primo sorso di caffè è caldo, avvolgente. Nel frattempo, Tobia ha ripiegato il giornale, chiudendolo e lasciandolo sul tavolo. Osservo attentamente le sue mani: sono forti, nodose, vecchie, piene di calli e di vita. Quante volte, in 60 anni, queste mani mi hanno toccata, accarezzata, protetta… Finisco il caffè, mi alzo e poggio la tazzina nel fondo del lavello. Faccio una doccia veloce, una spazzolata ai capelli, un filo di rossetto e sono già nell’ingresso di casa. Tobia è seduto sulla poltrona posta a un millimetro dalla tivù.
«Sai, tesoro» gli dico annodando il foulard al collo, «nella notte al rifugio hanno portato una cucciolata con la mamma, una cockerina nera. Erano nei pressi del lago. Ma ci pensi? Chi può essere così crudele da abbandonare una cucciolona solo perché incinta?». Prendo le chiavi appese nella casetta di legno posta accanto alla porta. «E poi, Senzanome, ti ricordi di lui? È ancora là, in paziente attesa che la vita gli dia un po’ d’amore».
Tobia ha sintonizzato la tivù su UnoMattina, un altro dei suoi programmi. Apro la porta.
«A più tardi».
“Fai presto, che manchi già” mi sembra di sentirgli dire. Ma sono già fuori, ho chiuso la porta alle mie spalle, la sigla di UnoMattina ha coperto le parole.
Forse l’ho solo immaginato. La sede del rifugio si trova in una vecchia masseria alle porte del paese. Greta l’ha ereditata da una zia e l’ha rigirata come un calzino, modificandone gli spazi esterni ed interni, puntando alla funzionalità e alla comodità. Vengo accolta dalle sue braccia forti e materne: «Amica mia. Come stai?».
«Starei meglio se mi lasciassi respirare» le dico con un filo di voce.
«Sempre con la battuta pronta, la nostra cara Mirea» sorride, liberandomi finalmente dall’abbraccio.
Poggio la borsa sul tavolo di quercia colmo di foto e vari dépliant. Silvia, Marialba e Loredana sono già al lavoro. Fuori comincia a cadere una leggera pioggerellina di ghiaccio. «Sto bene, Greta, grazie» rispondo togliendo la giacca.
«Sai che puoi contare su di me, per qualsiasi cosa».
«Lo so e ti ringrazio tanto. Ma sto bene».
Greta annuisce. Raccoglie alcuni foglietti e li distribuisce a ognuna di noi.
«Bene, possiamo cominciare: questi dépliant andranno appesi nelle vetrine del paese».
«Di che si tratta?» chiedo incuriosita.
Poi allontano il volantino dal viso per metterlo a fuoco. «Una gara di dolci a Piazza Vecchia?».
«Non è fantastico?» grida Greta. «Una raccolta fondi! Le nonne del paese accorreranno numerose e il rifugio ci guadagnerà qualche soldino. Potresti portare la tua torta di mele». Dalla finestra arriva il rumore della pioggia che adesso picchia forte contro i vetri.
«È un’idea fantastica, ma non contate su di me. Non sono ancora pronta per le feste» dico liquidando la cosa come fosse una mosca fastidiosa.
«Ma non sarà una festa» s’intromette Silvia, l’angelo dei trovatelli, quella che a qualsiasi ora del giorno e della notte risponde alle chiamate, salta in macchina e va a salvare le povere bestie abbandonate. «Vedila così: un’occasione per sensibilizzare la gente del paese su temi come l’abbandono e la cura dei propri animali. Sai quanto l’aspetto economico pesi sulle adozioni e sul mantenimento dei cerca-famiglia».
Silvia ha ragione. Qui i soldi non bastano mai. Ma per me è ancora tutto troppo presto. Mi serve tempo, me ne serve ancora. E ancora. E ancora.
«Ci penserò, ma non vi prometto nulla» sospiro.
Greta mi abbraccia di spalle. «Tutte qui conosciamo il tuo dolore. Pensaci. Ora, però» dice staccandosi dall’abbraccio, «si comincia a lavorare: Silvia e Miralba, vi va di distribuire questi volantini con me? Loredana, tu occupati di rispondere alle chiamate e tu, Mirea, vieni con noi o resti in masseria?».
«Resto qui».
Le osservo dalla finestra allontanarsi fino a diventare un puntino indistinto. Non piove più, forse era solo un nuvolone passeggero.
«Novità di Senzanome?» chiedo a Loredana, chiudendo la tenda e allontanandomi dalla finestra.
Fa di no con la testa. «Nessuno sembra interessato a lui. Invece, sapessi che fila per i cuccioli della cockerina!».
Tipico. Le bestie vecchie come Senzanome non le vuole nessuno. «Ti dispiace se vado un po’ da lui?».
«Fai pure con calma, qui ho tutto sotto controllo».
La gabbia di Senzanome si trova sotto una grande quercia. Quando lo libero è un tripudio di felicità: scondinzola, saltella, mi lecca le mani, piange di gioia. Un bellissimo incrocio di Border Collie di taglia media, bianco e nero di circa sette anni, trovato lungo i bordi dell’autostrada che vagava senza meta, denutrito e rassegnato. Mi si accuccia ai piedi. «Piccolo tesoro. A volte penso che tu sappia cosa ho dentro a questo mio vecchio cuore».
Il cane mi guarda con occhi dolci e devoti. La vita continua a chiamarmi verso le sue mille cose da fare e da vivere e Tobia, mi pare di sentirlo ancora: “Qualsiasi cosa succeda, cara, devi andare avanti con forza, coraggio e determinazione”. Ma verso cosa dovrei ancora andare avanti, alla mia età? Un tuono preannuncia una nuova ondata di pioggia. «Su, tesoruccio, torna dentro, prima che io e te ci buschiamo un raffreddore».
Chiudo la gabbia e Senzanome inizia a guaire finché non scompaio dalla sua vista e dal suo olfatto, inghiottita dall’imponente masseria.
Tobia ha sempre adorato la mia torta di mele. Non c’è mai stata occasione in casa nostra celebrata senza quel dolce. «Non ne ho voglia, Tobia. È questa la verità. Anche se partecipassi alla raccolta fondi con la mia torta, non cambierebbe nulla. Per carità, darei il mio contributo, è vero. E Senzanome e tutti gli altri hanno bisogno di me, già. Giusto, Senzanome! Quanto mi è caro quel cagnolone, quanta pena mi dà saperlo in gabbia. La vita non gli ha dato nulla, neanche un nome» dico, tornata a casa.
Chiudo gli occhi. Sento la tristezza stringermi il petto, un macigno pesante su di me.
Avvicino il viso sul cuscino di Tobia. Sa del suo profumo preferito. E così mi addormento, piena del suo odore, mentre i tuoni e i lampi là fuori squarciano il cielo.
La gara di dolci arriva e finisce così in fretta che neanche me ne accorgo. Alla fine, ho deciso di andare. I trovatelli non meritano la mia burbera tristezza. A fine serata mi allontano verso le gabbie. Senzanome sta rannicchiato in un angolo, sonnacchioso. Lo libero e lui mi travolge con il suo amore.
Poi, accade qualcosa di strano. C’è un attimo in cui i nostri occhi si incontrano. Dentro gli occhi di un cane sfortunato vedo la mia sofferenza e lì prendo finalmente consapevolezza del mio dolore e del potere che io ho di metterlo a tacere.
«Non puoi imprigionare il tempo» mi ha sempre detto Tobia. Aveva ragione.
Non ci sono mai riuscita. Ora devo liberarlo dalle catene che gli ho attaccato addosso per tenerlo sempre con me.
Senzanome cerca di guarire le mie ferite invisibili leccandomi le mani, mentre calde lacrime cominciano a rigare il mio viso. Restiamo così per un tempo che non riesco a definire – un minuto? un’ora? – poi asciugo le lacrime col dorso di una mano e prendo un gran respiro.
«È tempo di ricominciare, Senzanome».
Il cane piega la testa di lato.
«Io sono pronta. E tu?» gli chiedo.
Lui abbaia festoso. Lo prendo per un sì. Entro in casa. Slaccio il guinzaglio a Senzanome, che inizia ad annusare tutt’intorno, poi salta sulla poltrona accanto a Tobia. Giobbe, il mio gatto, lo guarda indifferente. «Sono tornata tesoro mio. E non sono più sola. Guarda un po’ chi c’è».
Tobia accarezza Senzanome sulla testa. “Hai fatto la cosa giusta, cara. Lui ha bisogno di te, così come tu di lui. Ora posso anche andare” mi sembra di sentirgli dire con quella voce che è ancora dentro di me e che non riesco a far andare via.
«E se mi mancherai?» dico ad alta voce, guardando le pareti del mio vecchio salotto. “È dentro al cuore che teniamo tutto quello che non se ne va più”.
Chiudo gli occhi. Quando li riapro, Tobia non c’è più. Al suo posto adesso c’è Senzanome. Mi siedo accanto a lui. «Ti sei preso la poltrona del mio Tobia. Ecco come ti chiamerai!».
Il cane scodinzola felice, poi abbandona fiducioso la testa tra le mie mani. Dietro di noi, su un mobile anni ’50 pieno di ricordi, Tobia sorride felice dalla sua foto. Ho sentito la sua presenza in tutti questi mesi. Il ricordo di chi era quando era insieme a me mi ha accompagnato nel dolore per averlo perso. Lasciandolo andare spezzo anche le mie di catene e, così, non perdo chi siamo stati, l’uno per l’altra, per più di 60 anni. Vado a letto serena, con Giobbe ai piedi e il cane Tobia al mio fianco. Ci addormentiamo stretti. Nel buio della sera le luci nelle case e nella vita degli altri brillano come tante piccole lucciole, mentre la neve ricomincia a cadere giù, lenta, bianca e silenziosa.●
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