La notte del 24 agosto 2016 la terra ha tremato sui confini tra Marche e Lazio. Ogni nostro sogno è stato violato di colpo e tra le macerie ho perso mio figlio. Oggi credo che sia lui a guidarci verso i bambini che hanno bisogno del nostro sostegno. Che cerchiamo di aiutare ricordando il suo sorriso
storia vera di Massimo Ciarpella raccolta da Marco Angilletti
Dopo la separazione dei miei genitori, la spensieratezza dell’infanzia non ha più zuccherato i miei giorni. Mi sono ritrovato a crescere tra sacrifici e sovraccarichi emotivi. Sin da giovanissimo, ho promesso a me stesso che mi sarei impegnato per creare una famiglia tutta mia, colmando qualunque mancanza e seminando ogni bene. Così è stato.
Ero l’uomo più soddisfatto di questo mondo: una quotidianità piena di valori, un lavoro appagante, l’amore di una compagna e due figli incantevoli, Giorgia e il piccolo Giordano. Non chiedevo nulla di più, mi bastava sapere che eravamo una pigna e che insieme saremmo stati indistruttibili. Non avevo fatto i conti con le avversità della vita, quelle di dimensioni apocalittiche che sembrano lontane anni luce dai tuoi piani. Poi invece colpiscono proprio te e tutto cambia, per sempre.Eravamo in vacanza nel paese dei miei suoceri, nella frazione di Pescara del Tronto.
Era la prima estate che trascorrevamo nella nuova casa di tre piani costruita con sacrificio dalla famiglia di Manuela. Suo padre aveva realizzato un capolavoro, impreziosendola con tutta una serie di decorazioni in pietra. Si trovava nei pressi di una vecchia fabbrica dove negli anni Venti si sfruttava la sorgente per produrre la gazzosa. Tra mare e montagna, il mese di agosto si era preso cura di noi con una parentesi di respiro e bellezza. Saremmo rimasti lì un altro paio di giorni, poi avremmo fatto ritorno nella nostra amata Roma.
Quel pomeriggio avevo accompagnato Giordano a divertirsi nel parco giochi a due passi da casa.«Papà, io non voglio che tu e mamma moriate», il mio ometto con la parlantina da adulto mi aveva sorpreso con una frase piombata dal cielo. «Voglio morire io al posto vostro».
Non c’era il benché minimo motivo per indurlo a pensare a qualcosa di brutto, nessuno screzio in famiglia, nessuna notizia preoccupante. Quella riflessione oggi mi arriva come una carezza ogni volta che ci ripenso. L’ho rassicurato, abbiamo riso insieme e siamo rientrati per cena.
La notte del 24 agosto, poco dopo le tre e mezza, la terra ha iniziato a tremare con brutalità sui confini tra Marche e Lazio. Con le teste sul cuscino, ogni nostro sogno è stato violato di colpo. Io dormivo al piano di sotto, insieme a Manuela e nostra figlia Giorgia. I miei suoceri al piano di sopra, in compagnia di Giordano.
Boati immensi, di quelli che ti impediscono di capire cosa stia accadendo. Era come se dagli inferi una forza maligna si fosse messa a spingere con tutta la pressione possibile per uscire allo scoperto e fare implodere ogni traccia di bellezza.
Le case cominciavano a crollare, le strade ad aprirsi. Solchi e voragini finivano per seppellire panchine e vasi di gerani. Su una parete della nostra stanza si era creato un grosso buco e noi tre scappammo da lì. Ci ritrovammo fuori nel buio più totale, disorientati e turbati. Ogni dolore iniziale sotterrato da centimetri di polvere sui nostri corpi. L’elettricità era saltata, si sentivano soltanto esplosioni, come ordigni senza pietà che squarciavano il paese.
La terra continuava a vibrare. Ogni muro scivolava via con la stessa fragile essenza di un castello di sabbia. I vetri delle case presero a scoppiare diventando mitragliatrici di schegge. Urlavamo, ma quei continui sconvolgimenti coprivano le nostre voci. Restavamo uniti cercandoci con le mani, mentre nubi di polvere ci rendevano fantasmi nascosti in un aggroviglio di terrore.
Cercavamo Giordano e i miei suoceri. Quando la terra smise di tremare, le grida delle persone che chiedevano aiuto iniziarono a popolare la valle. In un impeto di lucidità urlai a Manuela e Giorgia di recarsi nella zona del parco giochi, lì sarebbero state al riparo da nuovi crolli.
Mi misi immediatamente a cercare i miei familiari. Un sasso mi era caduto in testa, ero sanguinante, camminavo scalzo su un tappeto di vetri, pietre e frammenti di ogni tipo. Ricordo il sapore amaro della polvere in gola, cemento sulla saliva, mi affogava insieme alla puzza di gas che in un attimo aveva inondato tutta l’area. Mio suocero urlava e finalmente riuscivo a sentirlo, sebbene avessi perso l’orientamento.
«Dove sta Giordano?» gli gridai con tutta la forza che potevo.
«È qui con me» rispose.
Due scosse molto forti mi fecero sprofondare la terra sotto i piedi. Caddi in una cavità, ma riuscii a risalire. Era passata più di un’ora, nel totale smarrimento. Avevo provato a scavare, a spostare massi, a trovare vie di accesso mentre seguivo la voce di mio suocero, però il buio complicava ogni passo.
Il migliore regista di un film dell’orrore non sarebbe in grado di inscenare ciò che abbiamo vissuto.
Manuela tornò nei pressi della casa, era riuscita a recuperare una torcia. Ripresi le ricerche e finalmente scovai il piede di mio suocero sotto un ammasso di detriti. A mani nude continuai a cercare, finché non trovai accanto a lui mia suocera e mio figlio. Giordano, cuore mio, aveva una trave di legno sul capo. Capii immediatamente che la situazione era molto grave.
Lo strappai via dalle macerie, tentai il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Nulla, non sentivo un filo di fiato. Le labbra nere e le manine senza forza.
La prima ambulanza arrivò proprio per lui, dopo due lunghe ore dalla prima scossa. Presi in braccio il mio scricciolo impolverato e lo consegnai a loro, come un umile peccatore che consegna suo figlio nelle mani della Madonna implorando salvezza.
In quei 20 minuti in cui lo hanno tenuto dentro, ho sperato in un miracolo. In mezzo a tutte quelle rovine, anche il mio cuore si era frantumato in mille cocci. Pensavo mi esplodesse.
Non ci fu nulla da fare: nonna Amelia e il piccolo Giordano erano volati via per sempre, mano nella mano, uniti da quell’amore che solo nonni e nipoti sanno plasmare.
La salma di mio figlio è stata la prima a essere trasportata ad Ascoli, in quel luogo dove decine e decine di corpi avrebbero atteso qualche parente sopravvissuto.
Strade dilaniate, cumuli di rocce, armadi fuori dalle case, peluche sui tetti, frigoriferi sulle auto. Polvere, e polvere, e polvere. Pescara del Tronto era scomparsa. Attorno a noi erano morte più di 40 persone, di cui nove bambini. Nella nostra zona, gli unici a essersi salvati eravamo noi.
Di tutte le ore successive ricordo ben poco. Il corpicino di Giordano in una bara. I funerali solenni. I giornalisti. La disperazione di un’intera comunità. La solidarietà degli italiani. Ho solo dei flash, ma nulla di nitido mi è rimasto dentro.
Perché non è successo a me? Un fiore non può appassire prima del seme che lo ha fatto sbocciare. Perché un sacrificio del genere deve portarlo sulle spalle un bimbo di quattro anni e pochi mesi? Una domanda che mi assilla ogni giorno. Se da un lato Dio si circonda delle anime migliori, quando sarò al suo cospetto gli spiegherò il dolore che si prova in terra per ogni angelo strappato.
Giorgia aveva appena nove anni. È lei che ci ha presi per mano e ci ha trascinati verso la salvezza. Se non fosse stato per il suo amore, mi sarei lanciato da qualche cavalcavia per porre fine a un tormento innaturale. Avevo paura a stare da solo, mi ero rifugiato nella fede e affollavo la casa di gente ogni giorno. Abbiamo seguito un percorso psicologico di famiglia, altrimenti non saremmo arrivati dove siamo. Dopo la disperazione è giunto il tempo dell’elaborazione, poi il convincimento che, malgrado il dolore, bisognava andare avanti. La voglia di fare del bene era tanta, per contraccambiare tutta la bontà che continuavamo a ricevere. Già dopo un mese dal terremoto, ci siamo impegnati in una raccolta di vestiti da donare agli sfollati: la gente ha risposto positivamente, siamo riusciti a fare tre viaggi con un furgone. L’idea era quella di rendere eterno il sacrificio di Giordano e fare rivivere la sua dolcezza, la stessa ritratta in quella foto in cui tiene teneramente stretti a sé i suoi peluche. Il 13 giugno 2017 abbiamo ufficialmente dato vita all’associazione “Insieme a Giordano”. Quanta emozione il giorno dell’inaugurazione: più di 1.000 persone nel campo sportivo del quartiere Marconi di Roma. Insieme ad amici e volontari abbiamo iniziato a rintracciare storie di bambini che avevano difficoltà a curarsi, a viaggiare e a realizzare i propri sogni. L’associazione si è spesa per loro attraverso piccole grandi gare di generosità. Nel 2018 siamo diventati genitori di Santiago, il nostro terzo figlio. Somiglia tantissimo a Giordano anche nei modi di fare. È arrivato come un segno dal cielo, ho percorso il cammino di Santiago per ringraziare il Signore di questo immenso dono e la sua nascita non ha fatto altro che stimolarci a triplicare il nostro impegno per gli altri. La maggior parte dei bambini aiutati aveva problemi di disabilità, non avevamo mai avuto a che fare con situazioni più estreme. Finché non ho conosciuto Agata, una bambina siciliana di nove anni ricoverata al Bambin Gesù a causa della leucemia. Anche lei mi ha cambiato la vita.
Quando l’ho vista in quel letto di reparto, mi sono subito innamorato dei suoi occhioni. Trascorreva le giornate realizzando dei bellissimi rosari con le perline per poi venderli in ospedale.
Tramite un video pubblicato sui social ho invitato i miei amici a sostenere il lavoro di Agata e si è scatenata una solidarietà incontenibile.
Nel suo sguardo e nelle sue mani ho sempre percepito l’innocenza di Giordano. Siamo convinti che sia lui a guidarci verso i bambini che hanno bisogno del nostro sostegno. Trascorrevamo molto tempo insieme, ogni occasione era buona per andare a trovarla e fare compagnia ai suoi genitori. Quanto isolamento e difficoltà vivono le famiglie imprigionate in una città che non è la loro per motivi di salute.
Agata purtroppo non c’è più, la leucemia le ha dato un ultimo eterno bacio. Negli ultimi tre mesi di vita, non mi sono risparmiato in nulla: visite allo zoo, passeggiate nei parchi, a volte bastava solo un gelato in allegria per renderla felice. Lei diceva sempre di stare bene e dispensava buone parole a tutti. Ora è tatuata sulla mia pelle, con un rosario sul petto e una corona accanto al cuore con su scritto “principessa”. Perderla mi ha fatto cadere di nuovo in quel terribile supplizio.
«Voglio chiudere l’associazione» ho detto con voce ferma a Manuela e ai nostri volontari. «Dopo Giordano, anche Agata. Non posso continuare a farmi schiacciare dal dolore».
«Pensa a tutto quello che hai fatto per lei e a come l’associazione ti ha permesso di aiutarla» mi hanno subito invitato a ragionare. «È questo il senso della vita, Massimo».
A fatica mi sono rimesso in gioco per l’ennesima volta. Sentivo la vocina di Giordano che di notte mi sussurrava in un orecchio di non fermarmi. È lui il vero carro armato di splendore. Se prima eravamo noi a cercare famiglie da aiutare, ora siamo sommersi di richieste. In questi anni abbiamo donato circa 500.000 euro. Con queste famiglie si sono creati legami indissolubili: ci si sente, ci si confronta, si piange e si ride insieme.
Tante gocce che hanno finito per creare un oceano di amore. E per fortuna che non mi sono fermato, mi sarei perso il nostro migliore progetto.
Era uscito un bando che permetteva alle associazioni di richiedere un bene confiscato alla criminalità organizzata. Dopo aver presentato la domanda, non dormivo la notte, lo desideravo con tutto me stesso. E alla fine il destino ha voluto che fossimo noi i vincitori: ci è stata assegnata una casa proprio nel nostro quartiere, a 100 metri dalla nostra. Se non è questo un segno! L’abbiamo chiamata “La casa di Giordano”: un grande salone, una cucina e due camere da letto, la “stanza di nonna Amelia” e la “stanza di Agata”.
Le famiglie che giungeranno a Roma per ricevere cure e assistenza avranno un nido dove stare. I commercianti del quartiere si sono resi disponibili a provvedere alle colazioni e ai pasti. C’è chi ha fornito gratuitamente i mobili, chi gli elettrodomestici, chi ha fatto lavori di muratura, un tatuatore ha realizzato disegni sulle pareti per vivacizzare gli ambienti.
“La casa di Giordano” non è una casa: è un’altalena che non conosce riposo, dove i bambini si siederanno spensierati toccando con mano quanto sia splendido e profondo l’essere comunità.
Aiutando il prossimo siamo riusciti a dare un volto nuovo alla nostra sofferenza.
Dopo 18 anni insieme, ho chiesto a Manuela di sposarci. È bellezza che si aggiunge ad altra bellezza. Giordano e tutte le famiglie amiche sono i testimoni migliori che potessimo scegliere per festeggiare il nostro sentimento.
Un giorno riabbracceremo nostro figlio e torneremo a correre insieme, contenti di avere seminato così tanto nel suo nome. Per ogni bambino che aiutiamo ci piace immaginare il sorriso di Giordano che da lassù ci guarda e ci guida. È lui che bussa alle porte di coloro che vivono un senso di solitudine e smarrimento. Li abbraccia a uno a uno, li accarezza, ci gioca insieme, li prende per mano e li accompagna in quel mondo fatato dove neppure il peggiore dei terremoti riesce a demolire la potenza dell’amore. ●
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