“Nella giusta prospettiva” di Roberta Giudetti, pubblicata sul n. 28 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Sono sempre stato PICCOLO di statura e per questo più FRAGILE degli altri. A scuola soffrivo di complessi d’INFERIORITÀ, nessuna ragazza si accorgeva di me. Poi ho imparato a GUARDARE le cose in modo diverso. Non dall’ALTO, con il CUORE
Storia vera di Gianluca T, Raccolta da Roberta Giudetti
Sono un uomo che ha sempre detestato le mezze misure e, neanche a farlo apposta, non sono mai cresciuto oltre il metro e sessanta. Né alto, né davvero basso, non in senso patologico per lo meno. Solo una questione genetica: un padre e una madre piccini e minuti. Un nonno piccino e minuto. E questa è la mia storia, quella di un uomo che non era abbastanza basso da essere considerato affetto da nanismo, ma nemmeno abbastanza alto da vivere guardando le persone diritto negli occhi. Mi sentivo sempre in una posizione di inferiorità. Oggi, a quasi cinquant’anni, so che i problemi veri della vita sono altri ed è sempre stato il mio atteggiamento il vero handicap, ma allora per me la mia statura rappresentava un limite immenso. Mia madre me lo ripeteva sempre: «Pensa alla salute, Gianluchino!».
Ma a quindici anni il mondo non ha sfumature, o è bianco o è nero. E io soffrivo moltissimo ed ero convinto che la mia poca fortuna in amore dipendesse solo da quello, dalla mia statura.
Quando il mio corpo, in preda a un’incontenibile tempesta ormonale, stava esplodendo ed ero cotto di Giulia, la mia vicina di banco, e lei mi guardava come se fossi un insetto che si era appoggiato sul suo gelato, io già sapevo che sarebbe stato così per sempre. Sapevo che non ero il tipo da far innamorare davvero una donna.
Avevo quindici anni ma ne dimostravo undici. Ero basso, gracile e avevo un visetto dolce, da ragazzina, così mi diceva sempre mia zia Rosa, come se fosse un complimento. Tutti i miei amici avevano preso il volo, erano diventati alti, avevano allargato spalle e torace, ad alcuni già erano spuntati i baffetti, e io sembravo mia sorella. Avevo un caratteraccio e rispondevo sempre male a tutti. Per questo mi avevano bocciato, sia in prima che in terza media, per la condotta.
Avevo creduto che, dovendo ripetere l’anno per la seconda volta, essendo il più anziano della classe mi avrebbero portato rispetto. E che finalmente qualche ragazza, più giovane di me di ben due anni, mi avrebbe notato. Invece niente: non ci credevano che fossi più grande.
Non me ne andava mai bene una. Per Giulia non esistevo e per il resto della classe, ero un ritardato. Per anni a scuola, a causa del mio aspetto fisico, sono rimasto per lo più solo. Non avevo amici. Potevo contare su mio fratello maggiore che però non mi capiva davvero, lui non era basso come me. Aveva quei cinque centimetri in più che fanno la differenza.
I miei genitori non davano peso alla mia insofferenza. «Portatemi da un medico, perché non cresco?».
«Non devi preoccuparti. Nessuno di noi è alto, non aspettarti di crescere molto. Sei sano, questo è l’importante».
No. Non era importante per me. Fino ai vent’anni anni la mia vita fu un incubo. Poi finalmente mi sviluppai. Divenni quasi carino, ma rimasi sempre minuto e piccolo di statura. Non raggiungere il metro e sessanta per un uomo significa essere bassi. Significa passare inosservati. A volte, derisi. Essere considerati poco adatti a proteggere una donna. Il detto “altezza, mezza bellezza” vale ancora di più per un uomo. La mia gioventù è stata costellata da rabbia, frustrazioni e voglia di rivalsa. A quell’età mi sembrava un problema impossibile da superare. Peggio di una malattia. Poi iniziai a guardarmi attorno. Grazie al cielo esistevano ragazze più piccole di me, così iniziai a rimorchiare. Avevo un certo successo fra le donne, in verità. Ci sapevo fare, soprattutto a letto. Ma non mi innamoravo mai. Perdevo la testa solo per le stangone. Per le ragazze molto più alte di me. Un classico, lo so. Mi piacevano alte, belle, appariscenti: tutto quello che non avrei mai potuto avere. Riuscivo a portarle fuori a cena ma poi non ci stavano mai. Mi sembrava mi guardassero dall’alto al basso. Ripensandoci oggi, non credo fosse davvero così, ma io mi sentivo ridicolo ai loro occhi. Un circolo vizioso, una gabbia in cui mi ero rinchiuso con le mie mani.
Con gli anni avevo imparato a tenere a bada livore e invidia. Avevo iniziato a lavorare. Avevo preso la patente per i camion. E sì, ero un piccolo uomo alla guida di spaventosi Tir, ma ero bravo nel mio lavoro e guadagnavo bene. Su e giù per l’Italia, una donna in ogni porto e in ogni autogrill. A venticinque anni guadagnavo il doppio di qualsiasi mio coetaneo che ancora studiava e questo mi rendeva appetibile nonostante la mia statura. Avevo imparato a corteggiare le donne. Potevo permettermi di invitarle a cena in ristoranti di classe e fare loro dei regali costosi. Molte mi volevano, ora, ma io non volevo nessuna. Andai avanti così per molto tempo. A trentacinque anni avevo guadagnato tanto da comprarmi una bella casa. A quaranta, tanto da mettermi in proprio. Avevo la mia piccola azienda di trasporti e tre dipendenti. Avevo uomini più alti di me che prendevano ordini da me. Non mi mancava nulla. Tranne una famiglia. Tranne un amore vero. Lo avevo capito da ragazzo che l’amore non era cosa per me. Che gli uomini bassi di statura sono destinati a guardare dal basso verso l’alto e questo li rende più fragili. Io avevo promesso a me stesso che non avrei permesso al cuore di tradirmi.
Ma un giorno sulla mia strada ho rincontrato Giulia. Al Pronto Soccorso. Mi ero fatto male a una mano, me l’ero chiusa nella portiera. Lei non mi aveva riconosciuto, ovviamente. Io sì. Non era cresciuta molto nemmeno lei, ed era minuta. Quando le ho passato i miei dati, ha sollevato lo sguardo su di me, titubante. Allora le ho rammentato chi fossi e dove c’eravamo conosciuti. Abbiamo iniziato a parlare. Era separata e aveva due figli. Faceva l’infermiera e la sua infelicità gliela si poteva leggere negli occhi. Era ancora carina ma niente per cui perderci il sonno. «Allora hai fatto una bella carriera».
«Già, chi lo avrebbe detto? A scuola ero sempre l’ultimo e invece… Tu non mi guardavi nemmeno!».
«Non è vero» si era difesa lei, «ero solo in soggezione. Tu avevi due anni in più, ci guardavi come se fossimo dei bambini stupidi».
Scoppiai a ridere. Non credevo a una parola, ma tant’è, non mi importava più. La invitai a uscire. La portai nel miglior ristorante che conoscevo, le regalai tre rose rosse e quella sera stessa la portai a casa mia. L’amai tutta notte come se dovessimo dirci addio il giorno dopo. Volevo lasciare un segno. Volevo che si ricordasse del piccolo Gianluchino. Dopo quella volta, non l’ho più cercata. Avevo capito che ero solo legato a un fantasma, a un’idea. Non ho mai risposto nemmeno ai suoi innumerevoli messaggi. Finché un giorno me la sono trovata in ufficio. Tutta seria, spaventata. In effetti un segno lo avevo lasciato: Giulia era incinta. «Devi aiutarmi. Ho già due figli, sono sola. Non posso permettermi un terzo figlio, a quarant’anni poi». Giulia era venuta a informarmi che avrebbe abortito. Ero stordito, frastornato. L’unica cosa che riuscivo a pensare era: avrò mai un’altra occasione per essere padre?
Non so francamente in quel momento quanto mi importasse di lei, ma per me quella notte era successo un miracolo. Rimasi immobile, la fronte corrucciata, il respiro sospeso. Giulia scoppiò a piangere e io ci misi un po’ ad accostarmi a lei, ad abbracciarla. A rassicurarla. «Andrà tutto bene, Giulia. Ci sono io, ora».
«Mi puoi accompagnare tu, per favore?», aveva domandato, tremando. La strinsi più forte.
«Possiamo parlarne con calma?».
In quell’istante mi ero reso conto che desideravo quel figlio. Solo questo. Così ho convinto Giulia che mi sarei preso cura di lei e dei suoi figli. Dopo tre settimane si sono trasferiti a casa mia. Giulia sembrava felice di questa nuova vita, a me importava per lo più del bambino in arrivo e della sua salute. Volevo che mangiasse sano, che smettesse di fumare, che lavorasse il meno possibile. Potevo pensare io a tutto. Al quinto mese abbiamo scoperto che aspettavamo un maschio: sono impazzito di gioia.
Dal momento in cui Albertino è arrivato nella mia vita, non è esistito più nessun altro. A Giulia e ai suoi figli non ho mai fatto mancare nulla.
Mio figlio. Quando lo portavo al parco, in piscina, al nido, ovunque, e dicevo che era mio figlio, finalmente mi sentivo un uomo completo. La mia statura non aveva più alcuna importanza. Ma Giulia non era felice. Lo vedevo che non era felice. Una sera la trovai seduta in cucina, le valigie pronte. Voleva andarsene con i suoi figli.
«Cosa ti manca? Cosa?», avevo gridato.
«Il tuo amore». Non sapevo cosa risponderle. L’idea di perdere quello che avevo, l’idea di perdere Giulia, la piacevole abitudine di trovarla a casa la sera, di dividere il divano e il letto con lei. I suoi figli a cui mi ero legato e il mio Alberto. No. Non sarei mai sopravvissuto a un vuoto simile. «Mi vuoi sposare?».
Forse una donna più orgogliosa non avrebbe accettato. Era il tentativo disperato di salvare quello che ormai consideravo il mio mondo e a cui non volevo più rinunciare. Ma nella vita reale, le donne hanno anche senso pratico e Giulia sapeva di avere bisogno di me. O forse lo prese come un gesto d’amore. Comunque sia, si fermò.
Dopo tre anni che vivevamo insieme, Giulia organizzò un matrimonio da favola. Ci siamo sposati in una caldissima giornata d’estate. Lei indossava un abitino a palloncino color glicine, Albertino era stupendo nel suo completo grigio da ometto, paffuto e ricciolino come me. I suoi fratelli erano belli e sorridenti mentre portavano le fedi. Ho pensato che non mi ero mai sentito tanto alto in vita mia. Avevo una famiglia meravigliosa, questa era la realtà. Ora toccava a me non rovinare tutto. Guardare ciò che avevo nella giusta prospettiva. Mi sono girato verso Giulia per un attimo e ho pensato: “vabbe’, fra noi non è iniziata come dovrebbe, però potrebbe chiudersi con un buon finale. Con due persone che stanno bene insieme, hanno imparato a conoscersi, a crescere una famiglia. Ad amarsi”. Ci siamo baciati e nel suo sguardo per la prima volta non vi ho letto solo gratitudine, vi ho letto amore. Era qualcosa di nuovo per me. Mi faceva stare bene.
La nostra storia, è iniziata così.
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