Storia vera di Enrico B. raccolta da Roberta Giudetti
Non ho mai pensato di poter desiderare di diventare nonno, finché non ho avuto qui in casa quel terremoto di Alessio. Dicono che a una certa età, certi desideri diventino prioritari, ma io, forse perché sono stato un padre poco presente, non sapevo quanto mi avrebbe reso felice. Non sapevo che avrei desiderato di imparare a giocare a nascondino, a Memory, a cantare le canzoni dei film della Disney e a rincorrere i cani al parco.
Ero abituato a una vita piena di altro. Docente ordinario di Logica presso l’Università Statale della mia città. Fra lezioni, seminari, convegni, saggi, dispense, ricevimento studenti e laureandi. A casa, sulla porta del mio studio, l’immancabile post-it “Non disturbare”. Avevo giusto un po’ di tempo per mia moglie, che è la mia compagna sin dai tempi del liceo. Ho fatto follie per stare con lei, compreso un anno di studio matto per recuperare due anni in uno, visto che mi ero fatto bocciare in terza e non eravamo più nella stessa classe. Fortunatamente, la mia stupidità di allora non ha compromesso i miei piani: ho riscritto il mio futuro dopo quell’incidente di percorso, mi sono diplomato e poi laureato a pieni voti, ho intrapreso la carriera accademica. Soprattutto ho sposato Paola e qualche anno più tardi è nata nostra figlia Lisa. È risaputo che i padri hanno spesso un rapporto privilegiato con le figlie, io no. Avrei voluto averlo. Avrei voluto passare più tempo con lei, specie durante la sua adolescenza. È in quel periodo, di solito, che i figli possono sfuggirti di mano. Cambiare percorso. Desiderare di staccarsi dal nido. Con Lisa è successo proprio questo. Nessun conflitto, anzi, solo che io e mia moglie, con le nostre carriere ben avviate, il nostro essere forse poco presenti, poco assillanti, l’abbiamo resa molto autonoma. Anche troppo. Lisa era già indipendente a 16 anni. Non dico economicamente, ma affettivamente. Lei con noi era affettuosa, ma non parlava. Non aveva bisogno di noi per consigli e suggerimenti se non di ordine pratico. Libri da leggere, viaggi, film, una ricetta particolare, ma mai qualcosa di personale. Io, di mia figlia, sapevo il minimo sindacale. Che studiava molto, che era appassionata di materie scientifiche, che amava le stelle e qualsiasi forma di materia presente nel cosmo. Che adorava scrutare il cielo sin da piccola, tanto che uno dei primi regali che aveva chiesto a Babbo Natale era stato un piccolo telescopio ma che fosse vero, non un giocattolo, laddove le sue compagne desideravano l’ultimo modello di Barbie. Nessuna sorpresa pertanto quando all’università si è iscritta ad Astrofisica. Di lei però non mi arrivava, e anche a sua madre, la parte più intima. Non sapevamo se avesse mai avuto un fidanzato, di ragazzi non parlava mai. Portava in casa anche pochi amici o amiche. Ero consapevole che i genitori sono sempre gli ultimi a sapere, però avrei voluto essere più partecipe della sua vita. Forse avrei dovuto insistere un po’, farle capire che mi interessava davvero conoscerla. Quando a ventisei anni Lisa ci ha annunciato che aveva vinto un postdoc, ovvero una borsa di ricerca presso un centro di astrofisica e che questo centro era in Spagna, a Santander, siamo caduti dalle nuvole, ma non troppo. Per lei, era naturale andare a vivere lontano da casa. «Mi avete insegnato voi che viviamo in Europa, che siamo europei, non solo italiani», aveva commentato di fronte alle nostre facce attonite. «Dovete essere felici, non preoccupati. Vado in Spagna, mica in Australia!».
Tutto vero, e in fondo non andava poi così lontano. Ma era l’idea. E la sensazione di non avere avuto il tempo di stare abbastanza insieme a lei.
«Troverai un bel fidanzato spagnolo e non tornerai più» avevo cercato di scherzare. «Non ci contare», mi aveva risposto senza ironia, con dolcezza, sorridendomi.E mia figlia sorrideva talmente poco che lo avevo interpretato come una promessa. Un segno di affetto. Un “Papà, credimi, vado via solo per lavoro, per inseguire i miei sogni e le mie galassie, non certo perché qui sto male”. Lisa è partita e a Santander si è subito ambientata benissimo. Ci inviava foto del posto: la baia, il mar cantabrico, la cattedrale di Nuestra Señora de la Asunción, del suo ufficio, dei laboratori. Mai una foto di lei insieme ai colleghi, alle amiche. Però ci telefonava sempre e sapevamo che stava bene. Che era serena. A casa, era tornata solo pochi giorni, per le feste di Natale, e non ci aveva mai chiesto di andare a trovarla. Chiaro come ci sentissimo io e Paola: due genitori falliti. Da una parte, fieri di non aver legato morbosamente a noi la nostra unica figlia come spesso accade, dall’altra, vinti dalla sensazione di non averle dato radici e voglia di tornare.
Dopo oltre un anno, Lisa ci chiama e ci chiede finalmente di raggiungerla per un fine settimana.
«Vi devo dire una cosa però, una cosa importante. C’è una grande novità nella mia vita: sono incinta. Aspetto un bambino», ha rimarcato. Ora, con altri presupposti, avremmo gioito all’istante, solo che eravamo rimasti senza parole. Sbigottiti. E di nuovo assaliti dalla consapevolezza di non conoscere nostra figlia. Non sapevamo che avesse trovato un compagno, che fosse innamorata, che avessero deciso di avere un bambino. Non sapevamo nulla. Era successo per caso? O quella creatura era stata cercata, desiderata?
«Vi devo spiegare alcune cose, però: non ho un compagno. Questo bambino non avrà un padre, non nel prossimo futuro per lo meno. È figlio mio. Ho fatto la fecondazione artificiale. Qui in Spagna è possibile che una donna single ed economicamente autonoma la faccia. E io desideravo un figlio. Lo desideravo moltissimo e sapevo che questa era l’unica possibilità per me. Venite a trovarmi lo stesso?».
Ricordo che il silenzio fra me e mia moglie è durato ore. Non il gelo, per carità, non eravamo delusi, solo increduli. Spiazzati. Ci scrutavamo incapaci di trovare una risposta. Non stavamo rifiutando la scelta di nostra figlia, solo che avremmo voluto capire.
Poi, siamo corsi all’aeroporto.
Quello fu il primo di molti viaggi Milano-Santander. Volevo esserci questa volta per mia figlia. Non mi importava di capire le sue ragioni, le sue motivazioni, volevo esserci e basta. Lisa era omosessuale? Forse. Non lo avevamo mai capito, e per lei non era stato importante notificarcelo. O forse aveva vissuto una profonda delusione d’amore quando viveva in Italia e ora considerava gli uomini inaffidabili? Poteva anche darsi. Sta di fatto, che aveva preso una decisione, probabilmente una delle più importanti della sua vita. Sarebbe stata madre. E lo sarebbe stata in una situazione particolare, fuori da quella che viene considerata una famiglia tradizionale e quindi aveva bisogno di tutto il nostro appoggio e il nostro amore. Era importante che non si sentisse giudicata, solo accolta. Era una scelta che sicuramente era stata ponderata perché mia figlia era sempre stata una ragazza con la testa sulle spalle, e questo a noi sarebbe bastato.
La gravidanza di Lisa è stata una passeggiata e lei ha lavorato fino all’ultimo. L’università le ha assicurato l’assegno di maternità per un anno. La legge spagnola, che permette anche alle donne straniere che vivono in Spagna di procedere con la fecondazione assistita, prevede solo che per un anno, dopo la nascita del bambino, non si possa uscire dal Paese. Per questo motivo, io e mia moglie siamo andati avanti e indietro da Santander ogni volta che ci è stato possibile. La prima volta che ho tenuto fra le braccia Alessio, sono scoppiato a piangere. Non avevo pianto quando era nata Lisa, non sapevo nemmeno cosa mi stesse accadendo allora, molti uomini acquisiscono il senso di paternità dopo anni, o comunque ci mettono più tempo rispetto alle madri, per ovvie ragioni fisiologiche, credo. Ma Alessio, quel frugolo di tre chili e quattrocento grammi che già dopo poche ore dalla sua venuta al mondo stringeva il mio dito pollice, mi aveva stravolto l’anima. Mi regalava l’occasione di ricoprire un ruolo che avevo smarrito molti anni prima. E poi i nonni sono ancora più fortunati dei padri: possono viziare i nipoti senza che nessuno li accusi di educare nel modo sbagliato i propri bambini.
Dopo un anno in cui abbiamo imparato ad assaporare ogni sorriso, ogni gridolino, sillaba e gesto del nostro nipotino, io e mia moglie abbiamo iniziato a prendere in considerazione la possibilità di trasferirci in Spagna. Anche se mi mancavano due anni per assicurarmi il massimo della pensione, ero pronto a rinunciare finalmente alla mia carriera. Ed ecco che Lisa, a cui nel frattempo era scaduta la borsa di studio, partecipa a un concorso all’osservatorio astronomico di Milano, e lo vince. E siccome è passato oltre un anno, può lasciare il Paese e tornare a vivere in Italia.
Non ci siamo più trasferiti in Spagna, però io ho chiesto ugualmente di andare in pensione in anticipo. Abbiamo cambiato casa, in modo da avere due appartamenti adiacenti e comunicanti, con immensa gioia di nostra figlia che, a quanto pare, ha sempre avuto radici. Così, mi sovviene una frase del Dalai Lama: “Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere” e sorrido perché non è affatto scontato essere in grado di farlo ma ce l’abbiamo fatta.
Di fronte a questo sorprendente capitolo della nostra vita, io e mia moglie ci sentiamo tutt’altro che genitori falliti. Fidanzati o fidanzate di Lisa, all’orizzonte, non se ne vedono. Lei è serena, ride come non hai mai riso prima. È una mamma presente e affettuosa. Alessio sta crescendo sano, allegro, vispo, intelligente. Amatissimo. Mi chiama nonno Rico, non certo papà. Sulla porta del mio studio, a casa, ora c’è sempre un post-it che dice: “Non disturbare… sto giocando con il Boss”. Sappiamo perfettamente che quando inizierà a frequentare la scuola primaria, ci saranno domande, curiosità legittime o meno, e forse ne soffrirà. Ma noi saremo lì a fargli il cerchio d’amore attorno. A dare risposte. Ci sono bambini che hanno madre e padre e crescono soli e insicuri comunque. Noi siamo una famiglia. Siamo amore. E saremo sempre lì a donare ad Alessio ali per volare, radici per tornare e motivi per restare.
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