A trentacinque anni ero rimasta l’unica della compagnia a non avere figli ed ero contenta così. Ma certe emozioni bisogna viverle perché è il solo modo per capire cosa ti sei persa
Storia vera di Valentina G. Raccolta da Viola Orlando
Ho sempre pensato di non essere portata per i bambini. Credo che il mondo si divida in due grandi gruppi: quello delle donne che amano follemente i bambini, che parlano con la vocina in falsetto strabuzzando gli occhi come i personaggi di un manga giapponese, e quello delle donne come me per cui i bambini sono esseri meravigliosi e preziosi, ma misteriosi e che in quanto tali vadano tenuti a debita distanza.
A me i bambini non sono mai piaciuti, non sono mai stata quella che in un gruppo prende in braccio e si spupazza i figli degli altri chiedendo di essere chiamata zia. La cosa, c’è da dire, è sempre stata reciproca, perché quei piccoli esserini sanno esattamente scegliere con chi avere a che fare. Captano al volo chi sarà il malcapitato che potranno prendere in ostaggio per farsi raccontare venti volte sempre la stessa favola o la vittima prescelta per fare e disfare sempre lo stesso noiosissimo puzzle. Lo sanno e lo scelgono: io non sono mai stata scelta, per fortuna.
Ho sempre pensato oltretutto che le mamme facessero parte di una strana categoria: dolci e sensibili con i propri figli sanno essere taglienti come bisturi con chi non ne ha. Sanno farti sentire inadeguata e strana se non hai ancora deciso di mettere su famiglia con annessa prole. Domande insistenti, sguardi pesanti come macigni, giudizi non richiesti e via dicendo.
Ci sono donne, per esempio, che non ci riescono proprio ad avere un figlio, e magari non hanno voglia di venirlo a raccontare proprio a te, donne che piangono tutte le notti, ma che queste due benedette linee rosa sul test di gravidanza non le vedranno nemmeno in sogno.
Come la mia collega che desiderava da anni di restare incinta, si era rivolta ai migliori specialisti, ma proprio non ci riusciva. Soffrivo con lei ogni mese, quando sfumava l’ennesima speranza, anche se non la capivo, a essere onesta. Come ci si può disperare per un bambino che nemmeno esiste? Come si fa a pensare che la propria felicità possa derivare da un evento che forse non si manifesterà mai?
D’altro canto una donna può anche decidere di non averne voglia, voglio dire non è detto che una persona debba per forza desiderare di diventare madre: come capitava a me, insomma. A trentacinque anni anni ero rimasta l’unica della compagnia a non avere figli, e non ne volevo. Stavo benissimo con Luca e a noi la nostra vita piaceva così.
Sì, forse non stavo benissimo ecco, diciamo bene. Eravamo insieme da dieci anni e non si poteva stare diversamente da come stavamo noi due: a vedere un dvd sul divano il sabato sera, a pensare a cosa preparare per cena il giorno dopo, le vacanze estive, le cene con il solito gruppo che parlava di figli e di cose a noi sempre più lontane.
Non abbiamo mai parlato di avere figli, o forse si, non lo ricordo nemmeno. Non volevo figli, perché non ne volevo? Stefania diceva di non volerne perché era così felice con il suo compagno e si sentiva così completa e piena di amore che non avrebbe voluto nessun’ altra persona nella loro famiglia con cui dividerlo. In effetti loro due erano bellissimi e complementari, stessi interessi, stessi desideri di viaggiare zaino in spalla.
La sua spiegazione mi era piaciuta molto, e mi ero convinta che fosse così anche per me. Eppure no, non era del tutto così per me, io mi sentivo inquieta,
Con Luca non è durata, me ne sono accorta quando mentre si avvicinava il mio trentaseiesimo compleanno mi era venuto il terrore che potesse chiedermi di sposarlo. Non so perché, lo vedevo agitato, emozionato, in fibrillazione. Aveva iniziato a chiedermi se preferivo l’oro bianco o giallo. Ho temuto con angoscia che volesse regalarmi un anello. La cosa mi ha inaspettatamente terrorizzata e ho pensato che non poteva continuare e che non sarei stata così vile da aspettare a dirgli di no di fronte a un cofanetto blu e a due occhi pieni di speranza.
Speranza di un matrimonio e forse anche di un figlio.
La farò breve: ho conosciuto Alessandro a una mostra di fotografia dove esponeva mio fratello e dopo meno di un anno le due fantomatiche linee rosa sul test sono apparse. Non ho urlato, non ho pianto, ho solo pensato: “E adesso”?
Lo sapevo, non sono portata per i bambini e ora sarei stata una madre inadatta per una creatura che si sarebbe meritata una mamma che le parla con la vocina dei cartoni animati, che le fa le treccine e che la veste di rosa. E io odio profondamente il rosa.
Mi ero infatti anche convinta che sarebbe stata una femmina, perché certe cose le mamme se le sentono e io, vestita sempre in jeans e scarpe da ginnastica, con i capelli raccolti a coda di cavallo e mai un filo di trucco, non avrei potuto che aspettare una deliziosa femminuccia.
La mia gravidanza è volata via velocissima e no, non mi sono mai innamorata della mia pancia.
Ecco, un’altra cosa che non ho mai capito è quanto le mamme si sentano belle incinta. Non lo capivo prima e non l’ho capito neppure quando è capitato a me di non riuscire ad allaccciarmi le scarpe durante gli ultimi mesi. Aspettavo con ansia di poter tornare al mio pancino piatto e al mio seno minuto: quelle forme non mi appartenevano affatto.
Cosa posso dire ora? Isabella è bellissima: spesso mi domando come abbia potuto nascere così perfetta proprio da me, che non ho mai amato i bambini. Forse ha voluto farmi notare in maniera prepotente la perfezione e il privilegio del diventare mamma. Quando me l’hanno portata in camera in ospedale ci siamo guardate per la prima volta e ci siamo studiate in silenzio. Io mi domandavo chi fosse quel piccolo essere rugoso mai visto prima. Mi sono quasi sentita a disagio, al cospetto di quei grandi occhi blu. Blu poi, ma guarda un po’ questa piccola insolente aveva deciso di non assomigliarmi nemmeno un po’.
Forse le ero già antipatica, lì dentro la pancia mi avrà sentito ripetere chissà quante volte che non mi piacevano i bambini. I suoi occhi mi hanno squadrata per qualche secondo interminabile, e sembrava che dicessero: “Sarai in grado di essere la mia mamma?”. Già, lo sarei stata?
Per quello che può contare credo di essere una mamma che ha fatto e fa ancora del suo meglio. Ho allattato la mia bambina fino a sedici mesi e ho fatto la pace con quel seno proprompente che dava tanta gioia a quello scricciolo affamato. Ora che lei ha tre anni ho chiesto il part time a lavoro perché mi si stringeva il cuore a vederla solo per due ore al giorno. Lo stipendio indubbiamente ne ha risentito e non posso più comprre un paio di scarpe al mese, ma temperare le matite di mia figlia al pomeriggio mi dà una serenità che non avevo mai provato prima.
Isabella è vestita spesso di rosa, perché è un colore che le dona moltissimo e perché il mio cuore è sprofondato nello zucchero, come non immaginavo potesse mai succedere.
È vestita di rosa come la bambina della mamma più innamorata e che non aveva mai amato i bambini prima di allora. E no, non parlo con la vocina, parlo con la mia voce, ma credo che abbia un suono magico ora che mi rivolgo a lei mentre le faccio la coda di cavallo, perché le treccine, quelle ancora non ho imparato a farle. ●
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