La storia più apprezzata questa settimana dalle lettrici è “Quartieri alti” di Mariella Loi, pubblicata sul n. 15 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Enrico R. raccolta da Mariella Loi
Bisogna essere stati molto poveri per poter capire fino in fondo una storia come la mia, certo sarebbe più facile perdersi in giudizi ma questo non spiegherebbe il perché delle mie scelte.
Sono nato che la guerra era finita da poco e mia madre non avendo da offrirmi altro che un cumulo di macerie, dopo avermi partorito, mi abbandonò sul sagrato di una chiesa. Non ho mai saputo chi fosse, probabilmente una giovane contadina, senza marito, per la quale un figlio sarebbe stato più una disgrazia che una benedizione. Non gliene ho mai voluto per quel gesto che, se da un lato ha fatto di me un uomo solo, nel contempo, mi ha reso libero da obblighi di ogni sorta.
Penso sia partita da lì la mia voglia di riscatto, di rivincita sul mondo, l’ostinazione cieca a ottenere dalla vita quanto mi era stato negato dal principio.
Alla canonica non rimasi che per poco, fui portato in orfanotrofio e lì trascorsi i primi tre anni di vita dei quali non serbo quasi alcun ricordo. Le prime immagini delle quali ho memoria sono i volti rubicondi di un uomo e di una donna che venivano a trovarmi in istituto, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, con i quali trascorsi gli anni successivi fino al compimento della maggiore età. Di loro posso dire solo bene, gente povera, molto semplice, dedita alla coltivazione della terra che non avendo avuto la fortuna di avere un figlio proprio, era andata a prendersene uno in istituto. Della mia madre adottiva ricordo soprattutto le guance rosse, il suo camminare goffo, la risata a bocca aperta e se pure le volevo bene, è vero anche che un po’ di lei mi vergognavo. Succedeva soprattutto quando andavamo in paese nei giorni di mercato, e lei ,orgogliosa di avere finalmente un figlio suo, mi mostrava a tutti. Io un po’ mi schermivo davanti al suo esibirmi come un trofeo, soprattutto quando lo faceva con le madri di alcuni compagni di scuola che avevo l’impressione ci guardassero sempre dall’alto in basso.
Mio padre invece era un uomo di poche parole, dalla barba ruvida che radeva solo la domenica mattina, quando, dismessi gli abiti lisi da lavoro, andava a offrire le sue preghiere al santo protettore del paese. Abitavamo in campagna, in una cascina dove vivevano anche altre famiglie, con un sacco di bambini che avevano preso da subito l’abitudine di canzonarmi. Essere figli adottivi allora non è come esserlo oggi, quando parlavano di me, i più generosi mi chiamavano il trovatello, i meno benevoli il bastardo. Quelle parole per me avevano lo stesso effetto di un coltello conficcato nella schiena, una ferita continuamente sollecitata, che per questo non si rimarginava mai.
Fu per sottrarmi al dolore che mi resi impermeabile, tanto alle cose belle quanto a quelle brutte, e fu allora che si fece strada in me la convinzione che se fossi diventato ricco, nessuno si sarebbe sentito più in diritto di trattarmi a quel modo e a quel punto sarei stato io, a guardare dall’alto in basso, tutti quelli che mi avevano trattato con disprezzo. Quel pensiero divenne il mio chiodo fisso, ci pensavo tutto il tempo, eppure che io ricordi, non ne feci mai parola con nessuno. Quando iniziai le scuole medie, avevo come professore di Latino un prete molto bravo che mi prese sotto la sua ala protettrice. Dopo aver ultimato la scuola dell’obbligo, fu grazie a lui che potei proseguire gli studi: si occupò di trovarmi un alloggio in un pensionato, libri di seconda mano e un sussidio per le piccole spese di tutti i giorni. Mi aiutò anche dopo, durante gli anni dell’università che contribuii a pagarmi dando lezioni private, che lui stesso mi procurava. A ventiquattro anni ero dottore e due mesi dopo cominciai a lavorare nella Direzione Generale di una banca. Al paese ci tornavo sempre meno, se non all’inizio, per godermi gli sguardi increduli di quanti un tempo mi avevano trattato da inferiore. In banca cominciai a farmi presto una posizione, erano anni in cui ancora si poteva, se lavoravi sodo, i risultati, nel tempo si vedevano. Per qualche anno mi dedicai esclusivamente a crescere professionalmente e in questo mi aiutò anche un certo opportunismo nel gestire i rapporti dentro e fuori dal mondo del lavoro. Arrivato a trentaquattro anni, riflettei che era il momento di prendere moglie e le mie mire caddero subito sulla figlia di uno dei maggiori azionisti della banca per la quale lavoravo, un imprenditore piuttosto in vista, rimasto vedovo molto presto.
Avevo conosciuto la ragazza in compagnia del padre, durante l’inaugurazione di un’opera benefica, a favore dell’infanzia abbandonata. Anna, questo era il suo nome, era una ragazzotta venticinquenne, timida e occhialuta, non propriamente una bellezza. Ne conquistai la fiducia mostrandomi interessato alle sue attività nel volontariato, dopo averle opportunamente rivelato i miei trascorsi in orfanotrofio. Una corte discreta e assidua fece il resto: ci sposammo un anno dopo.
Nella mia decisione di accasarmi l’amore fu una variabile a cui non detti alcun peso: ero un uomo che aspirava a una solida posizione economica e il matrimonio con la figlia di un uomo in vista, era per me lo strumento, per raggiungere il mio obiettivo più facilmente. Con Anna ebbi negli anni una vita matrimoniale tranquilla, scandita dalla nascita di due figli maschi, della cui crescita ed educazione fu soprattutto lei a occuparsi.
Io, dal canto mio, non le facevo mancare niente, tranne forse la cosa più importante: il mio tempo, la presenza in casa, l’amore che un marito in genere riserva alla propria moglie. Io di lei non ero mai stato innamorato, anche se agli inizi avevo finto di esserlo ma dopo il primo periodo, con la nascita dei figli, anche la nostra vita intima si era appiattita sui binari di una scontatissima routine. A me del sesso importava poco, delle smancerie ancor meno e fu così per molto tempo, perlomeno fino a quando Silvana non entrò a far parte della mia vita. Ho un ricordo estremamente nitido della prima volta che la vidi, fasciata in un tailleur nero d’ordinanza che ne sottolineava amabilmente la figura, ma la cosa che maggiormente mi colpì in lei non fu l’aspetto fisico, quanto piuttosto la determinazione che lessi fin da subito nel suo sguardo.
Fu il nostro direttore generale a presentarmela, comunicandomi che mi avrebbe presto affiancato nella gestione di un progetto di grande importanza per la banca. Quella notizia ebbe su di me effetti contrastanti e mentre una parte del mio animo si rallegrava della piacevole novità, la parte più resistente al cambiamento ne fu addirittura infastidita, quasi si trattasse di una grana, uno spiacevole inconveniente che non ero riuscito a evitare. Silvana sul lavoro si rivelò una collega estremamente capace, lucida e lungimirante e il suo apporto fondamentale alla buona riuscita del progetto.
Nel tempo era cresciuta tra noi una certa confidenza, che si trasformò presto in complicità e, una volta cadute le barriere del mio ferreo autocontrollo, non ci mettemmo molto a diventare amanti.
Fu un’esperienza travolgente per entrambi, alla quale io non ero preparato, uno tsunami di proporzioni inaspettate, che andava a spiazzare l’ordinarietà nella quale avevo incanalato la mia vita.
Per la prima volta avevo la sensazione di non conoscermi affatto e ancor meno mi capacitavo del mio cambiamento: mi chiedevo chi fosse quell’uomo dallo sguardo nuovo, che mi guardava compiaciuto dallo specchio la mattina.
La relazione con Silvana andò avanti per due anni, senza che io mai, neppure una volta, mi fossi soffermato a chiedermi se potesse esserci un futuro per noi due, né tantomeno mi passò per la testa che lei potesse nutrire desideri in tal senso.
Queste ovviamente sono considerazioni che feci in seguito, perché le circostanze che decisero le nostre sorti furono altre, e non fummo noi a determinarle.
Eravamo sempre stati prudenti nel tessere le reti della nostra relazione e l’unica volta che ebbi una distrazione, fummo visti insieme e la cosa si riseppe. Nel momento meno opportuno, mentre veniva vagliata la possibilità della mia nomina a un ruolo ai piani alti. Venni convocato d’imperio da mio suocero, membro influente del consiglio di amministrazione che m’intimò fermamente di rompere la mia relazione. Non mi minacciò in alcun modo, non ce ne fu bisogno, il suo tono fermo fu sufficiente, a ricordarmi che a essere in gioco non era solo il mio matrimonio ma la mia carriera, tutto quello per cui avevo sempre lottato. Ruppi la relazione con Silvana il giorno stesso e anche se non glielo dissi apertamente, lei comprese al volo cosa era accaduto. Mi disse che mi aveva amato molto, ma solo perché mi aveva creduto diverso, invece ero un uomo come tanti, che alla prima difficoltà, non aveva esitato a sacrificare noi due, in cambio di una comoda poltrona al sesto piano. Io l’ascoltai impassibile, con gli occhi e il cuore nuovamente di ghiaccio, e il suo sguardo ormai spento è l’ultimo ricordo che conservo di lei. Seppi poi che era stata trasferita in una sede distaccata, in un ruolo di nessuna importanza. Il mese successivo, io ottenni ufficialmente l’investitura per il prestigioso incarico, il primo riconoscimento importante, della splendida carriera che ho avuto.
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