Ricordi d’Africa

Cuore
Ascolta la storia

La storia più votata della settimana è “Ricordi d’Africa” di Elisabetta Angelotti, pubblicata sul n. 40 di Confidenze. Una nostra lettrice, Giulia, scrive: “Un racconto in cui si intreccia l’amore per la medicina oltre frontiera all’amore tra i protagonisti”. 

 

Storia vera di Chiara C. raccolta da Elisabetta Angelotti

 

Sono adagiata su una poltrona di vimini nel patio della mia abitazione al Forte, dove sto trascorrendo gli ultimi scampoli dell’estate, e avverto la brezza serale ricca di salsedine. Improvvisamente ripenso alle serate in Africa e a quell’odore pungente e primitivo, al contempo inebriante e ripugnante, un misto di odori strani, di animali, di fiori di gelsomino, di polvere e di fumo.

Mi recai in Africa ben quindici anni fa, ma ricordo perfettamente il giorno del mio arrivo a Nairobi.

Un trolley era colmo di materiale medico e l’altro conteneva gli abiti e gli oggetti personali che avevo deciso di portare con me nella missione.

La missione era situata nella savana, fra Nairobi e Mombasa.

Era una delle più vecchie del Kenya e operava in un’area molto ampia, fornendo aiuto ai Kikuyu, ai Masai e ai Taita. Là avevano estremo bisogno di medici e così, una volta terminati gli studi in medicina e conseguita la specializzazione in chirurgia, avevo deciso di trascorrere un anno di volontariato nell’ospedale della missione.

Alta e snella con i capelli biondi, risaltavo fra la gente che affollava l’aeroporto. Indossavo una giacca di pelle, jeans infilati negli stivaletti e portavo una borsa a tracolla.

Mi avevano avvisata che qualcuno sarebbe venuto a prendermi. E infatti un uomo si diresse verso di me e mi chiese in tono un po’ brusco: «La dottoressa Chiara C.?».

Annuii e lasciai che mi prendesse il trolley.

«Sono il dottor Nicola V.» mi disse. «Seguimi» aggiunse senza guardarmi.

Uscimmo dall’aeroporto, ci avviammo verso un fuoristrada Toyota e salimmo a bordo.

Nicola era un bell’uomo sulla quarantina. Con i calzoni e la camicia cachi e la carnagione abbronzata sembrava un leggendario cacciatore bianco del passato. Nonostante non gli somigliasse fisicamente, mi fece pensare a Robert Redford in “La mia Africa”. Il volto intrigante fu ciò che mi colpì di più: aperto e al tempo stesso schivo. Le sopracciglia nere e folte suggerivano un carattere deciso e gli occhi di un bell’azzurro intenso erano severi e insondabili. Il naso era diritto e le labbra sensuali.

Mi domandò perché avessi scelto di diventare medico.

«Per aiutare la gente». Sapevo perfettamente che avrebbe potuto suonare falso perché pochissimi studiano medicina per motivazioni altruistiche, ma lui capì che ero sincera. La forza che sprizzava dai miei occhi grandi del colore dell’ambra lo convinse.

Mi spiegò che la missione distava quasi trecento chilometri e che il tragitto sarebbe stato lungo e pesante.

Percorremmo una strada circondata da verdi colline chiazzate di terra rossa. Poi il verde lasciò il posto a una distesa di erba gialla, piena di alberi.

Malgrado i sobbalzi causati dalla strada dissestata, mi assopii.

Nicola, a un tratto, mi svegliò. «Guarda là» mi disse. «Sei fortunata. Di solito è coperto dalle nubi. Non capita spesso di poterlo vedere».

Fissai la montagna incappucciata nel suo manto di nevi eterne, che si innalzava dalle pianure della vicina Tanzania. «Il Kilimanjaro?» domandai, rapita. Lui fece un cenno di assenso.

Ammirai lo sconfinato paesaggio che digradava dai monti color lavanda e risaliva in colline colorate di rosso, ocra e giallo.

Dopo un paio d’ore mi trovai davanti a un aspro deserto rosso. Mi spiegò che era il parco nazionale dello Tsavo, una delle più grandi riserve mondiali della fauna.

 

Ormai eravamo quasi arrivati a destinazione e il tramonto si stava scheggiando in mille fuochi.

Finalmente raggiungemmo la missione, un gruppo ordinato di edifici e di siepi.

La missione era diretta da padre Antonio, un frate Cappuccino alto e robusto, sulla sessantina, che si trovava in Africa da più di vent’anni.

Padre  Antonio aveva portato la parola del Signore in quella terra sperduta e aveva costruito una chiesetta e aperto una scuola in cui due giovani insegnanti impartivano lezioni ai bambini.

Nicola era il responsabile dello staff medico, al quale appartenevano anche il dottor Marco R. e alcune infermiere bianche e nere, che avevano studiato a Nairobi e a Mombasa.

Dormii profondamente tutta la notte e il giorno seguente visitai l’ospedale e rimasi sbigottita nel rilevare la noncuranza verso le norme essenziali dell’ordine e dell’igiene, che regnava in quell’ambiente. Il direttore della Ong per la quale prestavo volontariato mi aveva detto che Nicola era un ottimo chirurgo. Ma dove aveva studiato?

Gli strumenti chirurgici erano trattati senza cura, i medicinali ammucchiati, il rumoroso stanzone con una ventina di letti era disordinato e la sala operatoria in uno stato impressionante.

Non avevo immaginato di trovare uno spettacolo simile e lo dissi a Nicola.

«Ti aspettavi forse un ambiente ospedaliero ineccepibile?» mi chiese. Non tollerava che un’estranea, appena arrivata, si permettesse di criticare.

«No» ribattei irritata. «Ma non riesco a credere che voi possiate lavorare in queste condizioni».

Mi spiegò che in Kenya non si poteva ottenere di meglio e, se non ero in grado di accettare tale situazione, sarei potuta rientrare in Italia. Molti andavano là pieni di buoni propositi ma, per una ragione o per l’altra, non ce la facevano a resistere e, dopo un mese o due, facevano i bagagli e lasciavano la missione.

Lo guardai con un’espressione di sfida. Non sarei fuggita. Poi gli dissi che la Ong avrebbe dovuto stanziare più fondi.

Lui ribatté che l’organizzazione operava in tanti Paesi e i fondi erano scarsi. Non sperava in aiuti umanitari o politici. Aveva sempre lavorato sul campo e tutto quello che poteva fare era salvare una vita alla volta con i mezzi che aveva a disposizione.

Rivolsi uno sguardo ai pacchetti di garza ingialliti, agli strumenti e ai fili per le suture ormai datati, al vecchio tavolo operatorio ancora insanguinato e ricordai che padre Antonio mi aveva detto che la missione viveva quasi esclusivamente di offerte. Forse ero stata troppo precipitosa nel giudicare l’ospedale. E poi la facoltà di Medicina non mi aveva preparata per quella realtà.

 

Con il trascorrere delle settimane cominciai ad affezionarmi alla casetta quadrata di legno e lamiera ondulata nella quale dormivo e all’infermeria, dove i pazienti venivano per i trattamenti settimanali o per ritirare i farmaci. Sebbene Nicola mi rimproverasse di essere priva di senso pratico, mi sentivo sempre più attratta da lui, dal suo carattere forte e deciso, dall’amore che nutriva per l’Africa, la Medicina e il prossimo e dai suoi modi un po’ distaccati.

La passione, che Nicola contraccambiava, trovò lo sfogo istintivo tre mesi dopo il mio arrivo, in una notte in cui non riuscivo a dormire perché ero infastidita dai versi delle iene che turbavano il silenzio. Scesi dal letto e uscii all’aperto. Subito incontrai Nicola. «Non riesco a dormire» spiegai.

«Neppure io» mi disse. «Pensavo a te.» Poi, dopo un attimo di esitazione, mi strinse fra le braccia. «Ti amo, Chiara» mi sussurrò.

«Anch’io ti amo, Nicola».

Mi guidò nella sua casupola spartana quanto la mia, a eccezione di una poltrona di pelle di antilope, su cui era posato un libro aperto. I suoi occhi indugiarono nei miei. Poi mi baciò intensamente, con impazienza, travolgendomi con la sua passione.

Un paio di mesi dopo padre Antonio ci unì in matrimonio alla presenza dei miei genitori che, per l’occasione, arrivarono dall’Italia.

Avevo sempre sognato un matrimonio sontuoso ma, per amore di Nicola e della Medicina, le semplici nozze nella chiesetta con l’altare adorno di fiori di gelsomino, con indosso un abito di seta color lavanda, alla presenza dei miei cari, per me furono un giorno meraviglioso.

La luna di miele la trascorremmo sulla costa in una zona che era ancora il regno incontrastato di gabbiani, tartarughe marine e pescatori swahili e giriama, che cantavano canzoni piene di speranza per una pesca abbondante.

Passammo il tempo ad amarci e a nuotare nell’acqua tiepida e cristallina e in lunghi ma suggestivi silenzi durante i quali ci eravamo guardati con intensità.

 

Tornammo alla missione e mio marito, con l’aiuto di alcuni volenterosi Kikuyu, costruì la nostra abitazione, che arredammo con mobili che i miei genitori ci inviarono dall’Italia.

Il tempo per noi trascorse in fretta con l’intenso lavoro nell’ospedale e nell’infermeria della missione.

Due anni dopo diventammo genitori di Lorenzo, un bambino con i capelli neri e gli occhi di un bell’azzurro intenso, che crebbe con il figlio di Njangu, un kikuyu che lavorava come autista nella missione.

Un giorno, mentre stavo riposando, fui svegliata dalle grida di Marco e delle infermiere. Un brivido mi percorse la schiena. Indossai velocemente un abito e corsi fuori. Padre Antonio si stava dirigendo verso di me con aria sconsolata. Mi spiegò che Nicola stava andando a Nairobi per ritirare i medicinali e l’aereo della missione era precipitato. Mio marito era morto sul colpo. Il dolore mi attanagliò il cuore e persi i sensi.

Quando mi ripresi, padre Antonio adoperò le parole più belle per consolarmi ma mi resi conto che neppure lui riusciva ad accettare la tragedia che aveva colpito me e la missione.

La mia vita con Nicola era stata piena. Avevo potuto accumulare ricordi, condividere la passione per la Medicina, camminare con lui fino alla fine dei suoi giorni. Eppure soffrivo per non essere stata presente nell’istante in cui aveva esalato l’ultimo respiro. Pensavo di averlo tradito perché una sera mi aveva detto che, nel momento della morte, avrebbe voluto che gli tenessi la mano.

Dopo il funerale e la sepoltura, decisi di rientrare in Italia con mio figlio. L’Africa mi aveva donato molto ma mi aveva tolto troppo.

Odiavo l’Africa e il pensiero che mio marito fosse sepolto là mi tormentava. Purtroppo avevo dovuto rispettare la volontà che lui, più volte, aveva espresso.

Tornai a vivere a Firenze con i miei genitori e iniziai a lavorare in una clinica diretta da un amico di mio padre.

Sono trascorsi dieci anni dal mio rientro in Italia. Mi sono dedicata al lavoro e ho cresciuto Lorenzo, che adesso è un bel ragazzo che somiglia tanto a Nicola.

Sebbene sia rimasta vedova quando non avevo ancora trentacinque anni, non ho più permesso ad alcun uomo di entrare nella mia vita. Il mio cuore e il mio corpo sono rimasti legati a mio marito e al grande amore che ci ha uniti.

Mi sono riconciliata con l’Africa e ho programmato un viaggio di quindici giorni in Kenya con Lorenzo a settembre. Voglio rivedere padre Antonio e Marco, la missione e l’infermeria, i paesaggi selvaggi e immensi che ispirano libertà e grandezza ma, soprattutto, voglio tornare a piangere sulla tomba dell’uomo che mi ha insegnato a vivere e ad amare.

Nicola se n’è andato ma ricorderò sempre il suo fascino che lo faceva somigliare a un leggendario cacciatore bianco, il suo amore per la Medicina, per l’Africa e per il prossimo. L’ombra nera della morte ha spezzato la sua vita ma non è riuscita a distruggere il nostro amore.

Confidenze