Pur essendo un giudice abbastanza severo nei confronti di me stessa, c’è una dote che mi riconosco: saper ridere. Un’arte che mi è stata inculcata dalla più tenera età.
Sgangherata e votata a cogliere il lato ironico di qualsiasi situazione, la mia famiglia mi ha sempre insegnato che una bella sghignazzata diverte quando va tutto bene. Ma, soprattutto, rende i tempi cupi meno bui.
Una grande verità. Tant’è che nelle tragedie che a raffica ci hanno colpito, dopo gli ovvi scoramenti e la disperazione tutti noi Di Giorgio ci siamo sempre leccati le ferite mettendola sul ridere.
E se oggi la vecchia guardia è ormai decimata, io continuo a trasmettere il prezioso messaggio ai miei figli, appropriandomi delle parole di Charlie Chaplin: «Per ridere veramente, devi essere in grado di sopportare il tuo dolore e giocare con esso».
Ve ne parlo stimolata dall’articolo Oggi si celebra l’umorismo (su Confidenze in edicola adesso), riferito alla giornata del 5 maggio. Che, appunto, festeggia quell’ilarità di cui ognuno di noi ha bisogno per sopravvivere. E che, come sosteneva Lord Byron, «E’ una medicina a buon mercato».
Per continuare con gli aforismi, ne cito un altro meno famoso per il grande pubblico, ma che ha scandito la mia vita: «Essere allegri o tristi richiede la stessa fatica. Quindi, cerca di essere allegra».
Parole sante che la mamma mi ha ripetuto come un mantra da che ho memoria. Così, per me ridere è diventata una necessità. Al punto che riesco a farlo anche nei frangenti più drammatici.
Certo, se qualcuno non mi conosce può pensare che sia pervasa dal cinismo. Invece, il mio è un modo per giocare con il dolore (Chaplin docet). Per cercare di annientarlo. E per riuscire a superarlo come se fossi alle prese con un difficile video-game.
Il bello, poi, è che la strategia funziona. Magari non subito, ma alla lunga sì. Inoltre, mi aiuta ad accettare i fatti più brutti e a convivere con le conseguenze.
D’altronde, reagire positivamente è un tentativo che fanno in molti. Per esempio, quando muore qualcuno e, dopo il funerale, amici e parenti si ritrovano per trascorrere un po’ di tempo insieme.
Ecco, in quel caso c’è la conferma lampante di quanto la risata non faccia bene, ma di più.
Io l’ho provato nei due momenti più tristi della mia vita: quando sono morti il babbut e, anni dopo, mio fratello.
Fuori dalla chiesa, alla fine dell’ultimo saluto, avevamo due possibilità: tornarcene a casa a piangere ognuno per conto proprio. Oppure rinchiuderci numerosi in un bar a fare festa.
Ovviamente è stata votata la seconda opzione. E non ci è voluto molto perché il mesto gruppo si trasformasse in una chiassosa compagnia dalla quale prorompevano grasse risate. Sincere. Di cuore. Piene di gioia, come se stessimo condividendo davvero una gioia incontenibile.
Se ci siamo riusciti in quelle situazioni di sofferenza pura, la mia convinzione si è consolidata: ridere è un assoluto toccasana. Quando, poi, lo si fa con l’animo sereno, la mente libera da pensieri nefasti e nessuna ombra di malinconia nei paraggi, è il migliore elisir con cui impregnare le nostre esistenze.
Perciò, la mia idea è non cambiare mai mood e continuare a circondarmi di ilarità. Infatti: «Adoro le persone che mi fanno ridere. Penso sinceramente che ridere sia la cosa che mi piace di più».
La frase, che condivido al 100%, è uscita dalla bocca di Audrey Hepburn. Ma se vogliamo concludere a botta di aforisimi aggiungo: «Si può uccidere il male seppellendolo di risate», come sostiene Stephen King. E, ancora: «Chi non sa ridere non è una persona seria. Buffone è chi non ride mai» (Fryderyck Chopin).
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